che piacere è

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Il diagramma di flusso di un distributore del caffè è una procedura esemplare che si utilizza a scuola per fare chiarezza su coding, algoritmi, programmazione informatica e tutte quelle cose di cui ci si riempie la bocca quando si parla di didattica innovativa. Nonostante ciò le macchinette distributrici a scuola restituiscono un caffè più che discutibile. La signora Anna è una collega collaboratrice – l’evoluzione dei bidelli – che mi chiede ogni ventitré del mese di stamparle il cedolino perché dice di non essere capace, a differenza di me che sono anche l’animatore digitale e responsabile della piattaforma didattica della scuola. Mi ha dato persino le sue credenziali del sito NoiPA – almeno finché anche questo accesso non diventerà ennesima esclusiva dello SPID – da cui scaricare ogni mese il PDF della busta paga per poi fornirglielo in formato cartaceo e archiviabile fisicamente. Così tutte le volte che mi vede nell’aula caffè, che casualmente è anche il locale in cui è posizionata la stampante e fotocopiatrice di plesso, mi chiede se può offrirmi qualcosa e io per educazione e perché non voglio creare precedenti faccio finta di essere impegnato a sistemare il toner o un cassetto inceppato e rifiuto giustificandomi con il fatto di averlo appena bevuto, anche se non è vero. Oggi addirittura, per sviare la conversazione, le ho pure confidato che, secondo me, il caffè della nostra macchinetta non è proprio da buttare via. La signora Anna conosce la mia storia, sa che ho una carriera di copywriter alle spalle e che, passando alla scuola pubblica, ho fatto un balzo economico a ritroso tutt’altro che irrisorio. Così mi ha risposto che, in confronto al caffè che si trova negli uffici delle aziende private, secondo lei, non dev’essere nulla di che. Pensavo che avesse voglia di fare quattro chiacchiere e così le ho raccontato che uno dei clienti dell’agenzia in cui lavoravo aveva dei distributori di caffè superlativi. Negli spazi comuni si trovavano erogatori di una marca fighissima biologica e fair-trade che sparavano fuori l’espresso più buono del mondo, una miscela di gran lunga superiore al Nespresso con cui l’avevano sostituita tempo dopo per fare i fighi e perché c’era George Clooney a fare gli spot. Ci avevano persino ingaggiati per realizzare una sorta di parodia video per pubblicizzare un loro evento marketing, trenta secondi in cui facevano il verso alla pubblicità in cui l’ex medico in prima linea faceva il piacione e chiedeva “What else?”. Avevamo girato tutto con una telecamera sola ripetendo le battute tra piani e contropiani e alla fine il risultato non era venuto nemmeno male, anche se i dipendenti che si erano prestati a interpretare la scenetta erano tutto fuorché attori professionisti. Mi è anche venuto in mente che, in agenzia da me, il mio capo ci aveva messo a disposizione più marche di caffè – con relative macchinette – lasciandoci la possibilità, attraverso una survey interna, di scegliere quella che a maggioranza preferissimo. E, a furia di parlarne, mi è venuta voglia di caffè. Così, appena la collaboratrice se n’è andata, ho inserito la chiavetta e mi sono servito. Io lo prendo amaro senza zucchero e macchiato caldo. Ho studiato le componenti e gli ingredienti dei distributori automatici perché insegno anche informatica e so benissimo che dentro non c’è del caffè vero ma del surrogato in polvere che si mescola all’acqua. Nonostante ciò lo bevo lo stesso. La signora Anna, la collega collaboratrice, non si preoccupa nemmeno del fatto che conservo i suoi cedolini nella chiavetta che uso per stampare sulla fotocopiatrice e che so che guadagna quanto me che faccio l’insegnante. Per questo non mi offro mai di restituirle il caffè che ogni tanto, per non sembrare scortese, mi tocca accettare.

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