consigli per gli acquisti?

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I tre spot del momento sono il cashmere Falconeri, la pubblicità di Natale di Intimissimi e quello del chianti Gallo Nero. Li considero gli spot del momento perché li vedo a ripetizione nella fascia oraria in cui accendo la tele, all’ora del telegiornale. Non solo: li vedo spesso in sequenza, uno dietro l’altro, ma non saprei spiegare la ragione di questa programmazione congiunta. Di certo, considerata la frequenza dei passaggi, gli investimenti in comunicazione delle tre aziende produttrici sembrano essere copiosi. Ma c’è un ulteriore fattore che li unisce: in qualche modo mi urtano, ogni volta che li trasmettono.

Lo spot del cashmere Falconeri ha una musica inutilmente epica, una colonna sonora in puro stile marketing da scalata verso una vetta o impresa portata a termine rischiando la vita. Il tutto su immagini che non c’entrano molto: scampoli di lana colorata cuciti insieme con maestria e modelle che indossano i capi testé ultimati per guardare chissà che cosa fuori dalla finestra:

Dello spot Intimissimi di Natale non c’è nulla di sbagliato se non che non so che gusto ci sia a preparare l’albero in mutande e reggipetto, o comunque in déshabillé, oltre al fatto che porno e tradizione non costituiscono, a mio parere, un connubio azzeccato. Piuttosto meglio il tipo norvegese che si limona Babbo Natale, ecco. Qui manca completamente l’ironia e la seduzione, con gli addobbi, stride un po’.

Dello spot del chianti Gallo Nero, invece, il tipo che balla e fa le smorfie è irritante e per di più sembra uno che alza il gomito con frequenza. Ma ha un bel vestito.

linea verde

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Ma che ci fa Luca Sardella nello spot dell’Amaro del Capo? Ah, il jingle è suo.

dietrologia per una merendina

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C’era una volta una mamma single in carriera che lavorava in una multinazionale, una di quelle aziende in cui il sole non tramonta mai e se ti occupi di certe cose come il marketing capita che di giorno hai a che fare con colleghi europei, di sera si svegliano gli americani e a notte fonda ti tocca rispondere alle e-mail degli asiatici. Uno scenario in cui non è così raro mettersi la sveglia alle quattro del mattino per partecipare a una call con sconosciuti che parlano comunque un inglese più fluente del tuo dall’altra parte del mondo. Cose già viste e stra-viste e, vi dirò di più, provate sulla nostra pelle. Un andazzo, o trend come si dice ora, che con lo smart working si è ulteriormente esacerbato e se prima eravamo già schiavi del lavoro in rete oggi siamo tutt’uno con il cloud, così digitalizzati da essere digitali, effimeri, diafani, facili prede di hacker russi e di ransomware che ci chiederanno soldi per avere in cambio noi stessi. Fino a quando si sveglia il figlioletto della mamma single che è in piedi da un pezzo per mettere insieme uno stipendio decente e, al posto di una fetta di pane con la marmellata, per colazione se la cava con una merendina confezionata, una di quelle che i genitori bioblu non offrirebbero nemmeno al figlio del loro peggior nemico. La mamma fetta al latte ha ancora le cuffie ma si capisce lontano un miglio che la call sta per terminare. A breve inizierà la seconda parte della giornata che la vedrà, ancora sveglia, portare il bambino a scuola e rimettersi al lavoro con le call con i colleghi italiani. C’è ancora tutto un mondo davanti, e le ore sembrano infinite. Togliti le cuffie, mamma. Tuo figlio ha bisogno di te.

poco convinted

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Gli spot delle ennemila app per vendere la propria roba usata la fanno facile. Fai la foto alle scarpe che non metti più, ai jeans che ti vanno più bene perché la pandemia ti ha inquartato, al vaso che ti ha regalato il tuo ex e che ingelosisce il nuovo moroso. Poi decidi il prezzo e la metti su queste specie di Tinder del commercio di seconda mano e nemmeno il tempo che finisce lo spot te ne sei già sbarazzato. Ci sono però dei fattori intermedi che la pubblicità, che giustamente deve comunicare un modello e un mondo delle idee in cui tutti riescono a fare tutto, non prende in considerazione.

Intanto vendi una cosa se c’è domanda e non se c’è offerta, il mercato – anche se è delle pulci – funziona così, perché a regalare o a gettare nei contenitori della solidarietà sono capaci tutti.

Poi c’è il problema della spedizione. Se fossi uno startupper ossessivo compulsivo aprirei un’impresa che si occupa di spedizioni chiavi in mano per le app come Vinted e compagnia bella. Il venditore non deve fare nulla, nemmeno preparare il pacco. Prenota il ritiro, arriva questo corriere liquido, un po’ rider e un po’ due punto zero, che si prende in carico la spedizione, la incarta, la porta alle Poste, si spara la coda al posto tuo e spedisce il tutto per te che hai pagato un forfait. Ma non ho mai avuto il senso degli affari e questa parte del processo è una rottura di maroni senza precedenti.

