papillon

Standard

Da bambini guardavamo la pubblicità perché c’era Carosello e gli spot erano scenette con attori di un certo calibro. Poi hanno inventato le tv commerciali, le reclame sono diventate noiose e piene di stereotipi ma l’introduzione del telecomando ci ha regalato il potere di cambiare canale durante i consigli per gli acquisti. Quindi siamo diventati studiosi di pubblicità all’università, questo ci ha imposto di fermarci a seguirle per trovare ispirazioni dalle migliori e capire gli errori di quelle sbagliate. Dopo abbiamo trovato lavoro in quel campo lì e l’obiettivo dello studio degli spot degli altri si è invertito: era obbligatorio pensare a qualcosa di diverso.

Infine ci siamo rotti e abbiamo cambiato lavoro, vincendo concorsi nella scuola e prediligendo l’impiego pubblico visti i tempi. Nel frattempo siamo diventati anziani e abbiamo perso interesse per gli spot. Ci sono quelli belli e quelli brutti, quelli delle auto e delle medicine e dei reggiseni e del cibo e poco più perché gli altri settori non hanno soldi da buttare via. Abbiamo introdotto routine nella nostra vita, sicuramente più sedentaria. Ed è per questo che chi gestisce il sistema pubblicitario dovrebbe capire che passare quattro o cinque volte la stessa pubblicità nel giro di sessanta minuti, gli stessi ogni sera, è controproducente e induce all’odio per il brand presentato.

Per questioni di orari e impegni famigliari a casa mia teniamo la tv accesa su La7 dalle otto meno dieci fino alle nove circa ogni sera per seguire il tg – malgrado Mentana – e gli approfondimenti del programma successivo – malgrado Scanzi e Travaglio. Poco più di un’ora con un’infinità di interruzioni pubblicitarie che ci mancherebbe, è chiaro che permettono di tirare avanti la baracca.

Il punto è che gli spot che passano sono sempre gli stessi, ripetuti più volte. Non sono solo io a dire che la sovraesposizione rompe i maroni, e secondo me la gente ne ha le scatole piene. In questi giorni il massimo del fastidio me lo dà la pubblicità della pasta De Cecco con quella trovata – del tutto immotivata – della parodia di “Vecchio frac”. Non si capisce cosa c’entri la canzone e poi gli amici a casa Gerini fanno gli spaghetti quando, invece, avrebbero potuto cucinare delle farfalle visto che il bellone palestrato cita la canzone (almeno credo) indossando appunto il papillon, anche se non ho fatto caso se sia di seta blu. A onor del vero non ho contato quante volte passa ogni sera, ma sicuramente sono troppe e sufficienti a farmi evitare la pasta De Cecco come la peste.

pelandrone

Standard

Passiamo tutto l’anno a farci affascinare da documentari sui borghi più belli d’Italia realizzati con riprese effettuate con il drone e montate con musiche epiche e poi, quando li visiti affrontando dal basso impervie scalinate che portano a castelli diroccati con percentuali di inclinazione e dislivelli da paura, il tutto mentre ci sono quaranta gradi e lungo il dedalo di viuzze del centro storico non c’è nemmeno un bar aperto, l’effetto è controproducente. Le riprese con il drone costituiscono la nuova frontiera dell’iperrealtà, in cui quello che viene mostrato in tv è rappresentato in una forma ultra simbolica: il castello in alto sin troppo in alto, con le sue case medievali abbarbicate sulla roccia come un’emanazione dal potere che rappresenta, attraverso voli radenti che, sul divano di una qualunque domenica pomeriggio d’inverno, ti inducono alla scelta della meta delle prossime vacanze estive.

La colonna sonora risulta altrettanto stucchevole: i soliti quattro accordi mozzafiato, con le alternanze tra accordi maggiori e minori studiate a tavolino, in un tripudio di archi sintetici che vanno bene su qualsiasi scena pensata con l’obiettivo di convincere lo spettatore che qualcuno ha compiuto un’opera mirabile vincendo le sue stesse sfide con il coraggio e la fierezza di essere ricordato nei secoli a venire. Il tutto dopo la consueta orgia di carboidrati innaffiati dal prosecco del dì di festa per una condizione di ebbrezza – pronta a trasformarsi in pennichella – che contribuisce al pathos del messaggio trasmesso.

