il turismo musicale, a partire dall’Isola di Wight

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L’unico vantaggio è che un viaggio a Seattle è impegnativo, soprattutto economicamente, e se consideri che ci vai per un avvenimento di cui si celebra il ventennale in questi giorni devi proprio avere dei soldi da buttare via. Voglio dire, una vacanza negli Stati Uniti resta comunque un’esperienza fuori dal comune, ma come fai ad andare da mamma e papà a chiedergli i soldi – e quanti soldi – per vedere l’urna cineraria di Kurt Cobain, ammesso che sia a Seattle, ammesso che sia visibile in qualche luogo pubblico, ammesso che sia stato cremato, ammesso che sia di culto come la tomba di Jim Morrison al Pére-Lachaise.

Vi chiederete perché consideri un vantaggio tutto ciò. Questo tipo di turismo che non saprei come altro definirlo se non rock o giovanilistico è una cosa un po’ così, un retaggio che ci portiamo dietro da decenni. A partire da Londra che è stata meta di diverse generazioni, ma lì il problema è Londra in sé che se non è il centro del mondo ci si avvicina abbastanza. Ci sono andati e ci si sono trasferiti beat, mod, hippy, capelloni, punk, new wave e gotici, neo-psichedelici e technofili fino all’arrivo dei russi che con la musica non hanno nulla da spartire ma hanno fatto piazza pulita con i loro milioni di miliardi.

Poi Amsterdam, città di cui la musica è appunto un di cui ma ditemi voi chi non c’è mai andato per divertirsi un po’, come quel mio amico che ha scelto proprio la città olandese come destinazione del suo primo volo in aereo e per affrontare al meglio il battesimo dell’aria si è calato non so quale acido prima dell’imbarco. In Svizzera ci andavano invece quelli che con le pasticche tiravano fino all’alba del giorno successivo al giorno dopo dell’inizio del rave party, chissà se è ancora così. Berlino aveva il fascino del sentirsi divisi da un muro, crollato il quale è subentrato il fascino del sentirsi divisi dal resto del mondo, tanto è avanti. E così via.

Ma in questo calderone delle peregrinazioni musicali tuttavia non mancavano i rischi, c’erano culture che comunque non amavano l’essere considerate fenomeni da baraccone, e come dargli torto. I meno fortunati da questo punto di vista erano i Rasta di casa nostra, che rispetto ai giamaicani avevano alcune caratteristiche ampiamente dicotomiche. Poi sapete com’è, in certi contesti di indigenza ci mancano solo quelli che spendono per sentirsi vicini alla miseria, che è un controsenso. Aggiungici poi il colore della pelle palesemente diverso, magari come sfondo di capigliature artificiosamente somiglianti a quelle originali, e l’equivoco tra blasfemia e partecipazione sentita ai valori comuni è facile da manifestarsi. Un gruppo di amici che conosco ha rischiato di brutto in qualche periferia di Kingston, è bastato un gesto poco consono a un rito locale compiuto in totale ingenuità a scatenare una sommossa popolare nei loro confronti, e se la sono cavata solo per le condizioni fisiche che gli hanno permesso di scappare più veloci degli inseguitori, che meno male che non erano della stessa tempra di Bolt.

Ma il culto dei disagi altrui che molti fraintendono per liberazione da qualcosa di occidentale che invece i non occidentali pagherebbero per avere, se avessero abbastanza soldi per farlo, non sempre è inteso come solidarietà. Questo anche nella civile Europa, e se volete le prove vi metto in contatto con uno che, nell’underground londinese, si è preso una testata e un fuck off fucking italian o qualcosa del genere da un tizio con la maglietta dei Crass perché all’anarchia, in fondo, noi di queste parti non siamo tanto avvezzi.

[attenzione spoiler] alla fine il cantante muore

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C’è quella scena in cui Jim Morrison, interpretato da Val Kilmer, attraversa un muro di fans che gli lanciano tutte le droghe possibili e lui se le cala o le accende tutte, innaffiando quella merenda itinerante con bourbon o superalcolico equipollente, e sì che era giovane e forte ma riesce male immaginare un essere umano così alterato in grado di sopravvivere il mattino dopo. Ma forse è lì che Oliver Stone ha cercato di condensare la vera essenza di una rockstar entrata nel mito, uno che apre tutte le porte della percezione contemporaneamente senza preoccuparsi della corrente e degli acciacchi che ne possono derivare.

E c’è anche quella scena che racconta il processo creativo del loro successo con la esse maiuscola, come on baby light my fire. Ci sono i Doors al completo in sala prove che provano il pezzo, poi Ray dietro le tastiere sembra un po’ perplesso e fa uscire tutti. Ragazzi andate fuori a impasticcarvi per bene, lasciatemi solo che devo trovare una introduzione di Hammond all’altezza. Due scale, due accordi e miracolosamente il riff è pronto. Okay ragazzi, tornate pure dentro, one two three four e qualche metro di pellicola dopo il pezzo è quello che conosciamo noi. Allora ditelo subito che è lo spettatore che dev’essere più aperto e pronto a recitare egli stesso una finzione, quella di colmare con la propria fantasia tutte le ingenuità narrative, scorporare l’opera a cui sta assistendo da tutti gli accessori interpretativi lasciati lì come trappole nella sceneggiatura, oppure se sei davvero un fan dei Doors ti fai una canna prima e ti vedi il film e a quel punto allora vale tutto, si giunge al nocciolo della biografia che consiste in una vicenda che si sa già come va a finire e alla celebrazione di chi ha fatto la (tua) storia. Forse allora non ha nemmeno senso farci un film sopra, se non per ascoltare un po’ di buona musica sempre che i Doors ti piacciano, o come me li trovi gradevoli ma piuttosto sopravvalutati e offuscati dalla celebrità del loro front man.

Ecco, se c’è un genere di film a cui sono allergico è il biografico di gruppi musicali. Ed è naturale che i soggetti selezionati per la trasposizione sono quelli di maggiore valore artistico, possibilmente maledetti e che hanno fatto una fine più o meno tragica entrando nel mito. E per dimostrarvi che non faccio figli e figliastri, posso dire la stessa cosa di Control, il film sui Joy Division e sulla controversa personalità di Ian Curtis. Finale analogamente tragico al compimento di una trama ricca di cliché su chi sceglie di calcare il palcoscenico e farne il proprio lavoro. Qui le droghe sono più difficili da racimolare, nessuno te le tira addosso o sul palco ma occorre andare a trovare le vecchine con qualche scusa e frugare tra i loro medicinali. D’altronde se vuoi caratterizzare un isterico inventato, faccio un esempio, ci sono ennemila modi per guidare la recitazione dell’attore che hai scelto. Il cantante depresso e fattone invece è così è basta, devi rimanere fedele alla realtà perché hai gli occhi della stampa specializzata puntati contro. Pure il tema della groupie che se lo vuole fare è analogo, come la nascita stessa della hit: artista in posa da riflessione con bloc notes e lapis in mano, ed è un attimo ad essere già in studio di registrazione a sperimentare lo spray per il charleston di “She’s lost control”. Per finire con i titoli di coda con la canzone che ti aspetti essere utilizzata per i titoli di coda, che nel caso di Control è “Atmosphere”. Ecco, io avrei scelto “The eternal”, non lo trovate più adatto?