ancora una questione privata

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È una vita che voglio fare la tessera dell’ANPI. Uno di quei buoni propositi che mi pongo con l’approssimarsi del 25 aprile o addirittura, come è successo proprio lo scorso anno, a Natale, quando una mia cara amica ha regalato l’iscrizione a sé e alla sua compagna e mi è sembrato proprio un bel gesto e così mi dico con autorevolezza che devo assolutamente farlo anche io. L’ANPI è una di quelle organizzazioni di cui non si dovrebbe mai fare a meno e che spero siano sempre attive per permetterci di ricordare il sacrificio che si è consumato e il valore intrinseco dell’antifascismo che dovremmo avere tutti noi già dalla nascita, quando impariamo a camminare, nelle prime letture, diventando ragazzi e poi adulti e poi vecchi perché è con l’antifascismo che ci siamo ritagliati una prima parte di libertà e democrazia. Chiaro che c’è ancora da fare, ma senza quel primo passo, quel rendere chiaro quel primo basso livello di garanzia e di tutela dell’essere umano dall’odio primitivo e fine a se stesso, senza il quale non saremmo qui a discutere di banche e di spread.

È bello che ci sia un passaggio di testimone tra chi ha combattuto e ha fatto la Resistenza in prima persona e le successive generazioni, ed è giusto sostenerlo anche economicamente affinché ci siano sempre risorse sufficienti a tramandare memoria e fonti. Nel mio piccolo do il cinque per mille anche se è difficile ogni anno scegliere quale progetto sostenere, e anche in questa occasione mi dico che appena ci sarà la possibilità farò la tessera proprio per fare di più. Perché, a parte il valore in sé dell’ANPI, ci sono molti momenti della mia vita in cui quello che ho appreso dai racconti – nei libri e nelle testimonianze dirette – e dai film sui Partigiani ha svolto un ruolo importante nella formazione della mia coscienza civica, ancor più che politica. Per non parlare di quando, un ricordo più che vivido nella memoria, mi trovai faccia a faccia con Sandro Pertini Presidente della Repubblica e mi feci avanti stringendogli la mano, ero poco più che un bambino in prima fila con la sua classe a una commemorazione di un cippo dalle mie parti, a pochi chilometri da dove Sandro Pertini era nato.

Questo per dire che se a fatica oggi mi affilierei a una formazione politica, ritengo la tessera dell’ANPI un gesto significativo, un offrire se stessi a sostegno di un pezzo di passato che dev’essere sempre qualcosa di più di capitolo sul libro di storia da fare in fretta e in furia in quinta a poche settimane dalla maturità. E giusto ieri, in occasione di una manifestazione che si è tenuta al mio paese, mi si è presentata una opportunità concreta. Tra numerosi stand di associazioni presenti ho notato proprio quello dell’ANPI. C’erano totem con foto e articoli d’epoca, e c’era l’invito a iscriversi più o meno per tutti i motivi che vi ho elencato sopra. Così mi sono affrettato per confermare con i fatti la mia adesione ideologica al progetto, poi ho visto la persona che avrebbe ritirato la mia quota di offerta, e ho tirato dritto ripromettendo di iscrivermi non appena si ripresenterà l’occasione.

così impari

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Mamma e figlia restano ferme mentre tutta la massa di bambini si riversa oltre la soglia della scuola da una parte e la massa degli accompagnatori si avvia verso il cancello di accesso, dall’altra. Restano immobili come trattenute mentre intorno la risacca dipana le onde umane lasciando il bottino della pesca alla mercé della rete, una delle tante metafore del malessere. Si dirada anche il vociare della cittadinanza attiva e passiva dei buoni propositi della mattina, lasciando libera all’udito la discussione tra le due ritardatarie, una che non vuole andare in classe e l’altra che giocoforza non può andare al lavoro.

Ed ecco a nudo tutto il dramma che si consuma, perché la madre si cala immediatamente nel ruolo della severità da disperazione e urla, la bimba quello del pianto in silenzio che è la cosa più straziante dei piccoli. Bocca serrata e lacrimoni che scendono sotto gli occhiali da vista sino al mento. La mamma non si lascia commuovere e le vomita addosso tutte le sue sacrosante ragioni. Adesso vai dentro perché è il tuo dovere e io non posso stare qui a litigare. Nel frattempo è uscita anche una bidella a mediare la situazione, si mette a lato delle due con le mani in tasca ma non sembra capace di dare la svolta, va solo a ricoprire una posizione di rottura dal punto di vista della prossemica: il genitore infatti si rivolge alla figlia ad almeno due metri di distanza e in piedi, senza un contatto rassicurante e senza inginocchiarsi per stabilire una parità di altezza di sguardi. La freddezza del rapporto non è per nulla inferiore alla temperatura di contorno, e la piccola resta lì.