I nodi vengono al pettine solo qualche mese più tardi: il castello è lassù in cima, l’estate è quella più calda della storia dell’umanità, gli orari delle informazioni turistiche e delle attrazioni a cui sei diretto non coincidono con la roadmap della vacanza, in cui le stanze devono essere liberate entro le dieci del mattino e fino al pomeriggio inoltrato non c’è verso di fare un check-in come si deve. Non resta che concentrare la visita in quella parte del giorno in cui, specialmente nel centro e sud Italia, la gente normale giustamente rifugge la canicola e si gode la frescura delle abitazioni storiche di proprietà ereditate dai bisnonni che si spaccavano la schiena nei campi. Le rampe sono importanti e di una categoria che noi turisti di pianura le vediamo solo nelle illustrazioni di Escher, con l’aggravante di non essere per nulla attrezzati per quel tipo di esperienza in cui si mescolano botteghe di artigiani con scalate ai borghi in quota che imporrebbero scarpe tecniche e abbigliamento almeno del Decathlon.

Il risultato è l’umiliazione delle aspettative. Nessuno suona la musica che ci motiverebbe a superare i nostri limiti per conquistare la torre più alta e la vista da sotto non è certo la stessa che ricordavamo dal documentario, quando una telecamera si librava come un nibbio sulle più alte pendici del maniero normanno. Le riprese con il drone vanno a colpire una zona vergine della nostra emotività limitrofa alla sensazione di vertigine, in quell’istante a ridosso dello sconfinamento nella paura dell’altitudine, in cui la finzione televisiva ci lascia credere di essere altrettanto audaci. Ci dimentichiamo che i documentari sono marketing allo stato puro e che poi, il prodotto, è ben altra cosa dalla foto che lo ritrae sulla confezione. È una moda. Si sgonfierà, prima o poi.

sticazzi

Standard

Quando qualcuno ti dice quanti anni ha senza che tu l’abbia chiesto questa è l’espressione giusta di rimando. E anche se non lo dici e lo pensi soltanto, te lo si legge sulla faccia il disinteresse e l’ironico stupore. In una parola:

irritante

Standard

Non credo di aver mai visto uno spot in tv doppiato così male.

fai schiattare il divertimento

Standard

Lo storytelling dei Tuc potrebbe ampiamente affondare le sue radici nella nostra tradizione, anziché ridurre l’esperienza di prodotto a dei bamboccioni scansafatiche che perdono tempo in divertimenti di dubbia efficacia. Pensate a quante volte li abbiamo acquistati nei distributori automatici o ai bar delle stazioni ferroviarie, prima di metterci in viaggio. E quanta sete abbiamo sopportato per aver dimenticato che, con dei cracker così salati, sempre meglio non lesinare nelle scorte d’acqua. Ah, le carrozze ferroviarie di seconda e terza classe di una volta. I treni locali in legno, così romantici, con tutte quelle fermate inutili e quelle ore passate a guardare il paesaggio scorrere veloce (per modo di dire) al finestrino sgranocchiando Tuc e facendo briciole in attesa della destinazione. C’entra poco o nulla, ma ho notato che il tempo con cui ci si alza dal sedile e ci si prepara alla propria fermata è direttamente proporzionale alla propria età anagrafica.

Ma non c’è solo il treno. Mia nonna non saliva mai in auto senza una scorta di Tuc in grado di sostenerla lungo la distanza che la separava dal paesello natio. In realtà pativa la guida di mio papà – suo figlio – che la scarrozzava e aver qualcosa di asciutto (nonché sfizioso) con cui limitare la nausea dovuta ai tornanti le consentiva di giungere a destinazione senza soste.

Quelli della Tuc quindi dovrebbero sincerarsi di quanti lo comprano per tenerselo in casa e quanti, invece, se ne approvvigionano esclusivamente dal carrello delle bibite a bordo degli Intercity. Io, a naso, direi più la seconda, perché se ne compro una confezione da tenere in dispensa non arriva sana e salva a sera. E se gli ingredienti del prodotto sono chiari sulla confezione, quelli della storia sono un mix poco comprensibile. La bandiera, i tre amici, la noia chiusi in casa – siamo ancora in lockdown? – e i diversivi poco credibili. Meglio un vagone di altri tempi, una nonna con i nipotini, un viaggio attraverso il passato, una confezione di cracker salati e tante, tante bottigliette d’acqua nella strada che ci porta alle vacanze estive in un paesino di riviera lungo quella ferrovia che, un tempo, scorreva a ridosso degli scogli.

sentirsi giù

Standard

La percentuale di colleghi provenienti dal sud è molto elevata anche nella mia scuola. Posso intuire il motivo di questo fenomeno ma, se devo dirla tutta, le argomentazioni che sento in giro a supporto della teoria dominante non mi hanno mai convinto completamente. Anche la mia dirigente è di origine meridionale ma, nonostante ciò, ha messo un freno sulla pessima abitudine di anticipare le festività natalizie per prolungare il più possibile il ricongiungimento con i parenti al paese di provenienza. Nessuno può prendere ferie o permessi prima dell’ultima campanella, quella dopo la quale i bambini si precipitano tra le braccia dei genitori per consegnare con orgoglio il lavoretto di natale incellofanato e correre a giocare con gli amichetti, dimenticandosi immediatamente del lavoretto incellofanato.

