as we know it

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Abbiamo superato indenni un altro appuntamento con la fine del mondo, e per ora la nuova deadline rimane ancora quella più celebre, schedulata tra poco più di un anno. E niente, la scena che mi immaginavo, per il day after dell’ultima previsione, è di me sopravvissuto con il portatile sottobraccio che giro tra le macerie alla ricerca di un hotspot ancora attivo e una presa elettrica perché nel frattempo il pc si è scaricato, per mettermi in contatto online i sopravvissuti sul pianeta, e magari per scriverci su un bel post. Ma ci saranno elettricità e connettività dopo la tragedia? Diamoci appuntamento, organizziamo un flash mob, rifondiamo il duepuntozero.

sic transit gloria mundi

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Non è la prima volta in cui Berlusconi porta sfiga.

la descrizione di un attimo

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Sono certo che passare alla storia per una foto così (peraltro con il logo del nemico sullo sfondo) non sia un modo efficace per entrare nel mondo del lavoro e della dignità collaterale che questo passo comporta. L’attimo in cui lanci un estintore, e per tua fortuna non c’è nessuno a spararti ma hai un obiettivo altrettanto feroce con fotografo annesso di fronte, rimarrà sempre così impresso nella memoria collettiva. Ha già occupato milioni di pagine stampate, rimarrà conservato in gigabyte di spazi virtuali, per sempre. Sarà il ritratto personale che accompagnerà il curriculum da presentare a un colloquio, se mai l’interessato avrà bisogno di trovare un’occupazione anche precaria.

era meglio Claudio

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Primo: il naming è una delle componenti più difficili del marketing, una scelta che può decidere il successo che avrà un prodotto sul pubblico. Su questo siamo d’accordo tutti. In secondo luogo, l’uso che facciamo della nostra lingua e delle parole in inglese che utilizziamo correntemente al posto dei corrispettivi in italiano – esempi ce ne sono a iosa, io stesso prima avrei potuto scrivere “trovare il nome per un prodotto” anziché naming – talvolta è bizzarro. Usiamo “trendy” al posto di “di tendenza”, è la prima cosa che mi viene in mente, e poi traduciamo l’onnipresente “cloud” con “la nuvola”, e so benissimo che si tratta di una traduzione letterale, il concetto è quello, ma renderlo in italiano è un po’ fuori luogo. Perché sappiamo tutti di cosa si tratta, è una componente dell’architettura di rete a tutti gli effetti anche se indefinita e astratta, e visto che switching e routing rimangono tali, persino “access point” non rende come “punto di accesso”, anche cloud dovrebbe essere mantenuto in inglese. C’è poi un terzo aspetto che deriva dal secondo. Se mi parli di “Nuvola italiana“, l’offerta di cloud computing di Telecom Italia, anzi, l’unico cloud con la rete dentro, a me chissà perché viene in mente la nuvola dell’impiegato, la formazione metereologica che seguiva il ragionier Fantozzi in ogni suo spostamento nei giorni feriali e non. Una nube minacciosa, guastafeste ma soprattutto intelligente, capace di infierire sui lavoratori dipendenti ben oltre le angherie contrattuali (di un tempo). Ora, non credo che il servizio del nostro operatore nazionale sia altrettanto menagramo, imprese, organizzazioni e liberi professionisti hanno già abbastanza guai con il momento storico. Tuttavia uno sforzo creativo maggiore per trovare un nome più appealing (ecco che ci sono ancora cascato) poteva essere fatto. Ma in generale e soprattutto in un contesto business, la nube non è proprio una metafora felice. Meglio comunque lasciare cloud in inglese affiancato a qualcosa che dia l’idea di “riportare il sereno per la tua impresa”.

più incisivi per la questione molare

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Che combinazione. Sono venuto a conoscenza, a distanza di pochi giorni, di due campagne che cercano di rivendicare il primato del corporativismo medico-dentistico nostrano su quello dei mercati emergenti, con l’obiettivo di porre freno al fenomeno del turismo ospedaliero e alle nuove frontiere delle cure last minute. Mi riferisco a un dibattito sul blog di Giovanna Cosenza e a una pubblicità di una catena di studi locale che ho visto per strada. L’odontoiatria nazionale fa quadrato e cerca di contenere l’emorragia di clienti che, allo stesso costo di una cura completa qui, possono godere in aggiunta al trattamento richiesto una vacanza per l’accompagnatore e la possibilità di visitare capitali altrimenti fuori dalle tratte turistiche tradizionali. I profitti generati dalle nostre carie sono sempre stati ingenti, il trasferimento di liquidi che ne consegue è diventato proverbiale, tanto che un dentista in famiglia è una delle fortune più anelate. Stiamo parlando infatti di una branca della medicina spesso borderline con la chirurgia estetica, e se è vero che in media le visite dal dentista sono piuttosto distanziate tra loro è altrettanto dimostrato che il loro costo è inspiegabilmente elevato rispetto al valore di altri beni di lusso. Insomma, ci si dà da fare per trattenere i nostri mal di denti in patria, come se la professionalità fosse solo un aspetto legato al Paese di nascita anziché al titolo conseguito e alla pratica esercitata. E se il mercato è così per tutti, chiudersi a riccio non serve a nulla se non a perdere smalto.

