finché lo vuoi sentire

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La cosa più difficile è decidere con che pezzo iniziare, perché non sei un artista famoso e non fai parte di un gruppo e non hai i tuoi fan, là fuori, che non stano più nella pelle per assistere alla tua esibizione. Sei solo un intrattenitore momentaneo, il sottofondo musicale di una serata al pub o di una traversata in traghetto, solitamente il tuo lavoro non fa la differenza. Anzi, spesso è vissuto come fastidio, come barriera architettonica al chiacchericcio alcolico, a una lettura o qualsiasi altro passatempo di un viaggio verso le vacanze. Sei un pianista e/o un cantante di pianobar, e quando ti siedi dietro al tuo strumento non è detto che al di là dello spazio in cui il gestore del locale in cui ti esibisci – che solo raramente è un palco – ha ricavato dalla sua sala o nel suo dehor ci sia abbastanza pubblico.

E in quel momento, comunque, la gente che è lì ti nota ed è per questo che la cosa più difficile è decidere con che pezzo iniziare. Il biglietto da visita, la prima impressione, conquistare o meno la fiducia del pubblico, non è facile. Perché il pubblico, appunto, non è lì per te, si fa bellamente gli affari propri. Le coppie parlano tra loro, quelle più consumate bevono e guardano le altre coppie, ecco, forse loro faranno attenzione alla tua performance. I gruppi di amici scordateli, ciascuno giocherella con il proprio smartphone tra un sorso di birra e una battuta per conquistare la leadership della serata e del tavolo. Se il locale ha un’utenza varia, hai qualche speranza con i bambini in età prescolare, che ti si piazzano davanti, i più intraprendenti vorrebbero persino dare una manata sul tuo strumento per vedere l’effetto che fa. Parlare di strumento, poi, è sempre meno realistico. Gli strumenti musicali, pesanti e ingombranti, non li porti quasi più. Al massimo una chitarra, la tastiera, ma poi è il computer che suona tutto il resto, la batteria il contrabbasso eccetera.

E c’è sempre quell’imbarazzo che non coglie nessuno, che mentre gli altri sono in festa tu sei lì a lavorare; il sabato sera, la notte di capodanno, i matrimoni, ferragosto, compleanni e ricorrenze varie. E che la tua famiglia fa lo stesso festa senza di te, il sabato sera, la notte di capodanno, i matrimoni, ferragosto, compleanni e ricorrenze varie. Che poi, uno dice che è un bel mestiere, comunque sei un operatore dello spettacolo, ti permette di guadagnare suonando, ogni tanto metti in scaletta una cosa che ti diverte e che non necessariamente il pubblico apprezza. Sì, ci sono quelli talmente fanatici che la vedono da questo punto di vista. Ci sono quelli anche talmente bisognosi che lo fanno come secondo lavoro, rientrando ad ore assurde per poi la mattina dopo andare in ufficio a risolvere le solite rotture con botte di sonno da combattere fino a sera.

Ci sono quelli fanatici che invece lo fanno come secondo lavoro perché suonare è una passione, e suonare i pezzi di Concato o di Antonacci o di Raf è comunque una passione, anche se poi quei pezzi lì ti fanno cagare. Perché la scaletta non la scegli tu. Non puoi suonare quello che ti piace. Ci sono quelli, infatti, che pensano che allora è meglio non suonare del tutto, e che qualsiasi altro lavoro che ti lascia liberi il sabato sera, la notte di capodanno, i matrimoni, ferragosto, compleanni e ricorrenze varie è meglio.