Noi quest’anno abbiamo proposto un’attività complicatissima che, se non fosse per l’impegno della mia collega di sostegno che si è accollata il gravoso onere di coordinare il lavoro con i bambini, mi avrebbe condannato a una vergognosa débâcle. L’ha proposta una collega di quelle che hanno fatto la gavetta negli oratori estivi e che ostenta un approccio da caserma che le invidio tantissimo in quanto molto più efficace del mio, che invece è da centro sociale occupato.

Il lavoretto – che poi solo il termine lavoretto mi fa accapponare la pelle – consiste in un palloncino intorno al quale i bambini hanno arrotolato un lungo filo di lana imbevuto nel vinavil. Una volta asciugato e scoppiato il palloncino, il risultato sarebbe dovuto consistere in una pallina di natale da abbellire, in ultima fase, con un fiocco e il biglietto realizzato con la collega di religione. Questa l’expectation, anni luce dalla reality. A parte come si sono ridotti i bambini durante la realizzazione, con la colla fin sopra i capelli, e come hanno conciato l’aula, per la gioia delle collaboratrici (del sud in percentuale simile a quella di noi docenti), l’obiettivo è stato parzialmente raggiunto solo grazie alla manualità della mia collega di sostegno. Lei ha tutta la famiglia sparsa tra Italia ed Europa e ha trascorso lo scorso pranzo di natale da sola nella casa in cui abita alla periferia di Milano, in videoconferenza con i genitori e fratelli a causa del Covid.

Ma questo è niente in confronto alla sua omologa – e altrettanto precaria – che era in classe da me lo scorso anno. Accettata la nomina si era trasferita ma, non trovando una sistemazione, aveva vissuto i primi due mesi in un albergo dell’hinterland. Separata e con una figlia a casa coi nonni, ricordo che per le feste non le era stato possibile rientrare in tempo.

Ho pensato a lei e a tutti i casi come il suo vedendo il nuovo spot della Conad. Una bambina intraprendente nota il suo maestro al supermercato che paga in cassa un panettone monoporzione. Subito mobilita il resto della scolaresca per imbandire un pranzo coi fiocchi e poi, il 25, si presentano tutti quanti a casa del docente per festeggiare insieme. Mi piace quando si vuole trasmettere il fatto che, quello dell’insegnante, può essere anche un lavoro maschile.

Però, se fosse per me, questa volta avrei sottolineato la solitudine dei docenti solitari e lontani da casa con una maestra, anziché un maestro. Perché agli uomini, tutto sommato, arrangiarsi da soli è utile e fa anche bene. Per le donne invece è un po’ un peccato, non certo perché non sono in grado di essere indipendenti (anzi, sicuramente una maestra si sarebbe inventata qualcosa di più creativo dei tortellini in brodo, premesso che adoro i tortellini in brodo) ma perché da sempre, in questa diaspora dovuta al peccato originale dei mestieri della scuola che va così e nessuno si impegna a cambiare, sono loro ad aver sempre pagato di più. Sarebbe giusto cominciare a restituire loro qualcosa.

consigli per gli acquisti?

Standard

I tre spot del momento sono il cashmere Falconeri, la pubblicità di Natale di Intimissimi e quello del chianti Gallo Nero. Li considero gli spot del momento perché li vedo a ripetizione nella fascia oraria in cui accendo la tele, all’ora del telegiornale. Non solo: li vedo spesso in sequenza, uno dietro l’altro, ma non saprei spiegare la ragione di questa programmazione congiunta. Di certo, considerata la frequenza dei passaggi, gli investimenti in comunicazione delle tre aziende produttrici sembrano essere copiosi. Ma c’è un ulteriore fattore che li unisce: in qualche modo mi urtano, ogni volta che li trasmettono.

Lo spot del cashmere Falconeri ha una musica inutilmente epica, una colonna sonora in puro stile marketing da scalata verso una vetta o impresa portata a termine rischiando la vita. Il tutto su immagini che non c’entrano molto: scampoli di lana colorata cuciti insieme con maestria e modelle che indossano i capi testé ultimati per guardare chissà che cosa fuori dalla finestra:

Dello spot Intimissimi di Natale non c’è nulla di sbagliato se non che non so che gusto ci sia a preparare l’albero in mutande e reggipetto, o comunque in déshabillé, oltre al fatto che porno e tradizione non costituiscono, a mio parere, un connubio azzeccato. Piuttosto meglio il tipo norvegese che si limona Babbo Natale, ecco. Qui manca completamente l’ironia e la seduzione, con gli addobbi, stride un po’.

