Egyptian Blue – A Living Commodity

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Stare dietro alle nuove uscite di dischi post-punk e distinguere quelle di reale qualità, di questi tempi, è un’impresa. Il rischio per i militanti del genere, soprattutto se emergenti, è quello di rincorrere l’affermazione affiliandosi a uno dei generi del momento senza una visione a lungo termine. Ogni nuova uscita è bene prenderla con riserva. Molto meglio aspettare il secondo disco, per verificare se si ha a che fare con un progetto da una botta e via o c’è invece dietro della sostanza in grado di garantire la crescita e la definizione di uno stile più personale.

In questo scenario, possiamo considerare gli Egyptian Blue un’eccezione a tutti gli effetti. Il loro debutto a trentatré giri dal titolo A Living Commodity suona già come una conferma e un traguardo di maturità compositiva.

Sarà che la band pubblica singoli e EP dal 2019 e che (sopravvissuti alla selezione naturale artistica imposta dal lockdown) sono stati chiamati a condividere il palco con gruppi della portata degli Idles e dei Foals nei loro tour. I rispettivi leader, Joe Talbot e Yannis Philippakis, si sono dichiarati sostenitori entusiasti di questo quartetto originario di Colchester, poi cresciuto musicalmente a Brighton. Non a caso, se vogliamo dare delle coordinate, gli Egyptian Blue professano influenze indie-rock anni 2000 (che grazie a loro acquisisce lo status di classico a tutti gli effetti) più che dall’onnipresente famedio degli anni ’80.

Il nucleo fondante di questa nuova promessa del post-punk è capitanato dal ticket Andy Buss e Leith Ambrose, entrambi chitarristi e cantanti che si frequentano musicalmente dall’adolescenza, e completato dalla potente propulsione ritmica di Luke Phelps al basso e Isaac Ide alla batteria.

Il quartetto è artefice di un suono che rielabora gli standard specifici del genere con un inconfondibile piglio personale, caratterizzato da riff graffianti che sconfinano nel math-punk, spesso in tempi dispari, ripetuti in loop, e destinati a incastrarsi brutalmente in basi quadrate e martellanti, sulle quali si normalizzano straordinariamente in un andamento regolare e ipnotico. Nell’insieme, un suono elettrico e pulito basato sulle chitarre, veloce e a forte impatto, con tracce essenziali e compatte che concentrano, in tre minuti o poco più, tutto quello che c’è da dire.

Il disco suona nervosissimo dal primo all’ultimo brano, sia nelle tracce in cui l’intransigenza post-punk non ammette compromessi, come “Matador”, “Nylon Wire”, “To Be Felt” e “Contain It”, sia nei brani in cui la voracità esecutiva lascia spazio all’introspezione e all’atmosfera, è il caso della titletrack, di “Apparent Cause” e di “Suit Of Lights”, sia negli episodi più riusciti del disco, in cui la rabbiosa scrittura della band è mediata dalle incursioni in trovate ritmiche scomode ma gestite con grande perizia, grazie alla tecnica esecutivo dei quattro. È infatti in canzoni come “Belgrade Shade”, “Skin”, “In My Condition”, “Geisha” che A Living Commodity risalta nella sua eccezionalità, grazie a uno stile fuori dagli schemi che ci auguriamo che la band – sicuramente una delle più convincenti promesse della più recente scena anglosassone – abbia l’intenzione di approfondire.

Di certo, l’esordio degli Egyptian Blue, perfezionato lungo varie scritture e riscritture e pubblicato da YALA! Records, etichetta co-fondata dall’ex componente dei Maccabee Felix White, è uno dei più freschi debutti sulla piazza. Un’opera prima ambiziosa di una band destinata a lasciare il segno

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