i trent’anni di Violator

Standard

[questo articolo è uscito su Loudd.it]

La storia dei Depeche Mode è costellata di pietre miliari, momenti di svolta, azioni di rottura e vere e proprie resurrezioni. Possiamo elencare, a memoria, il forfait di Vince Clark, l’ingresso di Alan Wilder, l’introduzione dell’Emulator che affiancò nel loro sound il campionamento digitale ai synth, il momento buio di Dave Gahan, l’uscita di Alan Wilder, il riconoscimento mondiale nel nuovo secolo come una delle principali icone di quello precedente. Alti e (a dire il vero pochi) bassi che collocano la band di Basildon nell’olimpo della musica che bene o male piace a tutti, in tutte le generazioni. Fate una prova: salite in macchina, accendete la radio e, lungo un viaggio di un’oretta, passando da una stazione all’altra, state pur certi che almeno una canzone degli U2, una dei Queen e una dei Depeche Mode da qualche parte la sentirete.

Uno dei fattori chiave di questo successo va ricondotto principalmente a due canzoni dei Depeche Mode, “Personal Jesus” ed “Enjoy the Silence”, rispettivamente traccia 3 e traccia 6 di “Violator”, disco di cui quest’anno ricorre il trentennale. E il fatto che, “Just Can’t Get Enough” a parte, il più noto gruppo di synth-pop sia annoverato tra i padri fondatori della musica per le masse grazie a due canzoni costruite su riff di chitarra, è paradossale. Uno smacco senza precedenti per i seguaci dell’elettronica.

D’altronde il vero punto di non ritorno dei Depeche Mode è stato quando qualcuno ha messo in mano a Martin Gore quella cazzo di chitarra che, da allora, imbraccia in studio e live con orgoglio. A onor del vero, e a sua discolpa, ci tocca ammettere che Martin Gore la suona come suonerebbe un synth, ma non mi è chiaro se tutta questa indulgenza nei suoi confronti derivi dal fatto che considerare i Depeche Mode dalla nostra parte, quella dei suprematisti tastieristi, ci fa più che comodo e nessuno ha voglia di cedere al rock un pezzo da novanta come loro. A chi dovremmo lasciare il posto sul gradino più alto del podio? Ai Kraftwerk e i loro notebook sul palco che li fanno sembrare quattro (anzi tre, purtroppo) impiegati in ufficio alle prese con le tabelle pivot di Excel? Ai New Order con i loro ostinati eccessi di cassa in quattro degni di un cocoricò qualunque? O a quegli inutili poppettari melensi dei Pet Shop Boys e al loro discutibile inno dei frequentatori del Burghy di Piazza San Babila?

E poi non è da tutti confezionare un album con due brani come “Personal Jesus” e “Enjoy the Silence”. Due composizioni che, per la loro essenza guitar-based, colpiscono immediatamente perché così accattivanti e azzeccate da poter essere eseguite da qualunque formazione priva di tastiere, sempre che le formazioni prive di tastiere possano avere una dignità.

Anzi, sono così belle proprio perché l’elettronica di cui sono farcite è concettualmente marginale, in secondo piano rispetto al nucleo blues-gospel della prima e al temperamento da ballad rock della seconda. Non a caso, “Personal Jesus” la ritroveremo re-interpretata magistralmente da Johnny Cash, uno di quegli esperimenti in cui la copia supera di gran lunga, in quanto a bellezza, l’originale. Oppure provate a digitare, come chiave di ricerca, “Enjoy The Silence” + cover su Youtube e prendetevi almeno una settimana di ferie per ascoltarle tutte. Almeno una versione per ogni genere, a partire dal revamping nu-metal di Mike Shinoda. Ci sono stati anche tributi ufficiali con brani dei Depeche Mode eseguiti da band tradizionali, ed “Enjoy The Silence” – pensate alla versione dei Failure presente nella compilation “For The Masses” con gente del calibro degli Smashing Pumpkins – ha una perfezione compositiva da risultare oggettivamente più di una spanna sopra sempre, in qualunque contesto.

Con “Violator” i Depeche Mode furono anche precursori delle più moderne tecniche di marketing non convenzionale. Il lancio di “Personal Jesus” fu preceduto da una campagna di teasing con manifesti pubblicitari completamente anonimi, posizionati nelle città del Regno Unito, che esortavano i lettori a chiamare il proprio Personal Jesus. Chi ci cascava, al posto della voce del salvatore poteva ascoltare – a sua insaputa e in anteprima – il nuovo singolo della band.

Se ascoltate integralmente “Violator” – cosa che non ho dubbi abbiate fatto milioni di volte dal 1990 ad oggi – vi accorgerete però che un giudizio basato solo ed esclusivamente sulle due super hit di cui sopra è riduttivo e fuorviante. Come gli altri album della band, la tracklist è saggiamente spartita tra le voci dei due cantanti, da sempre le due anime dei Depeche. In quota Gahan, che con il suo timbro graffiante interpreta il ruolo del master, oltre ai due singoli ci sono la splendida “World in My Eyes” (standard depechemodiano fino nel midollo, con una forte vena di ricerca in formule innovative, una sorta di antesignano delle ritmiche dubstep dei decenni successivi), la seducente “Halo”, un vero electronic/rock-blues come “The Policy of Truth” e la ruvida “Clean”, con quella linea di basso all’inizio che, fino a quando non parte la batteria, sembra un campionamento di “One of These Days” dei Pink Floyd.

I palati più romantici possono invece sentirsi soddisfatti grazie all’ugola eterea (e servant) di Martin Gore, in “Violator” impegnato in “Sweetest Perfection”, la splendida “Waiting For The Night” e l’ispirata “Blue Dress”, una sfumatura pantone di outfit diversa rispetto a “Dressed In Black” ma basata sullo stesso tempo in sei ottavi.

L’ascolto di “Violator” nella sua interezza è una delle tante prove che, nel 1990, esattamente trent’anni fa, gli ottanta ormai erano fuori tempo massimo e i Depeche Mode, che già si erano liberati del synth-pop dall’album precedente e dai bagni di folla americana di “101”, puntavano a ben altri obiettivi che tenere un multipista a bobine sul palco e a giocare al noise industriale percuotendo in playback lamiere metalliche vestiti in pelle nera.

“Violator” risulta, ad oggi, il disco più venduto dalla multinazionale di Andrew Fletcher, con oltre 15 milioni di copie in tutto il mondo e con 3,9 milioni solo negli USA. Presto, oltre al tradimento di Martin Gore con la sei corde, il gruppo opterà addirittura per un batterista vero sul palco, infliggendo la pugnalata definitiva ai filologi della materia, cresciuti con una sensibilità da “Get The Balance Right!”.

Ma sapete come funziona, nella vita. Siamo giunti più che cinquantenni alla ricorrenza di un disco che, ai tempi, avevamo ascolticchiato giusto perché “Enjoy The Silence” lo mettevano persino i dj più dozzinali e, certe sere, risultava impossibile sottrarvisi. Oggi, però, sull’onda emotiva del passato, la rosa rossa in campo nero della copertina di “Violator” è più che una bandiera con cui, fieri e orgogliosi, ci arroghiamo la conquista e la colonizzazione di un vero e proprio continente culturale. Un’estetica globale basata sulla computer music di cui i Depeche Mode risultano ad oggi i campioni insuperati, e a cui qualunque smanettone dotato di un virtual synth craccato non può non esimersi dal dimostrare la riconoscenza che merita.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.