scrivere con la sicura

Standard

La cosiddetta comunicazione in differita ha da sempre un’aura di romanticismo e non a caso è utilizzata abbondantemente da chi si caga sotto a dire le cose in tempo reale ai diretti interessati. Si tratta di un fenomeno vecchio tanto quanto le incisioni rupestri e consiste appunto nella mediazione delle cose da dire grazie a un canale di trasmissione che le raccoglie e le rende più o meno durevoli nel tempo. Una grotta, una tavoletta incisa con uno stilo, una pergamena, una stampa a caratteri mobili, una missiva, un affresco, due fogli in una macchina da scrivere con la carta carbone in mezzo, una stampante ad aghi, una stampante digitale, un SMS, un blog e Snapchat, tanto per condensare in un paio di righe migliaia di anni di struggimenti dell’homo sapiens ma păvĭdus. Proviamo a vederla quindi dal punto di vista opposto: quanto si è evoluta la civiltà proprio grazie agli uomini che si sono ingegnati a trovare modi per far sapere agli altri le cose mentre non ci sono, in modo da evitare possibili brutte figure, rifiuti, delusioni oppure in generale levarsi dall’imbarazzo?

Non c’è nulla di male a comportarsi così, anzi alcuni la definiscono persino arte. Il problema sorge quando si utilizzano i suddetti canali di comunicazione in differita in non lucidissime condizioni, per esempio fortemente stressati o fiaccati dalla disperazione oppure fuori di sé dalla rabbia o anche solo semplicemente nell’euforia dell’alcol, perché la parola (o la sua rappresentazione visiva) lasciata nero su bianco all’interpretazione del destinatario (c’è un celebre motto suppongo millenario che evidenzia proprio il gap in termini di gravità tra la leggerezza della parola pronunciata e l’irrimediabile pesantezza di quella scritta e delle conseguenze che causa il fatto che resti), dicevo che la parola lasciata nero su bianco all’interpretazione del destinatario ne raddoppia se non triplica la forza, per questo dev’essere ben ponderata a priori e non abbandonata alla mercé del destinatario senza prima una valutazione sulle sue conseguenze.

Per questo motivo bisognerebbe che esistessero dei modi per impedire ai suddetti canali di comunicazione in differita di funzionare quando la persona che si accinge ad usarli può potenzialmente causare danni. Una sorta di sicura che fa sì che telefoni, computer, ma anche penne o spray per scritte sui muri non si attivassero per esempio percependo al contatto con le dita della persona il suo stato confusionale o anche valori come la percentuale di birra nelle vene, come un banale palloncino delle forze dell’ordine un sabato sera qualunque. Come la protezione che hanno certi flaconi grazie alla quale possiamo tenere alla larga i nostri figli da veleni, medicinali e detersivi. Per dire, io e il mio amico Marco abbiamo trascorso insieme alcuni ultimi dell’anno durante i quali ci siamo imposti di mandare i tradizionali auguri via messaggio molte ore prima della mezzanotte, in modo da evitare l’invio di corbellerie o parole compromettenti nei momenti meno adatti a questo genere di cose, sapete come vanno certe celebrazioni in cui alla fine si beve senza ritegno. Ecco: come non ci si dovrebbe mettere alla guida dopo un tot di bicchieri, allo stesso modo è sconsigliato scrivere cose quando non si è in grado di ragionare, punto e basta. E anche post come questo, vedete, uno dovrebbe scriverli solo se perfettamente lucido.