nuggets e acqua naturale

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Chissà se i giovani rampolli dell’establishment anarco-insurrezionalista crescono terrorizzati dall’incubo McDonald’s come i nostri figli, così quando arriva un invito alla festa di compleanno di un compagno di classe vanno nel panico. “Mia mamma non mi porta mai al McDonald’s”, dice uno, “mi ha detto che si mangia troppo salato”. “I miei genitori mi hanno fatto vedere un film in cui un signore a furia di mangiare hamburger diventava grassissimo e rischiava di morire”. Allora è bene spiegargli che non è gentile rifiutare l’invito di un bambino con cui dovrai trascorrere ancora tre anni di elementari, adducendo come scusa “mi dispiace, non posso venire perché papà e mamma sono black bloc e anche un po’ no global”. Ma i primi a convincersene sono i genitori, che a vicenda si promettono di trattenersi dallo spaccare le vetrine accompagnando i propri piccoli. Così si cerca in qualche modo di equilibrare il messaggio per la famiglia del festeggiato con un regalo equo e solidale, un cencio ricamato per la causa del fair trade da bimbi nepalesi, che una volta sfasciato (nel senso di estratto dalla carta regalo) sarà riposto nel mucchio tra Barbie e altre icone del capitalismo su un altare nel tempio del food entertainment.  Ma no, spiegano i padri e le madri indignati, non succede nulla a mangiare qualche volta lì, non c’è un virus ogm che ti si infila dentro e ti fa venire voglia di consumare tutti i soldi che hai nel cibo del peccato. Qualche volta si può fare, basta aver sempre presente sempre di cosa si tratta. E dopo un’ora e mezza di giochi sotto la direzione creativa dell’animatrice a progetto di turno, i rampolli tornano nel c.s.o.a., in mano un regalino di rimando con il brand in bella vista che il festeggiato e il suo sponsor hanno donato in segno di ringraziamento a ogni invitato. L’ultimo trofeo che ricordo è una specie di radioregistratore di quelli di una volta in miniaturissima, un blocchetto di plasticaccia blu che gli infili dentro una schedina con la foto di un belloccio ingellato da total request live che fa partire, con un audio pessimo, pochi secondi di r’n’b per adolescenti, tipo quel Justin Bebier o come diavolo si chiama. Una vera maledizione ma che, purtroppo, non si riesce a far sparire dalla cameretta.

E chissà quale sarà il gadget di oggi,  penso mentre parcheggio, anche i posti auto sono marchiati. “Papà, ho paura di stare male dopo che  ho mangiato i nuggets”, mi dice mia figlia. “E se poi divento come quello di Supersize me”? Entriamo, cerco di non vedere le facce delle persone sedute e spero che non guardino noi. In fretta ci addentriamo nella stanzetta riservata, i saluti di rito, e subito l’addetta al divertimento iscrive mia figlia al programma della giornata. Il primo gioco è già iniziato, vedo due squadre con delle palline rosse in mano, una contro l’altra divise da una riga di sedie. “Ci vediamo dopo”, le dico, ma nemmeno mi sente, tocca già a lei lanciare la pallina.

ordine e fattori

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Leggo del Tenco assegnato a Ligabue e penso che poteva andare peggio, con il Ligabue assegnato a Tenco.

le cose possono cambiare

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Il giorno in cui Gheddafi fece recapitare ben due missili Scud su Lampedusa io me lo ricordo bene, perché è stato l’unico giorno della mia vita in cui sono entrato in una sede locale della Democrazia Cristiana. Ero lì a impersonare il nichilista ribelle e a disprezzare tutto e tutti, anche se i miei interlocutori giovani e democristiani mi stavano offrendo la possibilità di essere invitato come ospite, io e il mio gruppo di allora, a un evento culturale con concerto annesso. Tenete conto che era il 1986, e nella città in cui vivevo, di profonde radici comuniste e socialiste, la DC aveva un peso irrisorio. Tant’è che quando squillò il telefono in sezione e il capo dei giovani democristiani ci mise al corrente dell’accaduto, era il tardo pomeriggio del 15 aprile, mi presi il lusso di figurarmi il volto rubizzo e trafelato di Spadolini come poteva essere in quel momento, lui e tutto il suo pentapartito, roba che oggettivamente oggi ci leccheremmo i baffi. Poco dopo arrivò persino il Senatore, un vecchio amico di mio padre, lo stesso a cui chiesi una raccomandazione quando mi stroncarono la domanda per l’obiezione di coscienza e finii a fare il C.a.r. a mille chilometri da casa, e chissà dove mi avrebbero mandato senza il suo intervento. Sapeva già tutto ma preferì parlare di quel concerto, dell’opportunità che ci avrebbe concesso, fermo restando che la musica di base allora era in mano a quelli dell’Arci. Ma, a proposito della crisi in corso, nessuno si precipitò a verificare i fatti: siamo in guerra con la Libia? E gli Stati Uniti cosa fanno? Il Senatore invece ci comunicò che si era assicurato la presenza per la serata di un noto show man, nostro concittadino, in veste di presentatore. La cosa si faceva interessante. Ma il mio chitarrista, che di politica non ne sapeva nulla tantomeno di affari esteri, tornando a casa mi chiese se c’era pericolo per una guerra, lui era più grande di noi e stava per partire militare in marina. Non lo so, mi ricordo di aver risposto, magari scoppia prima e salta il concerto.

pesce piccolo

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Al rientro dalla mega convention nazionale hanno tutti la faccia un po’ così, con l’espressione un po’ così anche se l’incontro non si è tenuto a Genova ma a Roma, e per una volta, visto il nubifragio, sarebbe stato meglio il contrario. D’altronde non capita tutti i giorni di essere acquisiti da una multinazionale più grande della multinazionale a cui si appartiene, un colosso dello stesso settore che ha già pianificato tutto. A parole si tratta di un primo anno di reciproco rispetto e di studio della vision altrui, le identità mantenute – “la nostra storia è troppo lunga per essere fagocitata e dimenticata dal mercato“, ha scritto a chiare lettere il Country Manager – e addirittura i due logo affiancati, per far sentire tutti ancora un po’ a casa. Poi un secondo anno, sempre a parole, di integrazione definitiva nei processi, negli strumenti e nelle risorse. La domanda che tutti si fanno, potete immaginarlo, riguarda proprio quello. Se le risorse, intese come capitale umano, coincideranno, a chi toccherà cedere il posto?

Oggi, a valle della riunione plenaria fuori sede di ieri, gli uffici qui sono deserti, un po’ anche perché è venerdì. Molti ne hanno approfittato per smaltire il trauma a casa, in ferie, a coccolarsi nella sicurezza del presente domestico in un giorno feriale – non c’è niente di più corroborante – prima di affrontare da lunedì il nuovo corso. Ma qui, tra queste pareti asettiche che hanno visto anni di sfide e, perché no, di successi, ora si rincorrono gli squilli telefonici a vuoto, le catene della risposta con le lucine che si accendono in ordine gerarchico. I bambini sorridenti nei portaritratti sulle scrivanie sembrano dire “papà non importa se resti senza lavoro, sarai sempre il più fico manager della mia vita”. I pochi presenti preferiscono non incrociarsi nei corridoi, non sono certo lavoratori inclini all’unione di classe, per intenderci. Abituati alla competitività e a ricoprire ruoli equivalenti, quel tipo di solidarietà che oramai non si vede più nemmeno negli ambienti lavorativi più poveri qui è considerata fuori luogo perché talvolta è un bene – per l’azienda, chiaro, si dicono tutti – approfittare delle débâcle altrui per mettere a segno colpi decisivi.

Ci si chiede che succederà nei prossimi due anni. Ognuno si ritiene un tassello insostituibile, un pezzo di cultura aziendale di cui la nuova società che andrà a delinearsi non potrà mai fare a meno. Di certo a me la fusione non cambierà nulla, si dicono e si scrivono tutti sul loro finto status da sfoggiare alla macchinetta del caffè. Si tornerà ad aggiornare il curriculum, chi a farlo ex novo visto che, dalla laurea in poi, alcuni hanno sempre lavorato qui. Si prepareranno liste di contatti, diretti o tramite strumenti più moderni, anche se qui Internet e le reti sociali non è che si mastichino molto, l’ambiente è giovane ma allo stesso modo un po’ superato. Persone da contattare con più o meno imbarazzo, sai qui le cose stanno cambiando e mi chiedevo se lì da voi ci fosse qualche possibilità. Non importa se a trenta, quaranta o cinquant’anni. Da lunedì ci si rimette sul mercato, o almeno quel poco che ne resta.

mute math: odd soul

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È uscito il nuovo album dei Mute Math, band che avevo scoperto all’epoca della pubblicazione del loro primo album omonimo per caso, in macchina con un amico. In una compilation casalinga ascoltai Noticed, che è il pezzo seguente:

e che mi riaccese la voglia di Police, in un periodo musicale ampiamente caratterizzato da cloni di tutti i miei gruppi preferiti dell’adolescenza. Poi mi procurai quel disco, scoprendo che di Sting, a parte il timbro della voce in alcuni passaggi, c’era ben poco, rivelandomi però una band divertente, a tratti pop in eccesso per i miei standard, ma tutto sommato godibile, un mix di rock pop elettronica funky e new wave. Sì, c’è di tutto, oltre a un modo molto familiare di utilizzare i synth e i campionamenti. In più elessi immediatamente Darren King a batterista dei miei sogni. Ed ecco il loro terzo album Odd Soul (il secondo non è stato granché ma confesso di avervi dedicato pochissima attenzione), qui sotto il video del primo singolo: