son finiti i tempi cupi

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Perché guardare la storia inventata quando c’è la storia vera? Quando seguo ogni nuovo episodio di “Romulus” questa è la prima considerazione che mi viene in mente. Penso cioè alle serie e ai film fantasy che attingono all’immaginario del passato – “Trono di spade” in primis – e mi chiedo quanti prodotti si potrebbero realizzare partendo da fatti realmente successi e personaggi esistiti. Non che non ce ne siano, eh. E poi, sia chiaro, ognuno fa e guarda quel cazzo che vuole.

Però a saper dosare la componente cinematografica con la rappresentazione filologica e storiografico/documentaristica non tutti sono bravi. Poi è chiaro: la differenza la fanno gli attori e, come sappiamo, quelli italiani che già si trovano male a recitare come gente vissuta negli anni settanta figuriamoci a esprimersi in protolatino. Per fortuna ci sono i doppiatori che, quando il prodotto è di qualità, ne normalizzato l’effetto e ti fanno dimenticare che è stato girato in Ciociaria e non nel Colorado e che le comparse che si infilzano in battaglia con armi rudimentali provengono probabilmente dalle nostre scuole di recitazione.

Ne deriva che c’è ancora tanto da dire e da raccontare, e non solo per gli antichi romani. Villanoviani, etruschi, volsci, osci, liguri, reti e tutti quei nomi di popoli che si salvano per le interrogazioni di storia nella nostra memoria volatile, quella cioè che si formatta all’interrogazione successiva per immagazzinare altre informazioni che, nella vita, non serviranno a un cazzo a meno che non abbiate un blog e non siate appassionati di cose che non interessano a nessuno. Per non parlare poi dell’alto medioevo, dei Medici (qui qualcosa è stato fatto), di Federico II e di una delle innumerevoli cosucce accadute dal 476 d. C. fino al Congresso di Vienna.

Il fatto è che nella rappresentazione televisiva e cinematografica della storia antica ci sentiamo molto a nostro agio. Sarà una sorta di legame innato, un principio ancestrale sopito nel nostro DNA che si attiva appena ci troviamo al cospetto degli stessi ambienti in cui ci muoviamo quotidianamente e che sappiamo esser stati calpestati da milioni di generazioni prima di noi, anche se con calzature via via a ritroso sempre meno confortevoli. Le capanne, i metalli forgiati, la giustizia primitiva e le divinità sono stati patrimonio dei bisnonni dei nostri bisnonni dei nostri bisnonni dei nostri bisnonni dei nostri bisnonni e così via, con buona pace di quei baracconi turistici e polverosi che sono le rievocazioni in costume, il palio di staminchia e tutto il resto.

Per questo, con film e serie storiche, è un po’ come guardare un nastro in superotto delle vacanze al mare dei nostri genitori negli anni sessanta, solo che al posto di papà e mamma ci sono antenati delle caverne che mangiano il cuore dei nemici morti e, dove ora c’è un Autogrill dell’Autostrada del sole, prima c’era una foresta infestata di lupi e spiriti nefasti. Praticamente è la stessa sensazione ma al contrario che ti danno Blade Runner e quei rari film di fantascienza in cui ci sono le macchine volanti e i bastioni di Orione ma gli stati d’animo degli uomini sono gli stessi di quelli che vediamo oggi in coda in panetteria con la mascherina.

Lo sforzo a cui dobbiamo prestarci per la serie “Romulus” è quello di considerare i dialoghi come veicolo di narrazione. Il problema è l’eccessiva idealizzazione della modalità espressiva che si manifesta mettendo in bocca agli attori sempre la cosa più appropriata da dire e, spesso, recitata come versi di una poesia. Se già possiamo solo affidarci a congetture sulla lingua di quel periodo del latino o proto-tale, sapere il modo in cui ci si esprimesse è ancora meno realistico. Anni di versioni al liceo in un italiano che non usa nessuno hanno inoltre contribuito all’idea dell’inutilità pratica delle lingue antiche. Anche se ci sono rimaste orazioni e poemi, anche Romolo e Remo e i loro discendenti avranno avuto necessità di sviluppare un lessico famigliare, di mandarsi affanculo, di adattare uno slang o di modulare concetti semplificati spinti dalla fretta, come facciamo noi.

Continuiamo inoltre a rimanere increduli di fronte a tanta ingenuità e superstizione, il che detto da un esponente di una civiltà che crede a Big Pharma e a ogni genere di complotto potrebbe sembrare contraddittorio. L’analisi del comportamento del sangue che cola dal cranio è l’equivalente dei miracoli che spettacolarizziamo tutt’ora a quasi tremila anni di distanza. E poi ci sembra così strano assistere una tale esasperazione della spiritualità in tribù la cui economia era basata sulle pecore e i loro derivati.

Con gli episodi 7 e 8 la serie raggiunge la sua maturità ed entra in una sorta di età adulta. Si definiscono meglio le dinamiche tra i personaggi e si prospetta già il finale, che tanto è inutile spoilerare perché è scritto nero su bianco sui libri di storia. E anche in queste puntate ecco l’immancabile rimando pop: il ragazzino nella capanna del vasaio greco che sembra il protagonista del video di “Freestyler” dei Bomfunk MC’s

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