la vita al netto dei filtri di Instagram

Standard

Dice di noi più una foto che millemila parole, sostengono i luoghi comuni, ma lasciatevi servire che un po’ me ne intendo che mica è vero. Se siamo disabituati a leggerci e a descriverci ciò non toglie che non facciamo più caso alle righe e alle parole nascoste tra di esse, che sovente sono anche più esplicite. Il guaio è che nelle conversazioni e nei soliloqui è difficile applicare gli effetti speciali che ne esaltano il significato, bisogna impegnarsi un po’ di più, metterci la testa, capire, e ci sta pure un sano fraintendimento perché il confrontarsi con la voce o con la penna (per modo di dire) è così. Ti capita una frase di senso compiuto e la tua attenzione coglie a fondo solo quello che vorresti ci fosse scritto, magari il sostantivo protagonista dei tuoi sogni in quel tuo momento storico e da lì non ti smuovi. Poi ti chiamano per tutti i chiarimenti e tu cadi dal pero. Avete presente, vero, quelli che ti scrivono una e-mail e poi ti telefonano per dirti che ti hanno mandato una e-mail e te ne raccontano per filo e per segno il contenuto? Si tratta di un caso di cross-media pure questo o è un banale esempio di mancato controllo delle proprie ansie? Ma è valido anche il processo inverso: mandi una e-mail a qualcuno anticipando che a breve lo chiamerai, e lasciatemi dire che così ha più senso, io lo faccio sempre perché la posta elettronica è meno invasiva e uno può leggersela anche se è a casa in mutande, non fa nessun tipo di squillo quindi non si corre il rischio di svegliare il destinatario, è impossibile disturbare la gente quando è a tavola. Le foto invece parlano chiaro e anche troppo, nei frequenti casi di sovraesposizione artistica per gli effetti vintage che vanno tanto di moda. Ma nessun filtro anni 70 è così potente da ricostruire ambienti che c’erano allora e che oggi hanno lasciato il posto a qualcosa di sicuramente più utile ma molto meno gradevole. Vedete questo enorme megastore bianco di articoli da ufficio in fondo a questa piccola strada a ridosso della ferrovia? Lì c’era un cinema, uno dei tanti che hanno ceduto il passo alla modernità e al business, che ancora prima era un teatro parrocchiale. In quella sala, che faceva per lo più spettacoli pomeridiani per ragazzi e bambini, ho visto pochissimi film, e a dir la verità ne ricordo solo due: No nukes, il film-concerto del 1980, e una pellicola dedicata ai Kiss di cui non ricordo il titolo e a dir la verità nemmeno la trama. C’era Sara seduta al mio fianco che sembrava aver fatto il bagno in uno dei profumi più di moda di allora e a me, a parte quello, non mi importava di nient’altro.

in quale direzione creativa

Standard

Quello che fa la differenza nel mio ambiente di lavoro è la capacità di convincere. C’è tutta una gerarchia di professioni che parte da chi sa influenzare meglio fino a chi non è tenuto a farlo. All’ultimo livello, il ground zero, c’è infatti la produzione, che deve mettere insieme le idee di chi ha persuaso quello sotto nella catena. Perché se riesci a convincere il team con cui operi gli altri fanno quello che dici tu, si diffonde la voce che sei bravo e sai fare il tuo lavoro. Non basta avere il guizzo, bisogna fare capire agli altri che quella è la strada. Quella è la verità. Quello è il verbo. Poi ci sono i fuoriclasse, chi ha la pensata e la manda così, via e-mail, senza faccine e spiegazioni a corredo. Chissà, forse vivono di gloria e rendita perché in passato hanno vinto il campionato mondiale di persuasione. Fatto sta che ora non si preoccupano minimamente di essere messi in discussione. L’ascetismo è invece uno stadio evolutivo ancora più estremo, è l’arte del partorire arte, la sublimazione della creatività in ufficio, quella che scaturisce indipendentemente dalla richiesta di prestazione e di feedback. Un asceta è un virtuoso che ha l’illuminazione e la scrive generalmente sul suo Social Network preferito, solo per essere contemplato. Ci sono infine quelli la cui capacità di essere convincenti costituisce una componente dello stipendio percepito. La degenerazione dell’arte del convincimento altrui è la provvigione, il risultato di una formula alchemica altrove definita vendita. Ma il commerciale, che prima del possibile acquirente deve aver persuaso se stesso, fugge da ogni logica in quanto agisce orizzontalmente, verso l’esterno dell’azienda. Quando per deformazione professionale si prodiga anche verticalmente si crea un corto circuito, il diagramma di flusso necessita di uno spin off non programmato e c’è il rischio di tilt. Non ci si fida più. Ci si chiede se la propria attività è utile, fa del bene anche oltre il mercato, o è solo pubblicità, è solo anima del commercio condannata all’inferno. Si persuade con le parole giuste, con uno sguardo, con i gesti, parlando nel vuoto, dimostrando se stessi con l’ausilio di Power Point. Va bene, mi hai convinto, dicono alla fine. O non si dice nulla se non un bravo, bell’idea. Ci aggiorniamo dài, al telefono. O, via mail, ti faccio sapere appena ho news.

linked out

Standard

Resto del mondo

Italia

è un periodo difficile? fai un break

Standard

Il duro e palloso lavoro di editing che devo ultimare entro domani sera mi sta prosciugando. Devo risistemare un testo 3/4 tecnico e 1/4 marketing, che potrebbe tranquillamente rimanere così, nella sua incomprensibilità. Perché, in ogni caso, il cliente vuole che i concetti da comunicare siano quelli. Ma si tratta di concetti che nessuno comprenderà anche perché le brochure aziendali sono da evitare come la peste, e il testo che sto faticosamente modificando non lo leggerà nessuno. Che senso ha una brochure aziendale, nel 2011. Bisogna però pur guadagnarsi da vivere, e c’è di peggio, per carità. Ma vi assicuro che in certi momenti mi verrebbe da convincere i miei clienti che stanno spendendo male il loro budget, investendolo su di me. Un esempio? Provate a rendere diversamente la seguente porzione di testo:

