ma giusto per non vedertelo sempre in mano

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Se già l’avere tutto a portata di mano con l’internet vi trasmette completezza e un livello di progresso che non ha confronti ma che quando trovate le striscioline di quotidiani cinesi usate per fare spessore nel sistema di chiusura degli ombrellini dei long drinks vi fa riflettere sulla parte del mondo a cui dobbiamo tutto, provate a immaginare il senso di sazietà tecnologica che ci hanno dato scoperte come la tv a colori, o le cuffie per riproduttori audio portatili, o anche una partita a pong. Persino la lavastoviglie Siemens di mia mamma che funziona ininterrottamente dall’82 mentre la mia, acquistata nell’anno del matrimonio, è di una marca italiana che nemmeno esiste già più, uscita fuori gioco senza nemmeno passare dal via alla delocalizzazione. Mi ricordo persino il profumo del vano per le cassette della piastra del primo impianto hi-fi e la reazione fisiologica che mi dava la polvere che si raccoglieva sulla fila degli LP riposti di costa proprio come accade oggi, la differenza è che una distinta signora ucraina una volta alla settimana comprime in un aspirapolvere obsoleto con il sacchetto ogni rischio di allergia con acari di contorno. Ma se fosse per me io mi sarei fermato già da un pezzo perché nessuno vi verrà mai a dire che gli manca qualcosa, al massimo qualcuno ma è un altro discorso, e senza tirare in ballo quelli della decrescita felice io mi accontento di una stabilità non certo triste ma con quel poco di nostalgia per gli album Disney con le storie di topi e paperi contestualizzate per i mondiali di calcio, il significato di cinque stelle che era una latteria dove mio papà comprava i semifreddi al sabato sera da gustare durante Fantastico con Beppe Grillo, ironia della sorte, persino l’odore che c’era nella Ford Taunus che mi faceva venir da vomitare dopo un paio di isolati e che non ho mai capito perché un abitacolo di berlina dovesse puzzare così di abitacolo di berlina. Nello stesso anno – non chiedetemi quale – qualcuno è riuscito persino a far coesistere una specie di console portatile ante litteram con cui si poteva solo giocare a un gioco e basta e io avevo scelto il basket, con una lineetta accesa che alla pressione di un pulsante a forma di freccia faceva allontanare da sé un puntino – la palla – verso uno spazio vuoto che era un canestro, e allo stesso tempo dicevo c’era un catafalco con delle molle che, comandate da tastoni colorati, lanciavano una pallina da tennis tavolo in un canestro. Una specie di pallacanestro balilla, passatemi il termine, fatto apposta – credo di essere stato il proprietario dell’unico articolo venduto – per gente che si faceva fotografare ancora con i genitori in vacanza. Invece no, gli inventori non si fermano ed è per questo che tergiverso quando mia figlia mi chiede questa o quell’altra cosa. Tesoro, le dico, che cosa te ne fai di uno smartphone? Se devi chiamare qualcuno – e mi chiedo chi debba chiamare al di fuori dei suoi genitori ma vabbe’ – se devi chiamare qualcuno puoi farlo col telefono di casa. Se vuoi invece spippolare con le cosine touch che vanno per la maggiore abbiamo già un tablet in casa, se si tratta di voglia di entertainment digitale, allora, non ti puoi certo lamentare sulle prestazioni dei pc domestici. Non è tanto quindi necessità di comunicare, è più una voglia di avere un robo che se non ce l’hai ti senti un po’ escluso.