Nemmeno la presenza di spettatori introduce un deterrente, una spinta verso la conciliazione. Guarda che ti porto dentro a forza tanto ormai la brutta figura con tutti gli altri ce l’hai già fatta. Questo è il segnale che ci dà il via, noi ci allontaniamo anche ma le urla ci seguono fino al parcheggio, nel silenzio mattutino quando passa anche l’ora di punta, per di più ovattato dalla neve che ricopre tutto. Quando ti accompagna tuo padre va tutto bene, quando di accompagno io mi fai sempre tutte queste storie. Ecco un altro elemento di valutazione. Probabilmente i genitori sono separati, e la bambina si nasconde dietro la gravità di papà e mamma che hanno anteposto chissà quali altre esigenze personali al suo bene. Lei vorrebbe soltanto uscire di casa lasciando temporaneamente una famiglia intera e non metà affetto per volta.

Oppure i problemi sono in classe. Magari la prendono in giro, magari ha una maestra che la vessa (e non so, ma se io fossi il bidello sarei già andato a chiamare l’insegnante perché la crisi sembra piuttosto seria), magari un compagno di classe la picchia, magari è una giornata così. O è il mal di stomaco perché siamo fatti anche di mal di stomaco. Quanti danni che fanno gli adulti distratti. Quando esco dal parcheggio il portone di ingresso si chiude finalmente dietro il suo zaino, grande quanto lei, e la scuola la fagocita ancora per fornirle un nuovo pezzo del kit anti-disagio che le spetta da programma. Montalo e tienilo con cura, piccola, che mamma non lo usa da un po’ e non sa più come si accende.

it’s halftime in Italy

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Qui da noi il secondo tempo c’è già stato, e probabilmente avremmo anche vinto se uno della nostra squadra non avesse fatto un clamoroso autogol facendoci perdere prima della fine della partita contro quegli altri, quelli che facevano sgambetti e tiravano calci e avevano così tanti soldi che si sono comprati pure l’arbitro e il guardalinee. Grazie a loro siamo retrocessi in serie B, poi in serie C e a un certo punto a malapena avevamo le risorse per iscriverci al campionato, non eravamo nemmeno sopravvissuti ai tempi supplementari, il golden gol era così prezioso che se l’erano pure rubato. E solo di recente c’è stato un ripescaggio, l’ex allenatore è nel pieno dello scandalo delle scommesse, e ora c’è appena stato il calcio d’inizio e noi tutti siamo sugli spalti a tifare questa squadra che nel frattempo ha cambiato tutti i giocatori, l’allenatore è un tecnico che ha imparato nuove strategie con squadre europee, dicono che con questa formazione rischiamo pure di vincere.

pagherete tutto

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Marco e Stefania – due nomi di fantasia – abitano nel mio stesso quartiere, li conosco per via della scuola, la loro primogenita è stata compagna al nido di mia figlia. Marco fa l’artigiano in proprio, lavori di edilizia di interni come pavimenti e pareti, Stefania per lo più è casalinga e accudisce i tre figli anche se prima di avere il terzo ha ottenuto qualche lavoretto a tempo determinato part time. Marco e Stefania non sono sposati, la scelta dello stato civile dipende ufficialmente dalla loro visione della famiglia, in realtà dalla loro visione dello stare al mondo.

Marco infatti mantiene tutt’ora la propria residenza nella casa in cui ha vissuto prima di incontrare Stefania, un appartamento di edilizia popolare concesso ad un affitto più che irrisorio. Stefania così risulta a tutti gli effetti una ragazza madre, ottenendo benefici sul mantenimento dei figli, sulla loro istruzione, sulla sanità e sui servizi pubblici in genere che altrimenti, visto il reddito del marito, reddito effettivo e non dichiarato, dovrebbe pagare. In questo anonimato civico la sua quota è invece redistribuita sulle nostre tasse. Inutile entrare nei dettagli del reddito di Marco, il quale lavora senza interruzione vista la proliferazione di richieste di interventi di ristrutturazione di interni, ma, almeno fino ad oggi, rigorosamente in nero, consentendo a sé alla sua famiglia un tenore di vita al riparo da problemi. Non si fanno mancare nulla, insomma. Quindi oltre il danno, l’evasione totale recidiva, anche la beffa, contribuenti irregolari che sottraggono risorse alla collettività non avendone diritto.