buddha e il bar

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Walter era sparito da un pezzo. Si era trasferito per lavoro in Emilia da più di anno, ma ogni fine settimana tornava a casa, così avevamo organizzato le prove secondo la sua disponibilità. Ma a un certo punto è comparsa nella sua vita una cantante lirica, e, come da manuale, le priorità nella vita di Walter sono cambiate, è facile intuire la nuova top ten. Ma nessuno si immaginava che svanisse così nel nulla. Walter era il nostro trombettista, un elemento non fondamentale per la nostra attività, le sue parti e i suoi soli potevano essere eseguiti da altri strumenti, ma difficile da sostituire più come testa che come esecutore. Pazienza, episodi come quello erano all’ordine del giorno. Ma arriva agosto, e la cantante lirica va in vacanza senza Walter. La giustificazione ufficiale è un classico “è poco che stiamo insieme, aveva già prenotato le ferie con le amiche, non potevo aggregarmi e poi non c’era più posto”. Gli si dice che capiamo, anzi non gli diciamo nulla per non metterlo in imbarazzo. Già, perché Walter è improvvisamente ricomparso, si è presentato con la sua custodia nera alle prove e noi, si sa, non conosciamo il significato della parola risentimento. Sarebbe potuto capitare a ognuno di noi, di sovvertire le priorità per un motivo analogo.

E poi Walter ha portato un regalino per tutti, l’ingaggio a una festa di compleanno di un suo amico. Non possiamo andare al completo, tra pochi giorni è Ferragosto e alcuni di noi partono. È sufficiente andare in quartetto, batteria – basso – piano – tromba, e suonare un po’ di standard. La festa è l’evento che ci riconcilia del tutto, perché siamo in una villa con piscina, è un party piuttosto esclusivo, amici facoltosi del festeggiato figlio di un notissimo professionista genovese. Sembra essere in un film degli anni ’60, i led del mixer riflessi dall’acqua, cocktail a gogo, una scaletta fresca e di stagione, qualche ballad, arrangiamenti acid jazz per far sgranchire le gambe. Poi, in un momento di pausa in cui si tenta l’approccio con la fauna locale, Walter si defila. Lo notiamo appoggiato al capanno degli attrezzi, nascosto da tutti, seduto con una candela accesa, ci spaventiamo anche se è chiaro che uno come lui non si farebbe mai di roba pesante. Ed è peggio di quanto pensassimo. Non ha cucchiai in mano, bensì un campanellino, e con gli occhi chiusi, dopo un rintocco, inizia a mormorare un mantra, nam myoho renge kyo. Dovevamo immaginarlo. La cantante lirica è anche buddista, Walter non poteva, in nome della sudditanza emotiva, non entrare completamente nel suo mondo e lasciarsi coinvolgere anche per la componente spirituale. Ci guardiamo attoniti, senza dire nulla, torniamo al nostro cocktail. Dopo qualche minuto il nostro set riprende, Watermelon Man, un pezzo su cui si può improvvisare anche un’ora di fila.

due volte saluti

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Le gradinate dell’area spettacoli del campeggio sono ancora gremite. Ma anche quest’anno la stagione gradualmente volge al termine, è un dato di fatto che emerge anche dal rendimento degli animatori, ogni sera che passa sempre meno attenti nel suggerire i passi giusti nei balli di gruppo. Come biasimarli, così professionali in un lavoro del quale sfuggono i contorni, perché li vedi sempre all’opera, dall’acqua gym della mattina all’intrattenimento serale, passando per tutta la serie di attività dedicate ai più piccoli. La differenza tra il campeggio e il villaggio turistico in Italia è sempre più labile, da questo punto di vista, tanto da consentire a chi usufruisce dei numerosi pacchetti all inclusive argomenti fondati per commenti maligni sull’unica differenza vera, il prezzo; ma è vero che il campeggio è il villaggio vacanze dei poveri? Tsk.

