Black Midi – Schlagenheim

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[questo articolo è uscito su Loudd.it]

Fino a qualche mese fa le tracce di “Schlagenheim” non avevano nemmeno un titolo. La playlist dell’esibizione live alla KEXP dei Black Midi è una sfilza di “Untitled” a eccezione di “bmbmbm” e vi giuro che non mi è passato il gatto sulla tastiera mentre lo scrivevo. Il brano si chiama proprio così.

Il video di quel mini-concerto lo avevo incrociato come suggerimento da non perdere, correlato da quella divinità virtuale che intercetta i gusti e dispone l’agenda delle nostre consultazioni dell’Internet a qualcosa di simile che dovevo aver visto prima su Youtube. Probabilmente i King Crimson del periodo di Belew. Probabilmente perché c’è un singolo dei Black Midi – non presente in “Schlagenheim” – che si intitola “Talking Heads”. Probabilmente per aver visualizzato qualche rumorosissimo gruppo punk. Probabilmente perché il destino ha voluto unire indissolubilmente una band nuova con un ascoltatore come me, disposto a esser loro fedele sempre, nella gioia e nel dolore, in salute e in malattia, nella buona e nella cattiva sorte, per amarli e onorarli tutti i giorni della mia vita.

Potreste quindi scoprirvi testimoni esclusivi di una di quelle travolgenti passioni che nascono proprio grazie alla rete. Io cuoricino Black Midi. Il mio giradischi linkato per sempre a Croydon, distretto metropolitano del South London, luogo di provenienza di quattro ragazzi che fanno una musica che non ha eguali, sulla terra, e dove ci sarà da qualche parte un ponte su cui chiudere un lucchetto personalizzato dalle nostre iniziali e dal quale gettare la chiave nel canale sottostante.

I Black Midi sono Geordie Greep, Matt Kwasniewski-Kelvin, Cameron Picton e Morgan Simpson, quattro giovanissimi musicisti dalla tecnica sopraffina cresciuti alla “BRIT School for Performing Arts & Technology”, una scuola altamente selettiva ma a frequenza gratuita (grazie ai finanziamenti statali) pensata con l’obiettivo di formare professionisti nelle arti e nella comunicazione, dalla quale sono passate anche Amy Winehouse e Adele.

Il nome della band invece va ricondotto a una delle espressioni più nerd della computer music, non a caso proveniente dal Giappone. Il Black Midi è il Midi estremo, spartiti elettronici riempiti da milioni di note anche come espressione visual per una sorta di ASCII art resa con la notazione musicale (il colore black perché l’intento è di riempire di nero i pentagrammi), per composizioni a malapena eseguibili dalle interfacce hardware dei comuni mortali. Un nome che calza a pennello: le improvvisazioni di partenza poi sistematizzate in brani di senso compiuto – affermazione peraltro discutibile, come vedremo tra poco – potrebbero essere il tentativo di trasferire da questa parte del computer (quella in cui ci siamo voi e io, in carne e ossa) la musica degli algoritmi compositivi di un’intelligenza artificiale. Poi scopri che tra gli ascolti formativi della band ci sono dischi da fantascienza come “On the corner” e “Get Up With It” e che, in certe interviste, i quattro citano più volentieri Béla Bartók, e la cosa si complica.

Possiamo così definire il non-stile dei Black Midi un prog-math-noise-fusion-wave, cioè quella grande chiesa inventata di sana pianta che mette insieme tutte le cose più sperimentali degli ultimi quarant’anni. Facile immaginare quanto sia divertente suonare in un disco come “Schlagenheim”, sentirsi liberi di volare dove cazzo ci pare con il basso e la chitarra grazie a un batterista così straordinariamente preciso ed eclettico. Purtroppo non saremmo all’altezza – almeno parlo per me – quindi accontentiamoci di dedicare un ascolto attento a questo che, al momento, è una delle cose più straordinarie uscite nel 2019.

A fare gli onori di casa sono i cinque ottavi dell’intro di “953” che travolgono l’ascoltatore trascinandolo giù verso i sotterranei di un brano dai mille capovolgimenti ritmici fino allo strapiombo finale, in cui un tiratissimo e vorticoso raddoppio ci fa volare a rotta di collo in un rafting strumentale lungo tortuose rapide ritmiche. Possiamo quindi definire “Speedway” un esercizio di stile prog-no wave, uno di quei pezzi che procedono uguali a se stessi dall’inizio alla fine con una matrice sequenziale alla ricerca di un’estensione in grado di definirne la natura. Fenomenale il crescendo alla fine di ogni – chiamiamola – strofa che poi non porta a nulla se non a ripartire da capo.

Non lasciatevi poi trarre in inganno dalla terza traccia “Reggae”: mai titolo fu più inappropriato in quanto a temperatura emotiva. Il cantato alterna il Peter Gabriel dei tempi in cui sussurrava “Play me Old King Cole, that I may join with you” alle altisonanti declamazioni di “Elephant Talk” e vi giuro che non c’è l’ombra di mezza ritmica in levare. Al contrario di “Near DT, MI”, su cui c’è ben poco da dire: sul versante hard core mi trovate impreparato. Posso solo suggerire il metodo migliore per affrontare il tema di chitarra a 01:49: scegliete accuratamente il vostro compagno di fuga, allacciate le cinture e rimanete ben saldi ai vostri posti, fino al segnale convenuto.

Con gli abbondanti otto minuti di “Western” siamo a metà del disco e, ancora, non ci abbiamo capito un cazzo. C’è da chiedersi come i Black Midi siano riusciti a fare a meno di un addetto all’elettronica o ai synth in questo album d’esordio e a rimanere lo stesso così vari. Qui la componente math-rock sale prepotentemente in superficie per definire ancora meglio la personalità unica del disco. Ipotesi smentita da “Of Schlagenheim”, una specie di titletrack così dispari da fare il giro e tornare pari e finalmente comprensiva di una mitragliata di sequencer, in aggiunta a una biascicata lagna vocale alla PIL che ci introduce alla personale interpretazione del concetto di prog che i quattro ci danno, per poi lanciare un finale reso con un tempo di batteria irresistibile a supporto di un efficace tormento ricorsivo di basso.

E se pensate che sia faticoso continuare su tali registri per arrivare sani e salvi alla fine siete solo inguaribili ottimisti. Prima abbiamo introdotto “bmbmbm”, senza spoilerare il repentino cambio free-noise che vi indurrà a controllare, durante l’ascolto, se per caso vi si è sputtanato l’impianto hi-fi. “Years ago” è la penultima gioiosa fatica per l’ascoltatore, tutta crescendo e interruzioni sotto l’egida di un MC dalla voce distorta, per finire con “Ducter”,  il brano di cui è stato realizzato il video e che, in effetti, risulta quello più ordinario del disco (per modo di dire). Se il mercato impone un singolo, ecco l’unico pezzo presentabile al pubblico con il minor rischio di esser scambiati per extraterrestri, per folli, per visionari, per pericolosi anarco-strumentisti riuniti in un’adunata sediziosa con l’obiettivo di sovvertire le fondamenta della musica come l’abbiamo conosciuta fino ad ora. Dare una definizione di armonia, melodia e ritmo nel Black Midi, e per una band che ha scelto di chiamarsi così, è solo una perdita di tempo.

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