Ora, a proposito degli efficaci controlli a tappeto incrociati tra Guardia di Finanza, Ispettorato del lavoro e Inps sui commercianti, le comunità come la nostra, quella composta da soggetti fisici involontariamente trasparenti al fisco, attendono un analogo intervento altrettanto efficace nei confronti dell’altra comunità, quella dei soggetti giuridici volontariamente usi al sommerso. Considerando infatti il settore in cui opera Marco, la percentuale di operatori nella mia rete di conoscenze che non si fa scrupolo di danneggiare lo Stato e, di conseguenza, me, credo sia vicina al 100%. E, in tutta onestà, non saprei dirvi se provo maggiore fastidio per i grandi evasori, quelli dei capitali in Svizzera o delle Isole Cayman, o per Marco e Stefania e gli amici loro che dal basso, come un fenomeno carsico, sono stati tra le principali cause dello sgretolamento della stabilità stessa della convivenza civile, facendo venir meno la principale piattaforma su cui essa si appoggia. Sempre che lo si possa dimostare.

eccezionale veramente

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Si fa un gran parlare di semplificazioni, finalmente è stato appurato che rendere le cose più facili rende la vita più semplice e, soprattutto, fa risparmiare. Semplificare però non mi sembra un verbo felice, anche se è il più appropriato a descrivere il processo di sfoltimento di norme e procedure che è in grado di migliorare addirittura l’economia di questo Paese, possiamo dire che è il termine più semplice da utilizzare in questo caso ma non mi suona in tutta la sua positività. Userei apparenti sinonimi come “ottimizzazioni” o “razionalizzazioni”. C’è un libro in commercio dal titolo “Come semplificarsi la vita”, per farvi un esempio, che un giorno ho visto in mano a un tizio con la testa rasata, e mentre ne sbirciavo le pagine mi è saltata agli occhi la ricchezza di vignette e esemplificazioni grafiche versus la penuria di parole, un vero e proprio manuale illustrato pensato con l’obiettivo di rappresentare situazioni tipiche del quotidiano. E tra me ho pensato quanto ancora vuoi semplificarti la vita, figliolo, più del tuo sistema binario di interpretazione della realtà che ti ha già riempito l’immaginario storico di croci celtiche. Il suo amico, di fronte, leggeva però “Il fucilatore” di Giorgio Almirante, e detto tra noi forse è meglio, a quei personaggi lì, lasciargli in mano le innocue dispense di training comportamentale.

Questo per dire che non vorrei che l’atto della semplificazione fosse confuso con un modo di procedere un po’ grossolano, l’arrivare da un punto A a un punto B usando la traettoria meno curvilinea possibile e tagliando fuori le complessità di alcuni metodi sfrondandoli dalle eccezioni, la negazione delle quali comunque non ne implica la cancellazione. Quel che è successo tra istituzioni e imprese e cittadini, nel tempo, ha generato una eccessiva customizzazione delle normative tale quasi da costituire un unicum per ogni soggetto, questo dall’alto verso il basso, consentendo spesso anche interpretazioni opportunistiche con l’avallo degli apparati politici e giudiziari.

Dal basso verso l’alto, al contrario, il sistema in essere ha favorito la diffusione di una intricatissima giungla burocratica senza precedenti, un labirinto mascherato da prassi nel quale ci si perde con facilità. Pensate a quanta documentazione firmiamo, nella nostra vita, senza nemmeno leggerla, in banca come nelle agenzie assicurative, negli studi di avvocati o notai, presso gli uffici della Pubblica Amministrazione. La cosa importante è che la semplificazione non giustifichi l’approssimazione, per eccesso come per difetto, tagli di grana grossa, numeri senza virgola che lasciano fuori dal gioco decimali impossibilitati a completarsi nell’intero più vicino.

agli ordini!

