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A scuola, di musica, quest’anno si può fare ben poco. I bambini non toccano gli strumenti musicali perché potrebbero contagiarsi e pretendere che ne portino uno a testa personale da casa è improponibile. E comunque Dio ci protegga dal flauto dolce, senza contare che potrebbe amplificare la diffusione in classe del virus attraverso gli spruzzi omnidirezionali di saliva intrisa di infezione. Il protocollo sconsiglia persino di farli cantare. Che poi, con la mascherina, che senso avrebbe? Io poi evito la teoria come la peste. Non c’è niente che faccia allontanare di più i bambini dalla musica che una nuova grammatica tutta da imparare, con i suoi simboli e le sue regole. Quando sono piccoli come i miei non si può nemmeno introdurre un po’ di storia della musica, per non parlare della presentazione degli strumenti e del loro funzionamento. Ci limitiamo così agli ascolti. Metto una canzone e dopo ne discutiamo insieme. Ci è piaciuta? Ci siamo sentiti tristi o allegri? Ci venuta voglia di ballare? Chi sa come si chiama questo ritmo? e via così.

Qualche volta scelgo io, ma molto più spesso lascio la postazione del dj a loro. Ho chiesto ai bambini di segnarsi su un foglio titolo e cantante/gruppo dei brani che vogliono proporre, questo perché altrimenti non saprebbero indicarlo se non guardando i risultati della ricerca su Youtube. «È quello che inizia tutto blu», mi suggeriscono mentre cerco di capire quello qual è la canzone che mi hanno chiesto. Ma come gli dico sempre di ricordarsi i nomi dei luoghi o dei monumenti che visitano in vacanza, allo stesso modo pretendo che si abituino a definire le cose con il nome più appropriato per farsi capire dall’interlocutore. E, soprattutto, per imparare qualcosa di nuovo e non dimenticarlo più.

Il messaggio che voglio passare è che attraverso i gusti musicali possiamo conoscerci meglio perché la musica è un modo tutto nostro per comunicare qualcosa di noi. Inutile dire che le loro selezioni sono a dir poco vergognose e se il mio obiettivo – quello di sapere qualcosa di più su di noi – fosse davvero preso come strumento di indagine reciproca da una persona normale, ne risulterebbe che i miei alunni siano un branco di deficienti. Si passa dai frutti della deprivazione culturale del calibro di Ultimo e Baby K all’immancabile trap e i vari cantanti a cui un corso intensivo di logopedia non guasterebbe, fino alla spazzatura estiva su ritmi latini cantata in spagnolo, con l’eccezione di una bambina che ha i genitori fanatici di Vasco e un’altra – l’unica – che chiede canzoni dello Zecchino d’Oro.

Ma quello che sopporto di meno sono le parodie legate a Fortnite e Brawl Stars. Youtube pullula di ragazzini che pubblicano canzoni di successo a cui sostituiscono testi ispirati dal lessico slang dei più diffusi passatempi ludici online. Gente che farebbe meglio a studiare ma che, invece, può contare su milioni di visualizzazioni e si è garantita un futuro. In veste di educatore musicale, la lezione che ho tratto da tutto questo è che nelle case e nelle famiglie nessuno bada a ciò che ascoltano i propri figli. Forse non hanno tempo, forse non hanno compreso la portata della musica nella vita, o forse, in genere, la gente ascolta musica di merda e non si pone il problema che i figli facciano altrettanto.

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