Per dire, io una collezione intera di Dylan Dog e di quell’altro indagatore del futuro di cui mi sfugge il nome, centinaia di CD, due giradischi, capi di abbigliamento di due taglie fa e un sacco di altra roba di cui vorrei disfarmi ma l’idea di dover calcolare il costo comprensivo di spedizione, quindi di fare ogni casistica per ogni cosa, mi fa desistere ogni volta. Per questo quando vedo gli spot di questo tipo che la fanno facile mi chiedo chi ci caschi. Non lo metti più? Mettilo su Vinted. Certo, poi bisogna vedere se qualcuno te lo compra e, ancora prima, se ho voglia di portarlo all’ufficio postale.

vendo appartamento al 221B di Baker Street

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C’è una teoria secondo cui la pubblicità in tv costa molto di meno da quando ci sono canali più seguiti come la tv in streaming e, soprattutto, l’Internet. Si sono abbassati i prezzi e anche piccole aziende desiderose di mandare i loro spot in prime time sono riuscite in un obiettivo fino agli anni novanta impensabile. Il fatto è che i prezzi di realizzazione delle campagne pubblicitarie, invece, sono rimasti gli stessi. O, almeno, non è cambiato il costo delle agenzie di un certo livello. Per questo i programmi televisivi sono interrotti da pubblicità sempre più cheap, spesso con attori sempre più cheap ma lo sapete, nel marketing è meglio non lesinare altrimenti ti si ritorce contro.

Me ne vengono in mente un paio così, sui due piedi: gli allarmi Verisure – mai visti attori così imbarazzanti – e uno spot dell’Amplifon in cui ci sono attori incapaci che fingono di fare le persone normali che raccontano la loro esperienza leggendo il loro testo facendo di tutto però perché sembri che non lo stanno leggendo, con un risultato che fa davvero girare così la testa per la bruttezza.

In questo campionato dilettantistico è facile salire di categoria, e quando ci sono spot belli, pensati bene, con trovate intelligenti e attori capaci è giusto dare loro lo spazio che si meritano. Immobiliare.it si è sempre distinta, da questo punto di vista. L’ultima pubblicità è superlativa, e mi riferisco al soggetto con Sherlock Holmes. Tempi giusti, battute azzeccate e copy perfetto, con la ciliegina sulla torta della chiusura “immobiliare, Watson!” che mi ha lasciato letteralmente a bocca aperta. Idea formidabile, bravi tutti.

di seconda mano

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City car è il nuovo modo elegante per dire utilitaria. La mia è meno di una entry level, che è un modo altrettanto elegante per dire morto di fame. L’ho trovata su un sito di annunci di seconda mano e la vendeva un privato con cui ci siamo dati appuntamento in piazza Brescia per un giro di prova. L’auto era davvero senza pretese e io mi sono recato all’incontro con aspettative ancora inferiori, quindi c’è voluto poco per convincermi a chiudere l’affare. Il fatto è che si sono presentati in due dicendo di essere padre e figlio e che la macchina era proprio quella del più giovane, neopatentato, a cui il genitore voleva acquistare una vettura più dignitosa. I due, però, non si assomigliavano per nulla e la esigua differenza di età rendeva il loro rapporto parentale piuttosto improbabile. Ho pensato però che, trattandosi di stranieri, avessero usanze e stili di vita differenti da quelli italiani. Tranquilli, non sono stato truffato perché la macchina in questione funziona benissimo tutt’ora e continua ad essere perfetta per lo scopo per cui l’ho presa, con un rapporto qualità-prezzo davvero vantaggioso. Comunque, prima di chiudere la trattativa, mi sono rivolto a una amica assicuratrice che – da una ricerca sullo storico dei proprietari – ha scoperto che l’auto che stavo per comprare era ferma da mesi mentre, da come l’aveva raccontata il venditore, veniva utilizzata quotidianamente dal sedicente figlio. Non so perché i due avessero messo in pista questa sceneggiata. Forse pensavano di rendersi più credibili, in uno scenario in cui essere stranieri è ancora sinonimo di vivere grazie a espedienti. Addirittura si sono inventati al momento di avere un cane per giustificare la presenza di peli (malgrado l’abitacolo fosse perfettamente pulito) sul pianale del lunotto posteriore. Ho ripensato a questa cosa dopo aver visto l’ultimo spot di segugio.it. Un tizio offre un passaggio a due conoscenti e, al momento di ripartire, uno di questi (spero l’uomo seduto dietro, e non l’avvenente passeggera) molla una scoreggia. Io penso di aver visto di tutto in pubblicità, ma uno storytelling così truce non mi era mai capitato. Il bello è che subito dopo si vede il cane che fiuta l’inequivocabile cambiamento d’aria e introduce il claim con cui la compagnia (sedicente giusta) si distingue. Conosco certi padroni di cani che hanno cani così maleodoranti che, nella loro macchina, è impossibile salire. Quindi non saprei dire a cosa porti questa gara a chi puzza di più e a chi fa lo spot peggiore. Lo spot, però, l’avrei chiuso con una battuta: “Non ho scoreggiato! Te lo assicuro”.