fate la pace, fate i bambini

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Ci sono bambini che hanno visioni talmente surreali che poi ci pensi e tutto sommato sono solo loro che, anziché portare problemi, propongono soluzioni. Assolutamente impraticabili ma talmente folli che poi, a provarle, magari funzionano pure. Dimenticate le pagelle così così, le tonnellate di cacca che avete impacchettato nei pannolini usa e getta, la varicella che vi hanno attaccato il giorno prima del colloquio della vita, i letti matrimoniali affollati nei momenti potenzialmente più erotici, il vomito di latte in macchina, le partite di volley alle otto del mattino dall’altra parte di Milano, l’organizzazione delle cacce al tesoro multiplayer. Perdonate ai vostri figli tutto questo, portategli la carezza del Papa ma date loro una opportunità di salvare la situazione e cambiare il mondo. Saltiamo a piè pari i quarantenni, i trentenni, i ventenni, tutti quanti. Cancelliamo questa manciata di generazioni inutili che tanto non hanno speranza e ripartiamo da loro, dai decenni e rotti. Oggi uno di loro mi ha convinto che c’è solo un modo per interrompere i tumulti in corso in Ucraina e che tanto affliggono un suo compagno di classe di Kiev, qui in Italia per il lavoro dei suoi genitori. Tutti noi, tutti i cittadini dell’Italia e dell’Europa se non del mondo intero tranne che quelli ucraini, ovviamente, ché sarebbero di parte in un conflitto di interessi poco adeguato al momento. Questa massa di miliardi di abitanti del pianeta Terra dovrebbe riversarsi in quella piazza con il fuoco e le fiamme che vediamo all’ora di cena al tiggì. Sì, avete capito bene, prendersi qualche giorno di ferie, mollare tutto per andare tra manifestanti e polizia, mettersi in mezzo e convincere tutti a fare la pace. Ve lo immaginate, miliardi di persone a Kiev? Gli stessi che poi si spostano in Siria con lo stesso obiettivo, poi a Gerusalemme, poi in Afghanistan, in Iraq, un immenso flusso migratorio che si muove in ogni posto al mondo dove c’è la guerra, anche nei posti più lontani anche ai confini della terra. E una volta lì le guerre e le battaglie smettono, perché tutti sono contenti dell’attenzione che miliardi di persone gli hanno dedicato. Vi dirò. Si tratta di una strategia che ha dei risvolti inaspettati. Nel senso che se tutti vanno a Kiev, in Siria, in Egitto, in uno degli ennemila paesi africani dove ci sono guerre civili, se tutti se ne vanno e lasciano le città deserte, vuol dire che non ci sarebbe più nessuno al suo posto e tutto si interromperebbe. Sparirebbero autotrasportatori e casellanti, vigili urbani e postini, panettieri e addetti alla pulizia delle strade, impiegati e commercianti. Tutti via, tutti fuori. Un grande inimmaginabile silenzio, perché non ci sarebbero nemmeno le trasmissioni tv. Non ci sarebbe Sanremo. Ecco. Non ci sarebbe Sanremo.

l’ora di applicazioni tecniche

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Tre bambini, tre giovani promesse della scienza e dell’invenzione. Il primo sogna di brevettare una pellicola trasparente protettiva in PVC, una specie di domopack con cui avvolgere completamente il proprio corpo a formare uno strato privo di imperfezioni tale da risultare invisibile. Lo scopo non è quello di conservarsi in frigo, ma proteggersi da schiaffi, pugni e calci. Si tratta infatti di una seconda pelle artificiale che rende imbattibili e consente di affrontare con coraggio i bulli e vincerli solo con la resistenza alle loro angherie violente. Il secondo, un po’ più già sentito, anela all’invisibilità ma non per spiare le donne che si spogliano come farebbe chiunque. Lui si limiterebbe all’assaggio di gelati per stilare una classifica dei prodotti più genuini. Per rendere più efficace il suo sistema troverebbe anche il modo di estendere l’invisibilità persino alla materia appena sfiorata dal corpo già invisibile, questo per non far scorgere a terzi le cucchiaiate di gelato levarsi dai contenitori nei pozzetti e scivolare giù, dalla lingua al palato fino all’esofago. Il terzo è il mio preferito. Un sistema per scrivere sulla parte posteriore delle palpebre in modo da leggere a occhi chiusi. Lo scenario tipico è la scuola. I ragazzini che non è che hanno così tanta voglia di studiare possono incidere le risposte con un inchiostro particolare sulla membrana interna, quella a contatto con le pupille, così chiudendo gli occhi sarà possibile trovare le risposte alle inique domande degli insegnanti. Sarà sufficiente un impercettibile battito di ciglia trattenuto qualche secondo in più per avere sempre pronta la risposta giusta e non rischiare brutte figure e voti negativi alle interrogazioni. Il rischio è prenderci gusto, trattenere le palpebre chiuse sempre più a lungo, leggere il testo scritto sotto più volte sino ad addormentarsi, e per questo ognuno è pronto a giurare che trovare un antidoto è impossibile.

monsters & co

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Mia figlia si indispettisce spesso quando in casa, tra amici, o al telefono, sente mamma e papà discutere di politica. Quando cerchiamo di seguire un telegiornale, giusto per non dipendere da Internet come unica fonte d’informazione, ma lì la capisco, a quell’ora le piacerebbe rilassarsi sul divano e guardare un cartone dal media player. Quando viene il Beppe, e si discute sul partito, sulla sua riorganizzazione, sulle iniziative per portare la politica al territorio, per farla percepire come uno strumento di governo dal basso e una sorta di pannello di controllo per decifrare quello che succede. O quando siamo su un sentiero di montagna, squilla il telefono ed è l’amica che ci aggiorna sull’ultima schifezza del governo in auge, sul tale o talaltro processo del premier, e via dicendo.

