pelandrone

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Passiamo tutto l’anno a farci affascinare da documentari sui borghi più belli d’Italia realizzati con riprese effettuate con il drone e montate con musiche epiche e poi, quando li visiti affrontando dal basso impervie scalinate che portano a castelli diroccati con percentuali di inclinazione e dislivelli da paura, il tutto mentre ci sono quaranta gradi e lungo il dedalo di viuzze del centro storico non c’è nemmeno un bar aperto, l’effetto è controproducente. Le riprese con il drone costituiscono la nuova frontiera dell’iperrealtà, in cui quello che viene mostrato in tv è rappresentato in una forma ultra simbolica: il castello in alto sin troppo in alto, con le sue case medievali abbarbicate sulla roccia come un’emanazione dal potere che rappresenta, attraverso voli radenti che, sul divano di una qualunque domenica pomeriggio d’inverno, ti inducono alla scelta della meta delle prossime vacanze estive.

La colonna sonora risulta altrettanto stucchevole: i soliti quattro accordi mozzafiato, con le alternanze tra accordi maggiori e minori studiate a tavolino, in un tripudio di archi sintetici che vanno bene su qualsiasi scena pensata con l’obiettivo di convincere lo spettatore che qualcuno ha compiuto un’opera mirabile vincendo le sue stesse sfide con il coraggio e la fierezza di essere ricordato nei secoli a venire. Il tutto dopo la consueta orgia di carboidrati innaffiati dal prosecco del dì di festa per una condizione di ebbrezza – pronta a trasformarsi in pennichella – che contribuisce al pathos del messaggio trasmesso.

I nodi vengono al pettine solo qualche mese più tardi: il castello è lassù in cima, l’estate è quella più calda della storia dell’umanità, gli orari delle informazioni turistiche e delle attrazioni a cui sei diretto non coincidono con la roadmap della vacanza, in cui le stanze devono essere liberate entro le dieci del mattino e fino al pomeriggio inoltrato non c’è verso di fare un check-in come si deve. Non resta che concentrare la visita in quella parte del giorno in cui, specialmente nel centro e sud Italia, la gente normale giustamente rifugge la canicola e si gode la frescura delle abitazioni storiche di proprietà ereditate dai bisnonni che si spaccavano la schiena nei campi. Le rampe sono importanti e di una categoria che noi turisti di pianura le vediamo solo nelle illustrazioni di Escher, con l’aggravante di non essere per nulla attrezzati per quel tipo di esperienza in cui si mescolano botteghe di artigiani con scalate ai borghi in quota che imporrebbero scarpe tecniche e abbigliamento almeno del Decathlon.

Il risultato è l’umiliazione delle aspettative. Nessuno suona la musica che ci motiverebbe a superare i nostri limiti per conquistare la torre più alta e la vista da sotto non è certo la stessa che ricordavamo dal documentario, quando una telecamera si librava come un nibbio sulle più alte pendici del maniero normanno. Le riprese con il drone vanno a colpire una zona vergine della nostra emotività limitrofa alla sensazione di vertigine, in quell’istante a ridosso dello sconfinamento nella paura dell’altitudine, in cui la finzione televisiva ci lascia credere di essere altrettanto audaci. Ci dimentichiamo che i documentari sono marketing allo stato puro e che poi, il prodotto, è ben altra cosa dalla foto che lo ritrae sulla confezione. È una moda. Si sgonfierà, prima o poi.

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