In ambito Finanza Xxxxxxx affianca i propri clienti nella rapida evoluzione del business attraverso l’ottimizzazione dell’operatività delle sale di contrattazione, con servizi e soluzioni sia software che hardware. Elementi di eccellenza dell’offerta Xxxxxxx sono rappresentati dai due centri di competenza Yyyyyy, dislocati a Aaaaaa e Bbbbb, e dal centro di competenza Zzzzzzz. In particolare, per ciò che riguarda Yyyyyy Xxxxxxx fornisce servizi di system design, configuration, integration, upgrade e application management 24/7 sulle piattaforme Qqqqqqq  e Ww.3. Inoltre, in qualità di business partner certificato Yyyyyy, oggi Xxxxxxx è tra le poche realtà in grado di aiutare i clienti nei delicati processi di ottimizzazione e di migrazione verso le nuove release delle piattaforme in essere.

Il cliente paga e io eseguo. Chiudo gli occhi, mescolo le parole come lettere in un sacchetto dello scarabeo. Ed ecco come è diventato:

Xxxxxxx mette a disposizione delle organizzazioni servizi e soluzioni sia software che hardware dedicati all’ottimizzazione dell’operatività nelle sale di contrattazione, a supporto di un settore in continua evoluzione. Attraverso i due centri di competenza Yyyyyy di Aaaaa e Bbbbb, Xxxxxxx fornisce servizi di system design, configuration, integration, upgrade e application management 24/7 sulle piattaforme Qqqqqqq  e Ww.3.
Non solo. In quanto business partner certificato Yyyyyy, Xxxxxxx è una delle poche realtà in grado di recare assistenza alle aziende nei processi di ottimizzazione e di migrazione alle nuove release della piattaforma.
Il centro di competenza Zzzzzzz consente inoltre a Xxxxxxx di sviluppare soluzioni per la razionalizzazione delle postazioni di lavoro nelle sale di contrattazione, garantendo una riduzione del TCO.

Spero abbiate notato la vera perla di tutto questo, ovvero il “non solo” messo a metà periodo, il mio asso nella manica, la mia firma, come i programmatori che mettono codice personalizzato tra le righe degli script per far uscire parolacce con contorte combinazioni di tasti, o i designer 3D che in un paio di pixel nascosti in uno scenario digitalizzano la loro foto, o i cartoonist che inseriscono immagini subliminali di donne nude nei film Disney. “Non solo” risalta orgogliosamente in quasi tutte le brochure aziendali che ho scritto nella mia vita, alternato all’altrettanto efficace “ma non è tutto”, di tono più giornalistico. Hai letto un “non solo” in qualche testo corporate? Non c’è dubbio. Sicuramente è mio. Provaci anche tu. “Non solo” dà grandi soddisfazioni, vedrai. Sei nel mezzo di un periodo difficile? Concediti un break, metti un “non solo”. E ancora meglio se poi vai a capo, lasciando magari una riga vuota.

un moderno post-weekend

Standard

Se c’è un episodio che mi piacerebbe vedere reso su pellicola, o per essere più realistici su youtube, anche perché nel primo caso sarebbe difficile trovare attori credibili per renderlo credibile a sua volta, è un qualsiasi viaggio di ritorno a Milano di T. e dei suoi fedelissimi compagni di abitacolo, nonché colleghi, B. e A. A bordo della Punto del babbo di B. fanno tutta una tirata da Questo Posto (così chiamerò, per motivi di rispetto della privacy, la cittadina ligure da cui provengono i tre giovani) a Quest’altro Posto (così chiamerò, per motivi di rispetto della privacy, la cittadina alla periferia est di Milano dove condividono un miniappartamento. Spero abbiate colto la citazione, sebbene annacquata tra gli incisi nelle parentesi tonde. Vi darò un indizio: continua con “non è la stessa cosa, gli americani ci fregano con la lingua, non è la stessa cosa. Un, du, tri, quater…” a cui segue una canzone blues). Ma torniamo al viaggio, 200 chilometri di autostrada tra Liguria, Piemonte e Lombardia nella formula pendolarismo quindicinale e non di più, per non gravare sul bilancio di questo nucleo familiare anomalo e mettere in difficoltà tre amici (due maschi, T. e B. e una femmina, A.) che come me e come mettetevoilacifra altri ex-giovani liguri si sono trasferiti qui. Il forte legame con le radici che non si spezza, nemmeno a colpi di Navigli. Parlo per loro, of course. Non tornerei indietro nemmeno sotto tortura.