Noi campeggiatori sappiamo benissimo non essere così, diamine, c’è un abisso che separa le due correnti di pensiero. Poi è chiaro che una piazzola e preparare pasti così così su fornelli al riparo dal vento costa molto meno rispetto alla paccottiglia disponibile presso i vari club in riva al mare, almeno io non potrei permettermelo, ma nella nostra superiorità morale che ci arroghiamo e che ci avvicina, solo in questo frangente, alle più sobrie popolazioni europee sappiamo – il soggetto è noi rudi campeggiatori – che solo i dolori della schiena che riposa quasi sulla nuda e umida terra danno il vero senso della vacanza, sanciscono la reale rottura con la routine degli altri mesi dell’anno, fatta di materassi ortopedici e di bidet la cui mancanza genera idealizzazioni a veri e propri oggetto di culto. Ma è indubbio che c’è qualcosa che sta cambiando, e non si tratta di un aspetto che poggia su motivi infondati. I gestori dei campeggi italiani pensano, giustamente, che anche i figli dei turisti meno abbienti come me abbiano serie difficoltà nel divertirsi con il gioco destrutturato, dopo aver trascorso il resto dei mesi dell’anno ingabbiati in agende serrate costellate di impegni e parcheggi vari. Eh, bella scoperta, se entrambi i genitori lavorano. Quindi l’extra a cui nessun italiano vorrebbe rinunciare è l’intrattenimento dei propri pargoli, soprattutto se la sua mancanza è in grado di precludere l’effetto benefico della vita all’aria aperta, imponendo agli adulti il senso di colpa di dover comunque lenire la noia dei più piccoli. Un concetto che si basa su un fondamento errato, perché il campeggio esiste da quando esistono i turisti rough, e i figli rough dei turisti rough si divertono anche lanciare sassi nel mare. Falso, obiettano i ds-addicted. Schiavi del consumismo, ribattono i paladini della vita outdoor.

Tutto questo, comunque, ci riconduce qui, sulle gradinate dell’area spettacoli all’interno di un campeggio italiano che, tra gli extra, offre ai suoi ospiti l’animazione per i bambini, che alla sera assume le sembianze della baby dance. Genitori ustionati e lucidi di crema che sorridono di fronte alle mossette dei loro bimbi, uno o più intrattenitori i quali, spalle al pubblico, suggeriscono i passi a tempo con una playlist piuttosto standard, i nostri figli, rivolti verso di noi, nella loro scoordinata ingenuità a riprodurre la giusta sequenza di mosse che li conformizza una volta di più, non rimane più nulla di libero, nemmeno il ballo che probabilmente non saprebbero fare, una nuova cosa da imparare, d’altronde imparare a essere come noi è il loro mestiere, il loro destino.

La scaletta della baby dance, dicevo, è quasi sempre la stessa ovunque. Ma tra un gatto puzzolone e un mi piaci se ti muovi evidentemente estratto dal video scaricato da youtube, vista la pessima qualità di bitrate che il deejay tenta maldestramente di occultare improvvisando una cassa con la voce, ecco l’evergreen, la colonna sonora del divertimento danzereccio transgenerazionale, secondo solo a Disco Samba: il mitico (a detta di tutti) Gioca-Jouer. Il ballo a comando per eccellenza, base marcia militare shuffle con voce di kapò che impartisce gli ordini sul movimento da eseguire. Ora non è il caso che lo descriva qui, è un brano che conoscono tutti.

Ma dopo anni di ascolto forzato, la dimestichezza acquisita con la sequenza dei passi da riprodurre mi ha concesso di soppesare maggiormente il testo, traendone una profonda speculazione filosofica. Al termine del primo giro di movimenti, Cecchetto rompe la barriera della finzione aristotelica e si rivolge direttamente al pubblico, anticipando che a breve riprenderà la lista dei comandi. E, soprattutto, ordina di fare attenzione alla differenza tra camminare e nuotare. Ora, mi sono chiesto, camminare e nuotare sono due azioni a dir poco opposte. Due condizioni difficilmente interscambiabili, soprattutto perché fondano su elementi diversi, la terra e l’acqua, e coinvolgono arti differenti in sforzi non uguali. E anche nel simulacro del Gioca-Jouer, come pure nello schema illustrato sul retro della copertina del 45 giri, è evidente. Quindi perché dovrei stare attento a una differenza così palese? Si tratta semplicemente di parole gettate lì a caso come riempitivo per consentire il completamento del giro armonico, o sussiste una volontà didascalica? Camminare e nuotare, diamine, la differenza la sanno pure i bambini.

