il peggio sembra essere tornato

Standard

E all’improvviso è comparso Sergio Caputo. Che storia bizzarra. Ho acceso la tv su RAI5 mentre finivo di bere il caffè, e in una replica dell’anno scorso di una replica del 1983 di Mister Fantasy è riemerso Sergio Caputo. Mi è andato persino un sorso di caffè per traverso. Vi giuro lo avevo rimosso, credo ormai da venticinque anni ma con non poca difficoltà perché, non ci crederete, aveva un potere occulto sui musicisti ed era la mia bestia nera. E solo perché allora suonava quella specie di pop swingato sintetico, che a sentirlo oggi, con i fiati farlocchi, fa rabbrividire. Tutti i musicisti dilettanti potevano così mettere in pratica la loro tecnica comprata al chilo alle lezioni di jazz e aumentare a piacimento il numero dei rivolti e delle sostituzioni di passaggio tra un accordo e il successivo, e anche il più semplice maggiore o minore si ritrovava schiacciato da settime e none e undicesime e tredicesime e quindicesime, aumentate e diminuite quanto basta. E, sopra tutto questo, il vocalist poteva svolgere contemporanemente la sua funzione di crooner e di cantautore e di piacione dietro i suoi baffi biondi. Non gli sembrava vero.

Questa cosa è andata avanti per anni, anche quando Sergio Caputo ormai non se lo filava più nessuno ma le cover band eseguivano, nelle piazze d’estate o alle Feste dell’Unità, i pezzi di Sergio Caputo che nessuno sapeva nemmeno chi era. Cover band che, appunto, si chiamavano i Sergicaputi. Mettevi su un gruppo con gli amici per fare qualche serata, e stai sicuro che almeno uno stronzo che proponeva un pezzo di Sergio Caputo lo trovavi, o il Sabato italiano o il Garibaldi innamorato. Perché solo con Sergio Caputo si poteva lanciare un messaggio agli intenditori: hei bello guarda che io studio jazz, mica faccio i New Order con quei sequencer campionatori e puttanate varie che schiacci play e suonano da sole. Insomma, faceva caldo ma non sudavo. È ricomparso Sergio Caputo e, forse perché le estati di allora me le ricordo torride, chissà perché, ho iniziato a sudare.

material issue: valerie loves me

Standard

Era il 91 e mi piaceva da morire questo pezzo. Mi chiedevo che fine avessero fatto i Material Issue, ho scoperto così che il cantante Jim Ellison non è più. Già dal 1996. E io ai tempi, quando era uscita, volevo farmi la maglietta con il titolo di questa canzone. Indovinate perché.

una splendida giornata

Standard

Sottotitolo: il post definitivo (mio, e chi mi credo essere…) su Vasco Rossi e sul suo ritiro.

Sei un fan di Vasco? Sei un mio amico e sei fan di Vasco? Allora questo post non fa per te. Nel primo caso, non puoi essere sufficientemente obiettivo da condividere il mio parere. Nel secondo caso, potresti essere tentato di farne una questione personale e, chiunque tu sia, sappi che personale non è. Cerca di non riconoscerti tra queste righe, e se cogli qualche riferimento privato parliamone, saprò convincerti del contrario. Inoltre, di alcune cose ne ho già parlato più volte in questo blog, ma perché non affrontare nuovamente il problema sfruttando la notizia del momento? Quindi, apriamo le buste. Tema: Vasco lascia le scene per manifesti problemi anagrafici, e non solo. Svolgimento.

È facile identificare il momento in cui ci siamo accorti che Vasco Rossi era diventato un qualcosa di più che l’ennesima rivelazione emersa da un sottobosco di rock italiano ancora fermo alla generazione precedente e che per nulla riusciva a rappresentare il nuovo modello di giovane di allora: disimpegnato, non tanto tossico quanto sconvoltone, ai tempi si diceva “sballato”, un aggettivo così anacronistico da farmi vergognare di averlo scritto, poco raffinato ed equidistante sia dai Clash (per non parlare del post-punk italiano, nemmeno preso in considerazione a questo livello) che da un qualsiasi cantautore dell’epoca che iniziava ad essere fuori luogo, più che fuori tempo.

Quel momento è stato quando abbiamo incontrato un amico chitarrista vestito e pettinato tale e quale a Vasco Rossi. Siamo nel 1982. Tanto che negli ambienti della cultura giovanile di allora, come l’ARCI, indossare una maglietta con l’effigie della copertina di Siamo solo noi era oltremodo disdicevole, ed era un attimo a prendersi botte di “stronzo borghese” (cit.). Quasi più rischioso che sfoggiare spencer dalle spalle imbottite e spacciarsi New Romantic.

