tutto pieno

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Se i primi giorni del nuovo anno accusate un po’ di disillusione rispetto alle aspettative di disruption, come dicono quelli del marketing, è solo perché fino al termine delle feste bisogna consumare per forza di cose gli avanzi dell’anno precedente, comprese le giornate stesse. Quindi, fino a lunedì, niente cambiamenti degni di nota perché si vive ancora incapsulati in questi rimasugli di 2023. Sarebbe inutile allestire un ambiente nuovo di pacca con il rischio di sporcarlo di monconi di petardi, briciole di zucchero a velo e gelatina contaminata dal paté. Se non ci credete, leggete dietro l’etichetta di questa settimana e vi toglierete ogni dubbio. Meglio così. Lunedì mattina sentiremo quel profumo di plastica nuova che ha il 2024, almeno per chi lo ha scelto di questa fragranza. Per me è importante perché mi ricorda lo stereo nuovo che aveva portato a casa mio papà quando facevo prima media. Ho ancora un po’ di quell’aria che è sprigionata dal vano delle cassette, quando lo ho aperto la prima volta. Sono stato molto lungimirante a metterne un po’ da parte, così quando ho bisogno di dare riferimenti a qualcuno su quello che mi occorre per viaggiare nel tempo mi basta fargli dare una snasata. Ho diverse boccette con essenze di questo tipo. La più preziosa è la cute di mia figlia quando è nata, ma quella è come il barolo del 64, la stappo solo per le grandi occasioni. Conosco invece persone che hanno preferito, rispetto all’anno nuovo, un usato sicuro, magari a km zero. Io non ne sono molto convinto, credo che comunque sia bene guardare oltre e puntare al futuro, ma capisco che ci siano persone che preferiscono accontentarsi come nei giochi che trasmettono alla tele, quelli presentati da Amadeus, uno che è bravo a rendere complesse dinamiche che, prive della sua narrazione, sarebbero così fragili da esaurirsi in una manciata di secondi. So solo che vi partecipano concorrenti che devono solamente tentare la sorte e subirne le conseguenze, nel bene e nel male. Ma se tutto ciò vi sembra disastroso, consolatevi col fatto che, già a pochi secondi dalla mezzanotte di capodanno, eravamo già abbondantemente più di otto miliardi di persone. Un dato incontrovertibile che ho provato sulla mia pelle nell’istante in cui, in un impeto di disarmante sprovvedutezza, l’ultimo dell’anno vecchio, ho avuto la presunzione di pensare di trascorrere la sera del 31 al cinema Anteo di Milano senza aver prenotato i posti con adeguato anticipo. Il carico di insensatezza del mio tentativo ha servito alla cassiera al botteghino di uno dei cinema più esclusivi della metropoli ai margini della quale vivo l’inaspettato assist per dare sfogo al livore di dover lavorare la sera di capodanno, aumentato in scala esponenziale dalla frustrazione di esercitare uno dei pochi mestieri umili ai margini di un settore a elevata visibilità come quello dello spettacolo (per di più nella capitale dell’entertainment nazionale), attraverso una reazione (probabilmente in lei latente da secoli, considerata la prontezza con cui la risposta è stata estratta e il carico di stizza impiegato per la deflagrazione letale) volta ad annientare il candore del mio approccio da autodidatta al sistema comunemente definito come “saper stare al mondo”. Era tutto pieno, e se abbiamo toccato quota 8 miliardi lo sarà sempre più frequentemente. In così tanti, poi, lasciatemi pensare a chissà quanta musica nuova inventeremo. Qualcuno sostiene che, a differenza delle probabilità dei pacchi di “Affari Tuoi”, le combinazioni tra le note, gli accordi e i ritmi non sono infinite, che non c’è più spazio per nulla, che l’entusiasmo per le nuove uscite discografiche non ha senso di esistere perché viviamo in un perpetuo riproporsi di sonorità evocative del momento migliore di tutti, quello in cui il tempo si è fermato, quello che ci ha reso immortali.

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