grandaddy – jeez louise

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for the young ones who don’t understand

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una polaroid di classe

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ispirazione, espirazione

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Può capitare che nel profondo del profondo del mese più profondo dell’estate, quei due o tre giorni che stanno a cavallo di ferragosto a seconda della sua posizione tra le domenica precedente o successiva, quel buco di c**o temporale (a volte anche con temporale annesso) in cui non c’è nulla, si scelga di trascorrere questo nulla barricati in casa. E sono convinto che molti lo passino così, altrimenti non si spiegherebbe il vuoto fuori. C’era un tipo, per esempio, che una volta è rimasto chiuso in casa per tre giorni, da solo. Cibo e bevande a sufficienza e un intero set di synth più un sampler collegati a un Mac, un PowerPC per l’esattezza su cui girava dignitosamente Cubase. E niente, tre giorni di full immersion in composizioni ispirate grazie alle quali il riservato musicista ha vissuto di rendita per almeno tre gruppi successivi, nemmeno troppo caldo malgrado la strumentazione impilata e accesa nella stanzetta più piccola, chiamiamola studio. La casa aveva infatti una doppia esposizione e, ubicata piuttosto in alto e per di più al quinto piano, era ventilata abbastanza. Ogni suono era ispirazione per un pezzo nuovo, non c’era giorno o notte o alcun limite fisico, le ferie sono state pensate anche per cambiare abitudini e vivere tra parentesi. Alla fine, stremato e spremuto dalla verve creativa, il tipo ha spento tutto, ha fatto una meritata doccia, è salito su una Panda bianca targata AL e ha raggiunto i genitori in una casa sull’appennino ligure, dopo un viaggio in cui ha ascoltato e riascoltato, su nastro, quanto registrato in quei tre giorni, più di due ore di musica che quasi non si ricordava già più.

jack london

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Su Sempre un po’ a disagio c’è chi giustamente si lamenta del Morrissey-pensiero tirato in ballo solo perché c’è panico tra le strade Londra e analogo stato d’animo a Birmingham, ma, come è noto ai più, la rivoluzione che gli Smiths avrebbero voluto scatenare non andava al di fuori delle loro membra, al massimo della sala prove. Figuriamoci poi con i Clash. Solo perché c’è Londra nel titolo, o perché la canzone ha un testo che parla dei suoi quartieri, non è detto sia attinente a quello che sta succedendo lassù. Per carità, poi ognuno fa quel che gli pare, ma allora non è meglio usare il nichilismo dei Sex Pistols, come propriamente è stato fatto in UK? Ecco, per esempio, il testo di London’s burning (via Radioclash, l’unico sito that matters).

London’s burning! London’s burning!
All across the town, all across the night
Everybody’s driving with full headlights
Black or white turn it on
Face the new the religion
Everybody’s sitting’ round watching television !
London’s burning with boredom now
London’s burning dial 99999
I’m up and down the Westway, in an’out the lights
What a great traffic system…it’s so bright
I can’t think of a better way to spend the night
Then speeding around underneath the
Yellow lights
London’s burning with boredom now
London’s burning dial 99999
Now I’m in the subway and I’m looking for the flat
This one leads to this block, this one leads to that
The wind howls through the empty blocks looking for a home
I run through the empty stone because
I’m all alone
London’s burning with boredom now
London’s burning dial 99999

oppure il testo di London Calling:

London calling to the faraway towns
Now that war is declared and battle come down
London calling to the underworld
Come out of the cupboard, all you boys and girls
London calling, now don’t look to us
Phony beatlemania has bitten the dust
London calling, see we ain’t got no swing Except for the ring of that truncheon thing
The ice age is coming, the sun is zooming in Meltdown expected the wheat is growing thin Engines stop running but I have no fear

