dove batte la lingua

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Dev’essere come avere la testa nel casco di uno scafandro e, quel poco che si percepisce da fuori, ti arriva in un idioma alieno. Lorenzo è nato in Italia da una famiglia cinese. A casa la lingua che parliamo a scuola si pratica poco e, in più, è costretto a indossare un apparecchio acustico perché ci sente male. Una combinazione di fattori che lo penalizza dal punto di vista sociale. Malgrado l’età ha sviluppato un vocabolario esiguo che limita fortemente il suo rapporto con i pari, un po’ perché il tempo in classe è insufficiente a esercitarlo e un po’ perché le difficoltà di sentire e sentirsi, unita alla frustrazione di vivere in una bolla in cui c’è solo lui, aumentano la sua tendenza a isolarsi. La sua bravura nel calcolo e nel disegno non ha eguali. Stesso discorso in qualunque attività manuale. Dovreste vedere i suoi quaderni di italiano: Lorenzo scrive come un libro stampato. Il fatto è che comprende solo il significato di alcune delle parole ma prese singolarmente, mentre anche i periodi meno articolati lo mettono in seria difficoltà. Quando sono in compresenza con la collega mi siedo al suo fianco e, portatile alla mano, cerco di illustrargli in qualche modo il senso di quello che sente e legge. Non parla molto e il dialogo con lui non è dei più facili. Ieri, come tutti i suoi compagni, Lorenzo si è sottoposto alle prove Invalsi di seconda. Abbiamo aperto il fascicolo insieme e ci siamo trovati di fronte al racconto di due facciate che costituiva il focus del test di comprensione di quest’anno. Lorenzo l’ha letto tutto con la diligenza che lo contraddistingue, parola per parola, seguendo il testo con il suo dito indice, impiegando gran parte dei quarantacinque minuti che aveva a disposizione. Poi gliel’ho riletto io, anche se non si potrebbe, scandendo bene le parole nel microfono che il suo dispositivo di ricezione del suono ha in dotazione, cercando di mimare la storia di Anna e Lisa che, seguendo l’esempio del nonno, si mettono in testa di scappare di casa. Poi ha provato a leggere le domande. “Che cosa significa tirarsi indietro”, chiedeva una delle prove, che è già un livello di comprensione secondario rispetto a quello primario della semiotica della parola. Qualche km in più rispetto alla distanza che intercorre tra quello che Lorenzo vede stampato su un foglio e il link che quelle lettere, separate da uno spazio all’inizio e uno spazio alla fine, gli suscitano nella sua testa, che potrebbe essere chiusa in un casco di uno scafandro e immersa in un mondo in cui la gente, come dicevamo prima, si esprime in un idioma di un altro pianeta. Non saprei dire di chi sia la colpa del disagio che prova Lorenzo. La sua famiglia? La sua comunità? La nostra comunità? La scuola? I suoi insegnanti? Il mondo degli adulti senza distinzione di confini? Per mia fortuna mi hanno chiamato per intervenire nel laboratorio di informatica in cui svolgevano la prova i DSA delle quinte, con le cuffie collegate ai pc per ascoltare l’audio dei vari task. Ho dovuto lasciare Lorenzo al largo nel mare di quella storia fatta solo di parole senza un perché, tra le onde che con il loro moto perpetuo disperdono il codice che le concatena una dopo l’altra in frasi di senso compiuto. Non ho visto com’è andata a finire, ma quando sono rientrato era il momento dell’intervallo. Lorenzo mi è corso incontro come sempre, con la sua merendina confezionata in mano, per farmi sentire il rumore che fa la pellicola quando scoppia.

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