Dello spot del chianti Gallo Nero, invece, il tipo che balla e fa le smorfie è irritante e per di più sembra uno che alza il gomito con frequenza. Ma ha un bel vestito.

linea verde

Standard

Ma che ci fa Luca Sardella nello spot dell’Amaro del Capo? Ah, il jingle è suo.

dietrologia per una merendina

Standard

C’era una volta una mamma single in carriera che lavorava in una multinazionale, una di quelle aziende in cui il sole non tramonta mai e se ti occupi di certe cose come il marketing capita che di giorno hai a che fare con colleghi europei, di sera si svegliano gli americani e a notte fonda ti tocca rispondere alle e-mail degli asiatici. Uno scenario in cui non è così raro mettersi la sveglia alle quattro del mattino per partecipare a una call con sconosciuti che parlano comunque un inglese più fluente del tuo dall’altra parte del mondo. Cose già viste e stra-viste e, vi dirò di più, provate sulla nostra pelle. Un andazzo, o trend come si dice ora, che con lo smart working si è ulteriormente esacerbato e se prima eravamo già schiavi del lavoro in rete oggi siamo tutt’uno con il cloud, così digitalizzati da essere digitali, effimeri, diafani, facili prede di hacker russi e di ransomware che ci chiederanno soldi per avere in cambio noi stessi. Fino a quando si sveglia il figlioletto della mamma single che è in piedi da un pezzo per mettere insieme uno stipendio decente e, al posto di una fetta di pane con la marmellata, per colazione se la cava con una merendina confezionata, una di quelle che i genitori bioblu non offrirebbero nemmeno al figlio del loro peggior nemico. La mamma fetta al latte ha ancora le cuffie ma si capisce lontano un miglio che la call sta per terminare. A breve inizierà la seconda parte della giornata che la vedrà, ancora sveglia, portare il bambino a scuola e rimettersi al lavoro con le call con i colleghi italiani. C’è ancora tutto un mondo davanti, e le ore sembrano infinite. Togliti le cuffie, mamma. Tuo figlio ha bisogno di te.

poco convinted

Standard

Gli spot delle ennemila app per vendere la propria roba usata la fanno facile. Fai la foto alle scarpe che non metti più, ai jeans che ti vanno più bene perché la pandemia ti ha inquartato, al vaso che ti ha regalato il tuo ex e che ingelosisce il nuovo moroso. Poi decidi il prezzo e la metti su queste specie di Tinder del commercio di seconda mano e nemmeno il tempo che finisce lo spot te ne sei già sbarazzato. Ci sono però dei fattori intermedi che la pubblicità, che giustamente deve comunicare un modello e un mondo delle idee in cui tutti riescono a fare tutto, non prende in considerazione.

Intanto vendi una cosa se c’è domanda e non se c’è offerta, il mercato – anche se è delle pulci – funziona così, perché a regalare o a gettare nei contenitori della solidarietà sono capaci tutti.

Poi c’è il problema della spedizione. Se fossi uno startupper ossessivo compulsivo aprirei un’impresa che si occupa di spedizioni chiavi in mano per le app come Vinted e compagnia bella. Il venditore non deve fare nulla, nemmeno preparare il pacco. Prenota il ritiro, arriva questo corriere liquido, un po’ rider e un po’ due punto zero, che si prende in carico la spedizione, la incarta, la porta alle Poste, si spara la coda al posto tuo e spedisce il tutto per te che hai pagato un forfait. Ma non ho mai avuto il senso degli affari e questa parte del processo è una rottura di maroni senza precedenti.

Per dire, io una collezione intera di Dylan Dog e di quell’altro indagatore del futuro di cui mi sfugge il nome, centinaia di CD, due giradischi, capi di abbigliamento di due taglie fa e un sacco di altra roba di cui vorrei disfarmi ma l’idea di dover calcolare il costo comprensivo di spedizione, quindi di fare ogni casistica per ogni cosa, mi fa desistere ogni volta. Per questo quando vedo gli spot di questo tipo che la fanno facile mi chiedo chi ci caschi. Non lo metti più? Mettilo su Vinted. Certo, poi bisogna vedere se qualcuno te lo compra e, ancora prima, se ho voglia di portarlo all’ufficio postale.