‘Cos London is drowing and I live by the river

London Calling, to the imitation zone
Forget it brother, you can go it alone
London calling to the zombies of death
Quit holding out and draw another breath London Calling, and I don’t wanna shout
But while we were talking I saw you noddin’out
London Calling, see we ain’t got no highs Except for that one whit the yellowy eyes
The ice age is coming, the sun is zooming in Engines stop running the wheat is growing thin

A nuclear error but I have no fear
‘Cos London is drowing and I live by the river

London Calling, yes I was there too
An’ you know what they said …
Well some of it was true !
London Calling, at the top of the dial
An’ after all this, won’t you give me a smile?
I never felt so much a’ like…

e ancora Guns of Brixton:

When they kick at your front door
How you gonna come
With your hands on your head
Or on the trigger of your gun
When the law break in
How you gonna go
Shot down on the pavement
Or waiting on death row
You can crush us
You can bruise us
But you’ll have to answer to
Oh the guns of Brixton
The money feels good
And your life you like it well
But surely your time will come
As in heaven as in hell
You see he feels like Ivan
Born under the Brixton sun
His game is called survivin’
At the end of The Harder They Come
You know it means no mercy
They caught him with a gun
No need for the Black Maria
Goodbye to the Brixton sun
You can crush us
You can bruise us
But you’ll have to answer to
Oh the guns of Brixton
When they kick at your front door
How you gonna come
With your hands on your head
Or on the trigger of your gun
You can crush us
You can bruise us
You can even shoot us
But oh…the guns of Brixton
Shot down on the pavement
Waiting on death row
His game was survivin’
As in heaven as in hell
You can crush us
You can bruise us
But you’ll have to answer to
Oh the guns of Brixton

Speriamo la protesta non dilaghi anche a Chelsea, non vorrei sentire usato anche il nome di Nico invano.

bum cha bum bum cha

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– Leggo qui nel tuo curriculum, tra le varie competenze e attitudini, la voce beatbox. In che senso?
– Beatbox, la batteria con la bocca. So fare la batteria con la bocca, suono con un gruppo hip hop molto noto a livello locale, i Xxxx, non abbiamo strumenti e il dj fa solo scratch e niente ritmo. Prima rappavo anche io, poi quando si è trattato di scegliere se prendere strumentisti o suonare con le basi abbiamo pensato che il nostro stile sarebbe stato più crudo e grezzo senza musica. Solo ritmo. Vuoi che ti faccia sentire qualcosa?
– No, ma….
– Bum tz k tz bu-bu-bum k tz
– Vabenevabene, ho capito, cioè sapevo il significato di beatbox ma non capivo il senso di inserirlo come voce in un curriculum, cioè in un curriculum per candidarti a una posizione di web designer.
– Ah, certo, ma nel curriculum ho messo tutto quello che so fare, ho pensato che non avendo così tanta esperienza di agenzia ma avendo fatto anche tanti altri lavori, il beatbox potesse fare massa.
– Massa?
– Si, fare numero. Se suonavo la chitarra lo avrei scritto (sic), dal mio punto di vista il canto è uno strumento come gli altri, il beatbox lo faccio con la voce, quindi ha senso metterlo nel curriculum. La mia band comunque mi fa guadagnare qualcosina, tra concerti e set, quindi perché no?
– E da quanto tempo ti occupi di beatbox?
– Vivo hip hop da dieci anni, più o meno, ho imparato quasi subito, in freestyle. Sai, senti i pezzi e inizi a tenere il tempo sopra. Con il microfono e qualche effetto le possibilità sono infinite. Vai a vedere il nostro myspace, ci sono un po’ di pezzi, davvero, non è male, abbiamo anche un contratto con un’etichetta indipendente, abbiamo suonato al Yyyyyyy la scorsa primavera.
– E tu fai la batteria con la bocca.
– Esatto, il beatbox. Tu invece che musica ascolti? Non in ufficio, intendevo che musica ascolti in generale.

alle undici e undici

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