Rahill – Flowers At Your Feet

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Se, come è successo a me, vi ha colpito la presenza di Beck nel singolo “Fables” che ha preceduto l’uscita di “Flowers At Your Feet”, rimarrete sorpresi dallo stile originale e genuino di Rahill. Una dozzina di canzoni raffinate, contraddistinte da un approccio unico, in grado di mettere d’accordo i nostalgici degli anni novanta e chi apprezza le cantautrici indie di nuova generazione.

Flowers At Your Feet è uno di quei dischi che ti prendono per mano per condurti a spasso nel mondo immaginario di chi li ha composti. Un variopinto paese delle meraviglie dove, varcato lo specchio, ci si inoltra nella memoria dell’artista, un luogo popolato da ricordi intimi e ritratti di famiglia. Una sensazione di totale libertà compositiva che si propaga in un ambiente velatamente solare permeato da un moderato retrogusto di malinconia fanciullesca. Il non plus ultra per chi si diletta con la musica indie e per tutti quegli ascoltatori che, con una nuova stagione estiva alle porte, preparano un rifugio all’eccessiva esposizione alla felicità diffusa. Tutto questo grazie a un timbro sottile a tinte soul e un sound che mescola perfettamente una certa estetica sixties con l’eclettismo figlio di quel modo di giocare con i sampler in salsa lo-fi, molto popolare a cavallo tra gli anni novanta e il duemila.

Non è un caso che tra i mentori dell’album d’esordio solista di Rahill, poliedrica artista di Brooklyn già cantante della band garage-rock Habibi, ci sia Beck, che di quel movimento di transizione e raccordo tra il secolo breve e questo (che si profila brevissimo) è stato il socio fondatore, il presidente onorario e il capocannoniere. L’autore di Loser firma la sua featuring nel singolo “Fables”, traccia che non sfigurerebbe in un mashup con  “Devils Haircut”, e non solo perché basata sullo stesso bpm e costruita con uno di quei breakbeat di batteria campionati da chissà quale bootleg di James Brown.

Ma questo è solo uno degli aspetti che trasmettono la naturalezza della musica di Rahill Jamalifard, il cui nome completo svela le origini iraniane e giustifica il suo legame con il background culturale in cui è cresciuta artisticamente, dalle filastrocche in farsi di nonne e zie ai negozi di dischi usati di Brooklyn. Il suo stile apparentemente swinging e strampalato si sposa perfettamente con un approccio contemplativo e introspettivo alla narrazione autobiografica. Il risultato è un album che sorprende per l’equidistanza tra nostalgia e contemporaneità e tra i vari rimandi ai generi musicali rivisitati che qui sublimano in un eclettico (quanto indefinibile) indie-pop.

Se vi parte la prima traccia mentre reggete ancora in mano la copertina del disco, non vi stupirà scoprire come “Healing” possa aspirare ad avere come perfetto visualizer la tenera foto di Rahill da bambina, appena uscita dal bagnetto e avvolta negli asciugamani, scelta per l’artwork. Un tema ripetuto di archi accompagnato dal ritmo delle spazzole leggere sul rullante e dalle registrazioni di voci di una mamma e una figlia in fasce, una scena che non abbiamo dubbi a ricondurre a un momento di intimità rubato a un filmato amatoriale di quotidiana genitorialità.

“I Smile For E”, sullo stesso registro di “Fables” e di “Futbal”, altro singolo pubblicato nelle scorse settimane, si coglie in tutta la sua leggerezza grazie all’accompagnamento scarno a supporto della melodia, pronto ad arricchirsi sul finale di una trascinante sezione fiati, e grazie a quel du du du du du du du di voce nel ritornello, quasi un cliché della canzone scanzonata. “Tell me” è un invece un reggae destrutturato che, ai tempi degli Sneaker Pimps, non avremmo esitato a catalogare come trip-hop. Un corposo giro di basso che si snatura nel dub della strofa per poi culminare nella distorsione usata lungo i ritornelli, il tutto imbellettato da rumori elettronici e repentini cambi di loop.

Grazie a questi episodi risaltano così anche i brani meno danzerecci, come la lenta “From A Sandbox”, o “Hesitations”, in cui si amalgamano perfettamente chitarre riverberate, divagazioni di flauto e manipolazione digitale. Non manca un pizzico di psichedelia, presente in “Gone Astray” e nelle rarefatte “Nazila” e “Ode To Dad”, sincere suite per ricordi e vibrafono o poco più che sapranno come commuovervi. Superlative anche le venature jazz e r’n’b di “Rise So I Rose”, “Bended Light” e “Note To Self”, di sicuro il singolo che verrà, la traccia di chiusura perfetta per un disco in quanto egregia sintesi di tutto quello che l’ha preceduta e impreziosita da un andamento raffinato che ci ricorda certe hit dei Morcheeba.

Malgrado Flowers At Your Feet sia l’opera prima di una nuova talentuosa cantante, si lascia cogliere come un album incredibilmente maturo ma senza compromessi in freschezza e spontaneità. Un disco che permette a Rahill di presentarsi nel migliore dei modi: una compositrice dalle idee chiare, versatile e determinata, in grado di padroneggiare differenti stili e di adattarli a una creatività fuori dal comune.

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