In effetti, mia figlia ha i suoi buoni motivi, per indispettirsi. E siccome è mia moglie quella più dentro alle questioni, io prendo da parte la piccolina e cerco di farle capire che sì, che i grandi parlano di cose che possono sembrare noiose, ma che è come se in classe doveste prendere una decisione importante ed è necessario discuterne, sentire il parere di tutti, convincere tutti a partecipare perché è così che funziona la società, anche una micro-società come quella di una seconda (a breve terza) elementare. Che, insomma, quello che succede intorno a noi, e intorno ai grandi, dovrebbe anche interessare i bambini, perché tutte le decisioni che passano attraverso il confronto politico riguardano anche loro.

Ma lei si imbroncia di più, e mi dice che no, non è vero che riguardano anche i bambini, e che in classe, tra compagni, ci sono argomenti ben più interessanti su cui discutere. Le chiedo di fare un esempio. Lei mi guarda con quella espressione che fa quando sa che sta per dire una cosa che mi contrarierà, un misto tra timore, il fascino della sfida sferrata ai genitori e il dispiacere di dare al nostro dialogo una venatura di contrasto. Quindi mi dice un nome, il nome è Yara.

A casa stiamo il più possibile attenti a lasciare nostra figlia esposta agli input esterni da sola, sia di attualità che di puro entertainment, senza il nostro filtro almeno finché ci sarà riconosciuta l’autorevolezza di fonte e di opinionisti, a costo di subire, come succedeva anni fa, interminabili gag dei Teletubbies, o di testare i film anche più assurdi per bambini con l’obiettivo di evitare le distorsioni della realtà che l’informazione mediata dalla tv è in grado di dare. Per farvi un esempio, l’unica volta che non ho controllato un cartone animato trovato in rete, scelto da mia figlia per una visione collettiva con nonni e zii, si è rivelato essere un film porno, non vi dico l’imbarazzo tra gli adulti seduti sul divano, una domenica pomeriggio, di fronte alla prima scena che stava per svolgersi in giardino.

Stesso discorso per la cronaca nera, che abbonda nella scaletta dei telegiornali. Non abbiamo trattato insieme di fatti inquietanti come l’omicidio di Yara Gambirasio, anche perché, per un genitore di una figlia femmina, confesso essere argomento molto difficile. Ma ammetto l’errore, perché considerando tutta la storiografia che ne è derivata, inerente immigrazione e xenofobia, pedofilia, comportamenti devianti di un branco eccetera eccetera, è facile immaginare come i dettagli possano arrivare a una bambina di 7 anni di rimbalzo a scuola. E la sintesi fatta dai bambini di quella età, mettendo insieme le voci del tg, le interviste voyeuristiche di programmi squallidi seguiti in case in cui la tv si accende oramai per riflesso incondizionato non appena si torna dal lavoro, forse per colmare i silenzi e la mancanza di dialogo, la sintesi contiene il peggio del peggio in diverse varianti. Il marocchino che l’ha rapita per rubarle lo stereo che stava riportando in palestra, l’istruttore di ginnastica adulto che spia le ragazzine durante le gare, il muratore rumeno che la voleva portare in discoteca. E ogni bambino partecipa attivamente al confronto, probabilmente, mettendo del suo, e il suo è quello che ha assimilato la sera prima, durante l’ora di cena. L’argomento deve aver colpito molto l’immaginario infantile, visto che le sessioni di discussione si sono protratte per tutto l’anno scolastico, a quanto pare.