Insomma, per farla breve, Vasco Rossi piomba in una generazione senza anticorpi e in effetti, se non ci pensavi più di tanto, il genere così un po’ rock con qualche pezzo addirittura reggae ti poteva trarre in inganno. E come biasimarci. Le parole in un italiano così diretto come nessuno mai era riuscito a scrivere hanno scardinato trasversalmente un po’ tutti. Passa poco tempo, ed ecco il manifesto del pensiero rossiano, la vita spericolata a rischio ritiro patente per etilometro, che dalla vetrina di Sanremo spicca il volo per raggiungere una vetta senza ritorno, a cui, nemmeno oggi a distanza di vent’anni, nessuno, nemmeno Ligabue (ecco forse quasi avrei preferito si fosse ritirato lui) è arrivato.

Non mi piace Vasco perché ha catalizzato, monopolizzato e gestito in modo poco proficuo, per lo sviluppo e la crescita di almeno 3 generazioni di giovani, energie positive e costruttive con le quali si poteva tranquillamente fare altro che una rivoluzione. Ma mi sarebbe bastato una presa di coscienza, qualche parola su qualcosa che andasse oltre le sue tematiche standard. Che poi magari bastava solo una parola sbagliata o un pezzo sul piacere della cosa pubblica anziché la monotonia del vivere chiusi nel proprio guscio di periferia (qualcosa di più di cosa succede in città, sia chiaro) ed ecco che ti giochi un parte del tuo bacino di consenso. Che poi, a dirla tutta, secondo me, una volta che hai fatto innamorare di te così tante persone ti seguono ovunque vai. E allora, diamine, e dì qualcosa di sinistra anche tu.

you were a kindness: the national

Standard

Quando la giornata inizia così.

jazz di stagione

Standard

saturday at the village vanguard

Standard

Il 25 giugno 1961 il Bill Evans Trio – una delle più grandi formazioni jazz di sempre – suonò al famoso Village Vanguard di New York, il locale del Greenwich Village. Era domenica e il trio aveva a disposizione sia l’esibizione del pomeriggio che quella della sera. Bill Evans, morto nel 1980 a 51 anni in conseguenza degli abusi di droghe e di una salute debole, è considerato tra i più importanti pianisti della storia del jazz. Con Bill Evans, che quel giorno aveva 31 anni, in quella formazione del 1961 suonavano il bassista Scott LaFaro e il batterista Paul Motian. Scott LaFaro morì a solì 25 anni in un incidente stradale appena dieci giorni dopo quel giorno, e due giorni dopo aver suonato con Stan Getz al festival jazz di Newport. (Il Post)

Oggi era sabato, ma di Bill Evans e di quel live ce ne ricordiamo sette giorni su sette.

mulatu astatke & the heliocentrics: yekermo Sew

Standard

Ieri sera ho rivisto Broken flowers, tutto qui.

saturday night in the city of dead

Standard

C’è un punto in cui è facile entrare nel piccolo cimitero di L. Non è necessario nemmeno scavalcare il cancello, c’è solo una rete da sollevare e si è già dentro. Il kit della notte bianca tra le tombe è distribuito tra tutti: il riproduttore di musicassette, birre, i plaid per stare al caldo sul marmo gelido, un paio di torce. Non è facile distinguerli mentre si inoltrano tra i cipressi, la luna è nuova, e sono tutti rigorosamente vestiti di nero. Si siedono sulla tomba che ricorda la copertina di Closer, che poi è una foto scattata al cimitero monumentale di Staglieno. C’è una lapide orizzontale, sulla terra, sovrastata da un angelo affranto. Si stendono i plaid, qualcuno stappa una birra, qualcun altro tira fuori una canna preparata prima dove c’era un po’ di luce. Per la musica sono tutti d’accordo sui Bauhaus, perfettamente in tema.

Il gruppo è formato da un paio di coppie a cui si aggiungono 2 ragazze e 3 ragazzi, uno dei quali tende sempre a esagerare, è convinto di avere un canale prediletto con l’oltretomba, ma in quel frangente, sono tutti in odore di reato e basta un niente per passare la notte in caserma e finire il giorno dopo esposti sulla cronaca locale al pubblico ludibrio, è bene stare tranquilli e limitarsi alla bravata di moda. La nottata fila via liscia. Le coppie si limonano, 2 ragazze e 2 ragazzi flirtano sulla voce di Peter Murphy, il quinto, quello che tende a esagerare, ogni tanto si eclissa nel suo canale privato con l’oltretomba. Poco prima dell’alba, si rimette tutto in ordine e ci si prepara per tornare alle rispettive abitazioni. Un paio di loro, e non sono meno gotici degli altri, si sono addormentati. C’è qualcuno che ha passato il giorno a lavorare, anche se sembra poco nobile per una creatura della notte.

E quello che tende a esagerare, si scopre che ha esagerato ancora. Dal tascapane militare nero spunta una lunga croce di acciaio, dentro ci sono anche un paio di lumini, tutto materiale trafugato, dice lui, dalle tombe meno curate. Una delle ragazze, una delle più carine che sembra uscita da un video dei Banshees, gli aveva chiesto se gliene procurava una. Per lui è stato quindi un piacere doppio, una prova di amore, una sfida all’aldilà. Ma Sara, la darkina tutta eyeliner e smalto nero, a casa però un po’ si vergogna di appendere quella croce funerea sulla parete, i genitori ne chiederebbero la provenienza. Per il momento il lugubre pegno d’amore finisce nascosto nell’armadio. E qualche ora dopo, addormentata, ed è praticamente mattino quasi inoltrato, ecco i rimorsi palesarsi attraverso l’inconscio in un sogno tendente all’incubo fin troppo nitido.

Da una tomba a loculo, nel sogno, Sara sente una voce straziante lamentarsi: “Saraaaaaaaa, lasciaci dormireeeeeeeee in paceeeeeeeeeeeee”. Ora, vabbè essere amanti del gotico, ma quello è troppo. Appena si sveglia, è il primissimo pomeriggio ed è sola in casa, in poche ore si veste con i pochi abiti colorati che possiede dalla precedente vita, quindi sale sull’autobus, la linea che porta al cimitero, all’ingresso del quale – sarebbe troppo rischioso cercare la lapide con la croce mancante, e se poi la lapide fosse uguale a quella del sogno è sicura che non reggerebbe il colpo – lascia il corpo del reato, e triste nella sua tristezza gotica perpetua rientra a casa. A rivestire gli abiti neri.

Il giorno successivo, nella prima pagina della cronaca locale, la principale notizia recava il titolo “Vandali devastano il cimitero di L.”, ma il giornalista parlava di semplici balordi, con molta probabilità tossicodipendenti.

poi ci troveremo

Standard

«si può essere così dispiaciuti per la morte di una persona lontana, di uno che nemmeno si conosce?» la risposta è sì. sono più dispiaciuto per la morte di clarence clemons di quanto lo sia stato per la morte di alcuni parenti che non vedevo da vent’anni, e con cui nei precedenti dieci avevo avuto relazioni che potrebbero essere annoverate, se esistesse, in un guinness dei primati della distaccata cordialità. «ma non è una cosa tremendamente stupida?» cosa? anteporre un affetto sincero, quello per la musica di clemons, o di un qualunque altro musicista, a una – quella sì – stupida semplificazione che ti vorrebbe distrutto e in lacrime per la morte del cugino di terzo grado di tuo cugino di quarto grado, o per la morte dell’amorevole vicina di casa che, quando eri ragazzino, aveva ideato un sistema infallibile per impedirti di giocare a pallone nei dintorni del suo giardino, aprendo il cancello e liberando un cane, tanto attratto dal tuo tango di cuoio appena rubato al compagno di classe ricco? no, non è stupido, è la cosa più sincera e umana che si possa provare. mi dispiace che clarence clemons sia morto perché, d’ora in poi, sarà un mondo senza di lui. il mio mondo, quello che conosco come tale dal millenovecentosettantacinque, comprende tutta una serie di persone che potrei ordinare in caselle: /famiglia /amici /calciatori /attori /registi /scrittori /musicisti. il fatto che non abbia mai avuto rapporti con il novanta percento degli incasellati, che non ci abbia mai bevuto insieme è del tutto irrilevante. tutte le obiezioni sulla assoluta immaturità di un simile atteggiamento – quasi fosse un lutto adolescenziale, degno di essere annotato sopra una smemoranda consunta – vengono seppellite dal fatto che la nostra vita di questo è fatta. la nostra vita è fatta di cose e di persone, che spesso non conosciamo, e che esercitano un’influenza decisiva sulle nostre scelte e sulle nostre azioni. libri, musica, film. ci sono cose e persone, e tra le cose ci sono le parole, i suoni, i rumori e la musica, e tra le persone ci sono quelli che la musica la fanno. cediamo loro uno spazio enorme delle nostre vite, gli apriamo le porte delle nostre camere da letto o quelle di case che ci ricordiamo a malapena, ma di cui ricordiamo stanze in cui abbiamo fatto un pezzo della nostra esistenza, luoghi in cui abbiamo fatto le cose peggiori (e a volte migliori). in quei luoghi reconditi, in quegli spazi nascosti, abbiamo lasciato entrare poche persone selezionate e tantissima musica, e quegli spazi, quelle stanze, quella musica, non sono altro che un fotogramma di una progressione disordinata di eventi che, incidentalmente, si trasformerà nella nosta vita, in cui c’erano clemons, springsteen, i beatles, i cure, gli smiths, i depeche mode, i pink floyd, mentre del cugino di quarto grado del cugino di terzo grado, nessuna traccia.

Una versione di chamberlain. La mia famiglia di origine, ultimamente, è fatta così, vero zio Miles?

fuori controllo

Standard

Ma non trovate che la foto del momento:

sembri tratta da