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È facile per loro. Non solo dispongono di statuti corporativi ma hanno pure mezzi di trasporto privati e ingombranti e possono bloccare il traffico in città e creare concretamente un disagio, come i TIR che si mettono in fila ai cinque all’ora in autostrada. Pensa se qualcuno avesse l’idea di alzare barricate di desktop, portatili e monitor giù nella via. Che discorsi. A oscurare siti internet in segno di protesta non se ne accorge nessuno, e poi a chi verrebbe mai in mente di liberalizzare la precarietà.

gioia e rivoluzione

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Tornando alla lamentatio con cui Gino Castaldo ratificava l’assenza di un qualsiasi artista, gruppo o interprete che fosse in grado di incarnare tutto quanto sta dietro ai movimenti di protesta newyorkesi riconducibili a Occupy Wall Street, ecco la risposta – pura coincidenza, chiaro – proveniente da quelle party, e non si tratta di un refuso. New Party Systems è il supergruppo che propone un inno, dal mio punto di vista più che autorevole, per sonorizzare la situazione. E indovinate un po’ a chi appartiene la vocina solista dell’ambizioso progetto. Vi lascio un indizio con soluzione compresa: suona la chitarra e supporta vocalmente il cantante Tunde Adebimpe in una delle mie band preferite, i Tv on the Radio.

ti smontiamo subito

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E invece ho capito come ti saluteremo, quando il tuo mandato terminerà e noi saremo così scellerati da non prolungare il contratto a tempo indeterminato che ci lega a te per altri cinque, dieci, venti anni o almeno finché la tua post-politica non avrà risanato i fondamenti della vision di ognuno di quei gruppi organizzati che ora stanno seduti nell’emiciclo di fronte a te, alcuni dei quali composti da membri con serie difficoltà nel comprendere te e il team che hai scelto per farci risalire la china. Sappi che nessuno ci ha mai parlato così, e il tuo operare probabilmente sarà ricordato come il più rivoluzionario degli ultimi decenni. Stai sovvertendo un sistema, stai ripristinando dei valori, stai costruendo, almeno sul piano del senso comune. Ma noi non capiremo tutto questo, perché i simboli sono più appealing della sostanza, anche se si tratta di quella che non abbiamo mai visto perché ci hanno sempre e solo promesso nuove accezioni dei significati dei simboli stessi o, al massimo, qualche restyle grafico.

Così ho capito cosa ti diremo il giorno del commiato, e non sono stato il solo. Tutti noi abbiamo avuto l’illuminazione sentendoti parlare anche questa sera nel modo in cui avremmo voluto sentire parlare ognuna delle persone a cui è stata delegata, nel tempo, una qualsiasi risposta a una decisione comune. E quel giorno lì, quel momento che la componente pessimista e distruttiva (sempre la maggioranza) di noi purtroppo non riesce a non calendarizzare, avremo il coraggio di dirti che è finita, Mario. Devi rientrare sul tuo pianeta da quelli come te. Raccontagli di dove sei stato, racconta a loro di noi, digli che viviamo in un posto di merda e che abbiamo un modo di vedere le cose demenziale per la nostra ubicazione geografica, economica, storica. Puoi dirglielo pure, senza giri di parole, che siamo spacciati.

#scontrinoweek

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Preparatevi, perché la prossima sarà la settimana dello scontrino, la #scontrinoweek.

Sarà una settimana di sensibilizzazione, nella quale non sarà soltanto normale chiedere lo scontrino, ma si potrà lasciare in cambio un proprio scontrino personalizzato.

Con un messaggio che richiami al patto di cittadinanza, ricordi l’ammontare del debito o la percentuale di evasione sul Pil. Oppure con il messaggio del gatto con gli stivali: “insieme possiamo fare molto”.

Perché il dilemma di Kennedy va risolto così: chiediti cosa può fare il tuo Paese per te e anche cosa puoi fare tu per il tuo Paese.

Il cambiamento è individuale e collettivo insieme, altrimenti non è. E non c’è solo Cortina, ci sono più di altri ottomila comuni. E un lavoro culturale da fare, tutti insieme.

Da Civati.

Monti di Reggio Emilia

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Non se se vi è capitato di sentire il discorso di Mario Monti ieri in occasione del 215esimo anniversario del Tricolore (la bandiera, non la fiamma) a Reggio Emilia. A parte immaginarsi come avrebbe potuto condurre un intervento del genere la persona che lo ha preceduto nella stessa carica, per usare una locuzione veltroniana. Ma questo è il punto: l’aver trattato un insieme così apparentemente eterogeneo di temi riconducendo nello stesso discorso la storia, il presente e il futuro dell’Italia, immaginarsela non solo nel 2021 ma anche nel 2051, l’economia e il risorgimento, la manovra e la bandiera. E ogni volta che gli sento proferire qualche passaggio a proposito della caducità del suo mandato, e lo ha fatto anche in questa occasione, sento che mi manca già. Sarà difficile tornare indietro dopo questa esperienza, sarà un vero trauma quando riprenderà la campagna elettorale.