giorgia

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Il presentatore l’ha annunciata e tutto il pubblico si è alzato in piedi, scandendo a tempo le sillabe del suo nome. Gior-gia, Gior-gia. Gior-gia. Il sangue nelle vene si è gelato quando, dalle quinte che sovrastano la celebre scalinata del palco di Sanremo, è comparsa lei, la presidentessa del consiglio, tutta azzimata in quel suo stile vorrei-essere-percepita-come-la-Merkel-ma-non-posso che le sta da cani. Gradino dopo gradino ha raggiunto il presentatore, mentre l’orchestra e il coro accompagnavano la discesa con l’inno di quel Mameli di cui le patrie tv stanno per mandare in onda la nazifiction e a quel punto, ormai sotto choc, mi sono precipitato a cambiare canale.

La ierofania di cui ieri sera siamo stati involontari (tele)spettatori ha sancito il definitivo strappo, consumando la fase definitiva di uscita dell’Italia dal resto del mondo, almeno sul piano musicale. Per la prima volta nella storia ci siamo totalmente emancipati dal modello stilistico angloamericano raggiungendo la perfetta autarchia armonico-ritmico-melodica. Uno stadio a cui siamo approdati a seguito di un lungo e granulare processo di mutazione perpetrato simultaneamente attraverso i canali che circondano le nostre giornate. La scuola, la cultura, la tv, Internet e i social, quel che resta della carta stampata e della radio, i centri commerciali e i mercati rionali.

Ora siamo finalmente indipendenti, sotto il profilo musicale. La musica tricolore si conferma un genere a sé grazie al quale non abbiamo bisogno di nulla altro. Il pop si è fuso con la melodia tradizionale, il rap si è snaturato in una versione di sé perfetta per la nostra attitudine al melodramma e per la nostra lingua priva di parole tronche, il rock si è piegato all’impeto operettistico e l’indie si è fuso intorno al cantautorato mainstream da quattro soldi, quello che un tempo si ascoltava in playback all’Arena di Verona nella serata finale del Festivalbar. Un trend impossibile da non cogliere, soprattutto se, come me, seguite in modo ossessivo compulsivo quello che succede negli Stati Uniti e in UK, ma anche in posti meno riconducibili alle rockstar come Germania, Belgio, Francia e Australia. Ho scoperto persino una band turca, che fa musica pazzesca.

Oramai tutto questo non serve più. Il processo di isolamento musicale e della non-dipendenza da Bruxelles e, in generale, dai paesi che contano si è compiuto. Ora possiamo fare a meno delle canzoni straniere, avere meno metri di paragone, farci piacere solo quello che ci viene subdolamente imposto e percepire il regime che si è consolidato come il migliore dei mondi possibili. Trap e baby gang, quello che viene fatto passare come il massimo della devianza giovanile, consentono al sistema di incorporare perfettamente il cosplaying della trasgressione più estrema, mentre i loro fratelli di poco maggiori partecipano ai concerti sold-out dei boomer rapper. In quota mainstream, il software-pop riempie stadi e palasport per più sere di fila, malgrado il costo dei biglietti e le difficoltà di accaparrarseli sulle piattaforme di ticketing online. Il monopolio del rock è saldamente nelle mani di Damiano David e dei suoi sodali. Da questa parte del mercato, l’identificazione liquida in questa manciata di categorie stilistiche si fonde in un magma indefinito fatto di streaming, meme, gag su tik tok, talent e retromania acritica.

E comunque, avete ragione. Possiamo considerare il Festival di Sanremo il super bowl di tutto questo, il rito finalmente purificato da ciò che prima contaminava la nostra italianità, la messa di Natale della canzone, dove Amadeus, al quinto mandato, ricopre in modo esemplare il ruolo di sommo sacerdote. Meloni e melodia hanno la stessa radice, d’altronde. Baci e smorfie LGBTQIA+ e ammiccamenti alla pace nel mondo sono inclusi nel pacchetto, una famiglia che si rispetti deve pur avere un figlio un po’ ribelle o impegnato da redimere per mission e verso il quale dimostrare la propria autorevolezza con le sembianze di magnanimità.

Per questo, al compimento della gestione Amadeus, possiamo finalmente sbrigare la pratica delle pagelle del Festival di Sanremo in pochi caratteri, spazi inclusi. Le canzoni, quest’anno, fanno cagare a spruzzo. Tutte. Anche quelle più raffinate, come i Santi Francesi o Geolier, o quelle più presuntuose, come Mannoia, Ghali e D’amico. Sono tutte uguali, tutte ricordano qualcosa, tutte hanno successioni di accordi standard, accordi tricolore suonati con strumenti tricolore che danno vita a composizioni perfettamente riconducibili alla musica tricolore, come la pasta e la mafia. Un unico specifico che ci siamo scelti perché ci piace essere così, ignoranti, mascalzoni latini e diversi da tutto.

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