vacci piano con i Depeche Mode

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Non so a voi ma a me la versione rallentata di “Just Can’t Get Enough” di questo spot fa sanguinare le orecchie. Ma poi che bisogno c’era?

buchi nell’acqua

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Qualche tempo fa sono intervenuto in un dibattito in un gruppo FB inerente l’acqua che beviamo e come migliorarla. Ci sono però un bel po’ di doverose premesse da fare:

1. discutere non serve a un cazzo
2. discutere su FB porta se possibile ancora a meno risultati
3. la gente è sempre più cattiva, dal vivo, sarà per via del Covid e del Green Pass
4. la gente è sempre più cattiva, sui social, sarà per via del Covid e del Green Pass
5. in ogni discussione c’è sempre il rischio che scoppi una guerra civile, quindi attenzione a cosa dite, come commentate, con chi parlate eccetera eccetera e non importa di cosa stiate parlando. Anche se parlate dell’acqua che beviamo e come migliorarla, c’è gente pronta a venire alle mani.

Comunque il tema era, come dicevo, l’acqua che beviamo e come migliorarla. La discussione era moderata da gente molto preparata, laureati in chimica e che si occupano di sistemi di depurazione, purificazione e cose così. Professionisti che installano macchinari domestici che rivoltano l’acqua come un calzino in ogni sua particella rimuovendo qualsiasi impurità. Un tecnologia che ha dell’incredibile. Io l’ho provata a casa di mio cognato. Aveva un boccione sotto il lavandino con una specie di secondo rubinetto azionando il quale l’acqua dell’acquedotto, che da me normalmente è abbastanza una merda, si trasformava in acqua di montagna. Non sto scherzando. Poi mio cognato si è rotto i maroni di quel sistema, non mi ricordo perché, ma a me è spiaciuto perché l’ho vissuta come una sconfitta dell’ecologia.

Poco tempo dopo qui da noi sono comparse le case dell’acqua. Postazioni da cui è possibile servirsi gratuitamente di quella che chiamiamo l’acqua del sindaco. Liscia e gassata. Sempre fresca. Una figata. Lo sbattimento è, come potete immaginare, il rifornimento. Io bevo come un cammello, ho due cestelli da 6 bottiglie da un litro ciascuno, e in estate 12 litri d’acqua mi durano meno di due giorni. A volte la voglia di riempirle latita, ma piuttosto che acquistare le bottiglie di plastica al supermercato farei qualunque cosa.

In un momento di debolezza poi mi hanno consigliato dei cilindretti di ceramica da mettere nella caraffa dell’acqua del rubinetto. Li ho provati e vi giuro che ne migliorano il sapore di molto. Il problema è che si tratta di un prodotto borderline con l’omeopatia, i grillisti e tutta quella roba da guaritori magici lì, e quindi non sempre è facile accettarne il beneficio. Per questo, come vi ho anticipato prima, quando ho portato la mia testimonianza alla discussione di cui sopra – dicendo di usare i cilindretti di ceramica – sono stato tacciato di omeogrillismo dagli altri, e quindi me ne sono vergognato. Qualcuno si è persino vantato di aver fatto credere a uno di questi omeogrillisti di fabbricarsi l’acqua in casa unendo gli atomi di idrogeno – acquistati a Leroy Merlin – all’ossigeno dell’aria catturata in campagna. Insomma, per farla breve, da allora i cilindretti di ceramica non li uso più e, anche quando non ne ho voglia, carico in auto i cestelli con le bottiglie vuote e vado a riempirle alla casa dell’acqua.

Poi però ho visto questa pubblicità e mi ha ingolosito, se non altro perché il muletto che sfonda la parete è piuttosto convincente.

sballo

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Ci sono spot televisivi in cui si vedono persone che ballano l’esperienza che il prodotto o il servizio che commercializzano è in grado di suscitare al consumatore. Non mi riferisco a jingle cantati e ballati da qualcuno, come il passo del Pinguì o si con riso (ma senza lattosio), piuttosto a trame in cui i protagonisti si muovono dando prova di quello che accade all’acquirente con ciò che viene pubblicizzato. Ne ho visti molti, negli anni, ma al momento mi vengono in mente solo due esempi di quello che intendo. Lo spot di Repower con la parodia degli Snap

e la recente pubblicità di Trovaprezzi

La trovo una forma piuttosto ingenua di marketing ma molto efficace che va dritto al cuore della questione: se mangi/bevi/compri questo, ti succede quest’altro ma non te lo racconto in modo didascalico, come Redbull ti mette le ali e poi c’è qualcuno che si alza in volo, per intenderci. Senza contare che poi c’è qualcuno che, con queste pubblicità, davvero si sente così, come quello di Facile.it

non toccarsi occhi naso e bocca con le mani

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Che le cose vanno meglio lo si capisce dal fatto che sono tornati gli spot in cui consigliano di leccarsi le dita.