poco convinted

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Gli spot delle ennemila app per vendere la propria roba usata la fanno facile. Fai la foto alle scarpe che non metti più, ai jeans che ti vanno più bene perché la pandemia ti ha inquartato, al vaso che ti ha regalato il tuo ex e che ingelosisce il nuovo moroso. Poi decidi il prezzo e la metti su queste specie di Tinder del commercio di seconda mano e nemmeno il tempo che finisce lo spot te ne sei già sbarazzato. Ci sono però dei fattori intermedi che la pubblicità, che giustamente deve comunicare un modello e un mondo delle idee in cui tutti riescono a fare tutto, non prende in considerazione.

Intanto vendi una cosa se c’è domanda e non se c’è offerta, il mercato – anche se è delle pulci – funziona così, perché a regalare o a gettare nei contenitori della solidarietà sono capaci tutti.

Poi c’è il problema della spedizione. Se fossi uno startupper ossessivo compulsivo aprirei un’impresa che si occupa di spedizioni chiavi in mano per le app come Vinted e compagnia bella. Il venditore non deve fare nulla, nemmeno preparare il pacco. Prenota il ritiro, arriva questo corriere liquido, un po’ rider e un po’ due punto zero, che si prende in carico la spedizione, la incarta, la porta alle Poste, si spara la coda al posto tuo e spedisce il tutto per te che hai pagato un forfait. Ma non ho mai avuto il senso degli affari e questa parte del processo è una rottura di maroni senza precedenti.

Per dire, io una collezione intera di Dylan Dog e di quell’altro indagatore del futuro di cui mi sfugge il nome, centinaia di CD, due giradischi, capi di abbigliamento di due taglie fa e un sacco di altra roba di cui vorrei disfarmi ma l’idea di dover calcolare il costo comprensivo di spedizione, quindi di fare ogni casistica per ogni cosa, mi fa desistere ogni volta. Per questo quando vedo gli spot di questo tipo che la fanno facile mi chiedo chi ci caschi. Non lo metti più? Mettilo su Vinted. Certo, poi bisogna vedere se qualcuno te lo compra e, ancora prima, se ho voglia di portarlo all’ufficio postale.

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