E a quel punto il danno è fatto; perché rimettere insieme le tessere di un puzzle, già di per sé difficile, magari scremando la narrazione dai dettagli più piccanti che possono stimolare la fantasia di un bambino, è una partita persa in partenza. Sono certo, e mi serva come lezione per il futuro, che insieme alle storie che più l’appassionano, sto pensando a Ulisse nell’antro di Polifemo, o Clorofilla di Bianca Pitzorno e alcune amene avventure di animali antropomorfi visti sul grande schermo, tra le reminiscenze dell’infanzia di mia figlia e dei suoi amichetti, una volta cresciuti, troverà posto anche la storia epica di una ragazzina presa e uccisa da chissà quali esseri cattivi. Gli alieni, chissà.

che disse alla sua serva raccontami una storia la storia incominciò

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Ci sono state interminabili sfide a tennis da camera, con le racchette da badminton e la palla di gommapiuma. Il gioco era: battuta completamente fuori traettoria, io che mi chinavo a raccogliere la palla, quindi battuta più o meno calibrata e risposta sparata sul soffitto, quindi palla da recuperare, carponi, sotto l’armadio. Questo ripetuto per intere mattinate casalinghe d’inverno, a non più di 2 scambi per volta. La variante estiva era sul bagnasciuga con i racchettoni e la palla di gomma sparata ovunque, e io avanti e indietro a cercarla. Mai più di una manciata di secondi di azione di fila.

Ci sono state feste di compleanno da preparare, con la fantasia, nella grotta di Yoghi, in cui tu eri sempre la festeggiata e io il resto del mondo a imitare le voci dei tuoi personaggi preferiti. Poi, per fortuna, da Hanna & Barbera sei passata alla fase Peanuts, in cui era tutto più facile perché le voci di Charlie Brown e amici, non essendo così caratterizzanti come quella, per esempio, di Svicolone, potevo farle senza inflessioni dialettali.

Poi le storie da inventare, perché ti eri appassionata alle malefatte del professor Augenthaler che ne studiava sempre di nuove per soverchiare con angherie di ogni genere una intera classe di una scuola materna ma che, essendo composta da bambini dall’intelligenza acuta e sopraffina, alla fine capitolava sempre ma senza mai farsi arrestare, così che si potesse ricominciare da capo la volta successiva. La difficoltà aumentava se la storia era da inventare rientrando a casa, alle sette di sera, dopo otto ore in cui mi ero già abbondantemente spremuto il cervello per scrivere storie meno interessanti per la comunicazione aziendale.

E sono stato anche un mezzo di trasporto, perché il passeggino non l’hai mai usato se non come carriola da spingere contro le persone a spasso. Hai camminato ovunque sulle mie spalle, e giocavamo a fare Rospù in groppa di Azur che si finge cieco per non svelare i suoi occhi azzurri durante la ricerca di Asmar. Con questa tecnica abbiamo macinato chilometri ovunque, e se non lo facciamo più è solo per i due dischi che mi si sono schiacciati a forza di essere le tue gambe, con mio immenso dispiacere. Anche se ora, alla tua età e con la tua altezza, avremmo comunque dovuto smettere. Tante altre cose fatte insieme, indovinelli e serpenti con le mani, disegni da colorare e battaglie tra formiche e cavallette e chissà che altro faremo ancora.

Ma, più di tutto, abbiamo letto centinaia di libri. Ho iniziato io a farlo per te, perché tu non avevi ancora imparato; libri di tutti i tipi, più o meno adatti ai bambini, i primi con tante illustrazioni e poche parole, poi pian piano sempre meno disegni e sempre più storie da interpretare, fare le voci diverse nei discorsi diretti. Tanto che hai imparato molto presto, e hai iniziato farlo per conto tuo. Così è bello stare tutti e tre insieme, ognuno il proprio libro, la mamma spesso con il quotidiano.

Ma sappi che se posso, se vuoi, mi piace ancora leggere per te. Oggi eravamo coricati sul tuo lettino, eravamo alle prese con la storia della vita di Paperone, un’edizione supereconomica con i fumetti talmente piccoli da essere al limite della riconoscibilità. Mi dimentico sempre di buttarlo via, non so nemmeno come sia finito sui tuoi scaffali. Comunque, tenendo l’albo a pochi centimentri dagli occhi, appena oltre i parametri della presbiopia, cercavo di dare un senso alla narrazione. Ma avevamo finito da poco il pranzo e a fatica finivo le frasi senza assopirmi. Così mi hai preso di mano il libro e mi hai detto che lo avresti letto tu, per me, per farmi addormentare. Ed è stato bellissimo, peccato essere crollato così in fretta.

Cattelan colpisce ancora

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Dopo i bambini appesi, ecco la nuova provocazione artistica: