chi è

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Non credo di sbagliarmi di molto ricordando che, almeno fino alla metà degli anni ottanta, l’appartamento in cui abitavo con i miei genitori non aveva il citofono. O meglio, c’era un citofono che non prevedeva la possibilità di comunicare via voce, che poi è la funzionalità principale di un citofono. L’ospite che giungeva sotto casa nostra premeva il pulsante accanto alla targhetta con il cognome della mia famiglia. Nell’appartamento del quinto piano in cui vivevo si avvertiva uno squillo molto simile a quello di un comune campanello da ingresso. Chi rispondeva da casa sollevava la cornetta – più che superflua – e schiacciava il tasto per aprire il portone, quindi si recava sul ballatoio e cercava di captare i passi della persona che stava entrando. A quel punto ci si doveva sporgere giù e si doveva gridare “chi è” con una voce abbastanza forte da essere percepita così tanti metri più in basso.

L’ospite si portava alla prima rampa della tromba delle scale, sollevava la testa e rispondeva. Lo scambio era scontato se, alla base di quel botta e risposta, c’erano accordi presi in precedenza. Il compagno di classe che arrivava a studiare da te, l’amico che ti invitava per qualche vasca in centro, la zia sarta che veniva a riportare alla mamma i pantaloni accorciati. Le visite a sorpresa invece potevano generare equivoci. Un postino appena trasferito alla nuova zona di consegna della corrispondenza in centro, il venditore del Folletto, quelli di Lotta Comunista (più o meno la stessa cosa del Folletto) o qualche personaggio misterioso.

Il bello è che sia chi conosceva il limiti del citofono di casa mia o chi capitava lì per la prima volta non aveva nessuna remora a unirsi all’eco della domanda rispondendo con le proprie generalità. E meno male che l’epoca dei troll che, alla domanda “chi è”, rispondono “stocazzo” senza indugi era ancora remota. Anzi. Nella società delle buone intenzioni di quegli anni gli scherzi al citofono erano una vera e propria insolenza di cattivo gusto, nonché una violazione della privacy. Oggi non è più ammissibile una pratica di dispetti di questo tipo. Ci sono i codici da comporre e il tasto del campanello da suonare, per non parlare delle videocamere, dei cani da guardia e del controllo del vicinato.

Pensavo però che sarebbe stato molto bello se a quel subumano di Salvini qualcuno avesse avuto la prontezza di rispondergli, al citofono e al cospetto di telecamere, microfoni e smartphone in diretta, alla domanda “scusi le spaccia?” un bel “ma va a lavorare, coglione”. Le risposte giuste non sempre ce le abbiamo pronte, a volte ci vengono un po’ dopo. E gli emiliano-romagnoli hanno comunque trovato le parole perfette per mandare affanculo lui, la signora che lo sobillava a stanare l’immigrato criminale e a tutta la Lega, ieri. Un bel risultato che, tradotto nella lingua che ci sta più a cuore, significa proprio “ma va a lavorare, coglione”.

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