prove tecniche di giudizio universale

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Raramente mi trovo favorevole a cambiare il corso delle cose ma, per questo episodio, ho deciso di fare un’eccezione. Nicholas e David, i protagonisti di un racconto in cui un sabato mattina, fermi a un semaforo, hanno visto passare un tizio di corsa malgrado l’ora, un paio di sabati fa erano fermi al semaforo di Cascina del Sole poco prima delle sette del mattino e, a bordo del loro pick-up, si stavano recando al lavoro quando hanno notato un tizio in maglietta, pantaloncini e scarpette passare di corsa, malgrado l’ora. David e Nicholas, malgrado i nomi esotici, sono italianissimi, vivono a Cinisello Balsamo e hanno entrambi origini dal profondo sud. Nicholas era pensieroso perché, la sera prima, attraversando il piccolo giardino antistante l’ingresso del condominio in cui abita, è stato chiamato papà dal figlio dell’inquilino del quarto piano. Era sul suo balcone insieme alla nonna e ha gridato “Papà! Papà! Sta arrivando papà!”. La nonna si è messa a ridere e, con un po’ di imbarazzo, lo ha corretto a voce alta. “Ma no, non è papà, è un signore”. Nicholas così ha riflettuto su quante possibilità avesse in totale, nella vita, di essere scambiato per un signore magari sul lavoro, lui che fa il muratore. David invece dovete immaginarvelo meno sensibile. Uno di quelli che non ti fa passare con l’auto quando è fermo al semaforo e voi dovete attraversare con la macchina la colonna per andare dalla parte opposta e, anche se avete la freccia, fa finta di non avervi notato.

E infatti al cospetto del podista mattutino, David, un paio di sabati fa, fermo al semaforo, ha estratto una Lucky Strike senza filtro dal pacchetto morbido, la ha accesa nel pick-up e ha detto a Nicholas “alla faccia di quel salutista di merda che va a correre mentre noi andiamo al lavoro”. Il tempo di fare due tiri e David si è accasciato sul volante, colpito da un infarto. Morto sul colpo, per fortuna a furgone fermo al semaforo ancora rosso. Il semaforo di Cascina del Sole è famoso per essere lungo come la quaresima.

Così Nicholas, ancora distrutto per la morte improvvisa del suo collega e amico, mi ha mandato una e-mail chiedendomi un po’ di pietà per David. “David in fondo è uno buono”, mi ha scritto, “e non si merita la fine che hai deciso per lui”. La cosa mi ha fatto riflettere, perché se è vero che non bisogna fare battute sulla salute altrui, questo vale sia per i protagonisti dei racconti che fumano che per gli scrittori, soprattutto se gli scrittori non fumano ma vanno a correre la mattina presto alla faccia dei muratori fermi al semaforo che aspettano il verde per andare al lavoro. Così ho pensato che la mattina di quel sabato lì, il nostro runner mattutino anziché dedicarsi alla sua sessione di allenamento si è svegliato con un fastidio alla coscia destra, dovuto all’ultima corsa fatta due giorni prima, e ha rimandato la corsa alla mattina successiva, nella speranza che David aspetti di accendersi la prima sigaretta della giornata almeno dopo pranzo.

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Cristo, faccio il biglietto proprio quando l’annunciatore ricorda ai viaggiatori che oltre al fatto che la metro è bloccata, come riportano tutti i display alla fermata, non è detto che se uno è depresso esista una forma di rivalsa grazie alla ripresa del funzionamento di qualcuna delle linee nonostante l’alluvione, per cui si ha diritto a un premio con una fornitura di cose belle di entità corrispondente al disagio arrecato. La voce ai diffusori aggiunge che l’escamotage narrativo della cosa detta attraverso l’annuncio oggi non ha valore di titolo di viaggio, a causa di uno sciopero indubbiamente fuori luogo degli addetti al traffico di emergenza. Una vera coincidenza perché sembra tutto stramaledettamente uguale a quella domenica di novembre in cui dovevo raggiungere un amico alla presentazione del primo libro di Azael alla Mondadori di via Marghera, ma Milano era appena stata vittima di quel tilt oggi riportato sui libri di storia in quanto identificato come il vero inizio del cambiamento climatico ed ero rimasto bloccato a Zara sulla gialla. C’ero rimasto male perché davvero uscivo raramente e una volta che lo facevo mi toccava subire le angherie della casualità spalleggiata da un assembramento di giganteschi e rumorosi tifosi croati bloccati anch’essi nel tentativo di raggiungere San Siro per la partita contro la nazionale italiana.

L’analogia è che oggi invece vado a sentire quel gruppo di ultracinqantenni che quest’anno sono finiti in cima a tutte le top ten, le liste delle webzine di musica e i migliori dischi della stagione secondo tutti gli influencer di musica alternativa più seguiti. Li chiamano gli anziani della new wave ed è per questo che mi sono simpatici perché questa cosa di surclassare i pivelli dietro ai synth di una band post-punk alle soglie dei sessanta era una mia fissa quando scrivevo su quel blog degli aneddoti dal mio futuro. Prima ancora che uscisse il mio primo romanzo, quello che mi ha fatto conoscere oltre la nicchia che mi leggeva e che beh, sapete come andata se siete qui a sentire questa nuova storiella, giusto? Così cerco di fare di tutto per raggiungere il posto in cui sta per esibirsi questo complesso che ha spiazzato il mercato perché non è come per i Rolling Stones o altri musicisti di una certa età che però è quarant’anni che suonano e quindi hanno gente che li segue da sempre. Questi si sono formati da poco a un’età che uno non direbbe mai che a un musicista viene voglia di mettersi a suonare in giro e fare concerti, ma hanno fatto il botto sfruttando anche il fatto che i più giovani da qualche tempo a questa parte hanno altri modi per passare il tempo e nessuno vuole fare la rockstar di mestiere mentre loro sono di vecchio stampo e non si sono certo tirati indietro. Anche io ho iniziato a scrivere tardi, per dire, ed è la conferma che da un po’ a questa parte tutto è cambiato, c’è una specie di disordine anagrafico per cui non si capisce più niente, non c’è un’età in cui iniziare o smettere. Siamo tutti in qualche modo vittime dell’ibernazione sociale, quella che ci fa sentire in grado di fare tutto anche se, davvero, non c’è più niente da fare.