visto in tv

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Mi è capitato solo tre volte nella vita. La prima, ero in giacca, camicia e cravatta fresco fresco di un trenta in grammatica latina o giù di lì, in fase post-adrenalina da esame superato alla stazione di Genova Principe. Ero in attesa del localissimo per tornare a casa e vantarmi del successo accademico con mamma e papà. Ingannavo l’attesa sfogliando distrattamente l’ultimo numero di Rockerilla, nella hall pre-ristrutturazione, probabilmente infastidito dalla voce metallica che, un tempo, era il costante sottofondo di chi aspettava pazientemente notizie sul binario di arrivo del proprio treno. La voce metallica, sì, chi abita a Genova sa di cosa sto parlando. Ma questo non ha importanza, ero lì tenuto d’occhio come al solito dalla Polizia Ferroviaria in borghese, agenti che si riconoscevano lontano un miglio per via del marsupio e delle camicie improbabili, io ero il sospetto a causa del mio capello lungo e ordinatamente trasandato, quando mi si avvicina il maschio di una coppia sulla cinquantina in attesa come me, e con fare discreto, guardandomi negli occhi attraverso un paio di lenti bifocali, mi approccia chiedendo: “Scusi se la disturbo, ne stavo parlando con mia moglie, ma lei per caso è Luca Barbareschi?“. Era il 92, non so che programma televisivo facesse il futuro parlamentare berlusfiniano. Mi schernii incredulo, l’agente Polfer seguì la scena pensando che il curioso fan fosse in realtà un cliente della partita di droga che il suo fiuto investigativo immaginava nascosta chissà dove nei meandri del mio corpo.

La seconda, non in ordine cronologico ma solo narrativo utile a lasciare il posto finale a quella che leggerete tra poco come climax di questo post, dicevo la seconda è di qualche anno fa. Era il tempo della prima stagione di X-Factor, e un gruppetto di studentesse del liceo di fronte al portone del mio ufficio, vuoi la distanza – loro erano alla finestra del secondo piano e io per strada -, vuoi per alcuni elementi effettivamente analoghi quali basette, mosca, capello sale e pepe, forma del viso, insomma una di loro mi chiamò da lassù: “Morgan!“. Io mi voltai, più incuriosito per vedere dove fosse l’ex leader dei Bluvertigo e magari incontrarlo da vicino, che vittima consapevole di un equivoco da post-lettrici di Ragazza In. Fatto sta che le liceali presero la mia reazione come la prova della mia identità ed emisero un gridolino di giubilo, presto smorzato più dalla delusione che dai modi sbrigativi di una bidella curiosa quanto loro.

La terza, invece, è un episodio simpatico, vi sfido a provare il contrario. Su un inserto di Repubblica che si chiamava Musica, correva l’anno 1996, uscirono un paio di foto della band in cui esercitavo il mestiere di addetto a synth e campionatori, all’interno di uno speciale sulla nuova musica italiana dei tempi. E l’influenza del nostro manager fu tale che una di queste, a presentazione del servizio che era il principale di quel numero, fu stampata in copertina dell’inserto. Naturalmente ne comprai una dozzina di copie, una delle quali tenni aperta, in bella mostra, la mattina stessa recandomi in treno in sala prove. Il messaggio era chiaro: guardate tutti, quello lì non è che mi somiglia, sono proprio io. Si, sono in prima pagina di Musica di Repubblica. Ehm. Probabilmente la foto era davvero piccola, fare notare la coincidenza ai passeggeri intorno era troppo per la mia riservatezza. Nemmeno lo studente a fianco che mi chiese se poteva dare un’occhiata se ne accorse. Solo mio cugino, qualche giorno dopo, mi chiamò per congratularsi. Beh, dai, avrei potuto mentire e inventare un finale diverso, almeno questo me lo riconoscerete no? E va bene. Mi è capitato solo due volte nella vita. E mezza.

tUnE-yArDs – bizness

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metro-politan

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Milano, linea rossa, direzione Duomo. Non è l’ora di punta, si trova ancora qualche posto a sedere; il tragitto, una decina di fermate in tutto, non è brevissimo, posso dedicarmi al mio libro, l’ennesima storia di squallore nella provincia statunitense. La temperatura è torrida, l’aria ai limiti della respirabilità, il sedile bolle sotto il mio abito poco indicato alla stagione. Si chiudono le porte alla stazione successiva a quella in cui sono salito io, ormai sono in trance, immerso nella lettura. Il convoglio riparte, e sento che c’è qualcosa che mi disturba, come un’interferenza che mi riporta alla realtà. Qualcuno sta cantando, a pochi passi da me. L’intrattenimento musicale sotterraneo è una forma espressiva piuttosto comune, un trend in crescita, se così lo si può definire, multiculturale e trasversale. In taluni casi rasenta il meltin’ pot, capita infatti di assistere a esecuzioni di brani della peggio tradizione melodica italiana, o sole mio, per fare un esempio, per violino solo con ghirigori e abbellimenti esotici. Il risultato non è male. Ma, per dirla tutta, la maggior parte delle volte la tecnica dei strumentisti non è granché, oggettivamente. Capisco che l’intento di questi spettacoli itineranti sia la massima resa con il minimo sforzo, suonare Paganini per otto ore nella ressa di folla che si sposta sottoterra potrebbe essere impegnativo. E io mi sono imposto di versare un obolo – non più di un euro, duemila lire, non dimentichiamolo – solo se la qualità, la tecnica, l’estro, la fantasia vanno oltre l’improvvisazione free jazz (la categoria che mi sembra più attinente) per strumenti ad arco o melodica a bocca.

Dicevo, qualcuno sta cantando, a pochi passi da me. E l’interferenza cattura la mia attenzione perché ciò che percepisco è piuttosto distante dalla cultura gitana cui siamo avvezzi. Alzo lo sguardo dal mio libro e noto un uomo sulla settantina, forse meno, molto distinto, in camicia a maniche corte di lino bianca dentro un pantalone jeans cartonato tipico da persona agée e mocassini. Capelli corti bianchi e barba rasata di fresco. Con la mano sinistra si regge all’apposito sostegno verticale, la destra è stretta in un pugno a tenere un invisibile microfono rivolto verso la bocca. Ha il capo leggermente chino e gli occhi socchiusi, una perfetta interpretazione di quello che sta cantando: “Strangers in the night exchanging glances, wondering in the night what were the chances, we’d be sharing love, before the night was through“. Leggo un po’ di imbarazzo nei volti delle persone che stanno condividendo con me l’esibizione di quel crooner della Martesana, nessuno potrà negare una mancia di fronte a cotanta miseria urbana. Ecco l’ennesimo pensionato che non arriva a fine mese, che prova ad arrontondare mettendo sotto i piedi (e sotto terra) la propria dignità facendo quello che sa fare, cercando di vendere alla bontà del prossimo il suo orgoglio e piuttosto che chiedere l’elemosina fuori dal supermercato di quartiere perlomeno di impegna a guadagnarsi onestamente un pasto. Questo è il domino di banalità che assumono le sembianze di punto interrogativo sopra la mia testa e si uniscono al pensiero unico che si va formando più o meno all’altezza della fermata di Loreto. Io scendo tra due, metto mano al portafogli ed estraggo il mio gettone da un euro (duemila lire, non dimentichiamolo mai). Ma a Loreto il convoglio si ferma, si aprono le porte e il nostro Frank Sinatra esce, continuando la strofa dello slow con cui ci stava dilettando senza chiedere nulla. Il convoglio riparte, lo vedo dal finestrino infilare la scala mobile, non lo sento più ma osservo le sue labbra intente nell’allungare la vocale dell’ultimo verso, accompagnato da un ispirato e languido movimento del capo. Sorrido al mio vicino di posto, che non ricambia, ripongo il libro in borsa, rimetto l’euro in tasca e mi appresto a scendere, fischiettando il refrain di Strangers in the night.

the world won’t listen

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Le peggio storpiature e pronunce sentite da noti vugei o digei o presentatori di programmi musicali radiofonici e televisivi (non documentabili ma giuro non me le sono inventate) negli ultimi due mesi:

1. i Cotton Twist
2. i Sezz Pistons
3. fresh fruits from rotten vege tèibols
4. the tiunnel of love
5. sandi bloody sandi
6. many raiver to cross

unwritten law – the sound

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sconcerto

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Se in Europa i festival sostanzialmente tengono botta contro la crisi economica (record agli inglesi Reading e a Glastonbury con le sue 120mila presenze, 140mila al Primavera di Barcellona), da noi il calo oscilla tra il meno 25% dell’I-Days di Bologna (ad inizio settembre, con Arctic Monkeys) e il 50% del festival che si chiude oggi nella laguna veneziana con il concerto di Vasco Rossi.

Su Repubblica. Sbalorditivo, davvero. E la causa qual è?

Per Claudio Trotta di Barley Arts, già patron storico di Sonoria e oggi organizzatore del Flippaut, “l’idea del festival in questo paese non ha mai funzionato, a parte i casi del Rototom e di Italia Wave, che però era ad ingresso gratuito. I motivi sono semplici: mentalità conservatrice del pubblico, schiavo dell’artista preferito o dell’headliner; atteggiamento fighetto del popolo del rock in Italia che ha paura di vivere l’esperienza del festival, anche se questo prevede i disagi di una giornata di pioggia; e infine le location sbagliate, quasi sempre autodromi o spazi fuori mano. Per fare i numeri ci vorrebbero location con centralità geografica nella penisola, ben serviti e poi scelte di cast più centrate, senza sottostare all’obbligo del grande nome”.

Tutto vero? Diamo un’occhiata al programma dell’Heineken. Mettere insieme line-up così eterogenee, per non dire a culo (sorry, l’ho detto) necessita di una buona dose di impegno. A parte il concerto di Vasco, che poteva tranquillamente vivere di vita propria e non scomodare gli inutili supporters, troviamo un denominatore comune a Fabri Fibra, Verdena, Interpol, Elbow e Negramaro. Ma certo: suonano con strumenti musicali. L’atteggiamento fighetto del popolo del rock, in Italia, forse meriterebbe un’analisi diversa e maggiori competenze dagli addetti ai lavori, sempre che i suddetti addetti vogliano sopravvivere alla crisi economica, se non almeno alla crisi del mercato musicale. Consoliamoci svabando sulla line up del Reading e sul concilio ecumenico artistico in programma a Glastonbury. Beati i fighetti inglesi.

gli italiani lo fanno così così

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Capisco che l’esterofilia fine a se stessa sia scostante, e non vorrei certo sembrarvi antipatico. Anzi. E vi assicuro che mi impegno a seguire il panorama locale in ambito musicale, editoriale e cinematografico. E probabilmente lo farò ancora, anche solo per un briciolo di campanilismo. Ma, diamine, mi cadono sempre più le braccia.

Per farvi un esempio, anzi tre ma partiamo dal primo, fino a qualche anno fa seguivo con acceso interesse la musica italiana, le nuove band e il trend del momento, affidandomi soprattutto ai principali siti specializzati, come quelli che organizzano i festival dei baci e degli abbracci. Il motivo? Da una parte era il retaggio che mi portavo dietro da sempre, avendo occupato gran parte della mia vita (almeno 30 anni) a suonare in gruppi più o meno underground. Se volete saperne di più, questo blog è pieno di riferimenti alla mia vita precedente, e vi consiglio di iniziare dalla fine di quella esperienza. Seguivo i forum, partecipavo alle discussioni. Ma anche prima di Internet, ho letto e mi sono costantemente tenuto aggiornato, in un percorso che parte dagli Area passando per Diaframma, Litfiba e CCCP, poi svolta con Almamegretta e Casino Royale, sempre dritto per arrivare a Scisma e Subsonica. Ho parcheggiato di fronte agli Offlaga Disco Pax e sono sceso dal mezzo, autoradio alla mano, perché era subentrato nel frattempo il nulla più assoluto.

Più difficile argomentare la mia esterofilia in ambito letterario, sono meno competente (o più cialtrone, dipende dai punti di vista), il campo è oltremodo più vasto, più difficile da conoscere approfonditamente e da valutare. Diciamo che, esaurita la bibliografia del ‘900 italiano, ho perso l’orientamento passando da Pavese, per fare un esempio, a un qualsiasi autore emergente. Le poche volte in cui ho dato un’opportunità a uno scrittore locale (passatemi l’aggettivo), mentre mi si ripresentava a menadito il metro quadrato storico, politico e geografico in cui erano state ambientate le vicende descritte nell’opera di turno, già rimpiangevo la sicurezza dei parametri che utilizzo in fase di scouting di nuovi autori per il mio tempo libero. Ovvero: nati possibilmente tra l’Oceano Atlantico e il Pacifico (procedendo verso ovest), a nord del Messico e a sud del Canada (con l’eccezione di Coupland e degli autori nati in Alaska), tra il 1900 e il 2011. Un sottoinsieme già di per sé infinito.

Il terzo e ultimo elemento di riflessione riguarda il cinema. Qui converrete con me della difficoltà (mi veniva da scrivere dell’inesistenza, poi ho pensato che sarei risultato antipatico agli estimatori di Moretti, Martone, Costanzo, Sorrentino e Virzì, quei pochi di cui ho seguito l’attività) di mettere insieme un elenco sufficientemente corposo di prodotti di oggettivo valore, se comparati a omologhi lavori indipendenti o no realizzati all’estero. E anche in questo caso non so quanto sia determinante il fatto che altrove il cinema è un’industria mentre da noi è un hobby per figli di papà. Non so se il mio disagio di fronte ai film italiani dipenda dal gap qualitativo tra la recitazione degli attori (e dei loro accenti) e quella dei doppiatori di film stranieri, dalla piccolezza (si dice così) delle storie raccontate, un po’ come avviene per la letteratura, dalla scarsa attendibilità delle facce degli attori, dai registi.

Tutto questo per lanciare un appello: ridatemi speranza. Consigliatemi voi: libri, film e dischi italiani, di cui ne valga la pena.

god save the queen

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I Lost, storico gruppo rock genovese underground attivo a cavallo tra gli anni 80 e 90, si presentarono a un concerto dedicato alla memoria di Freddy Mercury organizzato all’allora Coccodrillo di Sampierdarena con una scaletta tutta punk di cover dei Ramones, così, giusto per marcare la differenza. Fuori tempo massimo, non so perché mi sia venuto in mente proprio poco fa, e ho pensato di ricordare quel guizzo di genialità snob con un piccolo omaggio. Ai Ramones e ai Lost, ovviamente.

alla rivelazione

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Se mi dicessero che il tizio qui sotto è lo stesso che nel 2003, trent’anni e rotti dopo questa foto, ha composto e cantato la colonna sonora di “Koda fratello orso”, non ci crederei. Scoprire tumblr come questi fa male, perché riapre ferite solo parzialmente rimarginate. (via una molto più fanatica dei Genesis di me)

friendly fires: show me lights

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