Ecco: più che un film potrebbe essere un format televisivo, se già non esistesse. T. è un ex-promettente cantante, promettente sempre nell’ambito dei gruppi sconosciuti dell’underground locale, dove la promessa non è mai mantenuta, se non da qualche add in più su myspace, oggi (anzi, fino a qualche mese fa, visto l’inarrestabile caduta del principale concorrente di FB), e da qualche distratto applauso nelle birrerie di periferia, ai tempi. T. però si è mantenuto interlocutore fantastico, nel senso che lui parla mentre A. e B. per lo più ascoltano, poi mi riferiscono e io prendo appunti. Poche domande, qualche espediente da programmazione neurolinguistica da tanto-al-tocc per dirottare la conversazione su temi che sanno stare a cuore di T., e una valanga di spunti che consentirebbero a chiunque di approfondire i più appassionanti argomenti antropologici in monologhi pour parler come questo.

T. è un maestro di storytelling. Sa quali tasti schiacciare, quale corde pizzicare. Ed è “solo” un vocalist, pensate se suonasse uno strumento polifonico. L’azienda in cui nostri tre frequent driver lavorano – T. come montatore video, A. e B. come… boh.. grafici? Web designer? – risente di una pessima gestione, così mi dicono. Ma, si sa, chi lavora talvolta coglie solo marginalmente le strategie aziendali del management. “Non dire str*****e, chiunque coglierebbe la limitatezza di C.” C. è l’amministratore unico che, in una azienda di marketing, si occupa anche di filtrare tutto ciò che deve uscire verso i clienti adattandolo a sua immagine e somiglianza. Il che ha senso. Voglio dire, l’azienda è tua, puoi farci quel che vuoi. “Sì, ma hai idea di quanto tempo perdiamo? E perché diamine mi hai assunto se non ti fidi di me e pensi che delegandomi responsabilità creative il prodotto non sia sufficientemente in linea con l’azienda“. Vabbè, non voglio approfondire temi e dinamiche già trattate altrove, soprattutto giudicare aziende altrui. Ma non è solo questo che li mette fortemente a disagio.

Sono le persone a dare un tono inappropriato all’ambiente. T. mi fa l’esempio di S., lavora nella selezione e gestione del personale. “Ho superato un test per entrare qui. Lì ho conosciuto S.,  proprio con lei ho fatto il primo colloquio“. T. mi racconta che S. si sposta sfrecciando in monopattino lungo il corridoio su cui si affacciano le varie cellette. “Non la biasimo, il lato lungo dell’ufficio è almeno 500 metri“. Non si tratta di un’esagerazione, nella Lambrate che sta crescendo sormontata dalle gru. Siamo in piena archeologia industriale, stabili nuovi che si alternano a spazi ristrutturati in ex stabilimenti di chissà che cosa. Uffici ricavati dalla polverizzazione degli open space in minuscole celle operative occupate da 4 massimo 5 postazioni di lavoro.

Dicevo del test.
Q. Elenca le 5 cose che sai fare meglio.
A. Mi sono sincerato della effettiva atmosfera da web 2.0 e mi sono lasciato andare:
#scrivere
#comporre e arrangiare musica
#avere pazienza
#ascoltare
#superare i test come questo.
Q. Con quale nome ti vorresti chiamare se non ti chiamassi con il tuo vero nome?
A. S. ,che ho scritto per accattivarmi le simpatie della selezionatrice.
Q. In 10 righe insegnami ad allacciare le scarpe, non una riga di più“.
A quel punto T. prende l’iphone e mi fa vedere una foto. Un foglio con la seguente lista:
Faccio notare a T. che mi sembra un modo originale di affrontare i test. Soprattutto visto che è stato assunto, anche se con contratto a progetto. “Dopo qualche settimana mi hanno chiamato e sono salito a quota 6 aziende in 10 anni. Ancora una volta con un co.co., un contratto comico“. Ancora una volta accontentarsi. “Fortuna che il posto è davvero trendy. Entri e c’è la reception. Poi un muro fatto di cubi di cartone, la rappresentazione delle success story aziendali“. Penso che non c’è altro modo per materializzare i prodotti virtuali se non mettendoli in scatole che, pur vuote, solo così diventano tangibili e riconoscibili in un packaging con tanto di etichetta. Stavo per scrivere brandizzate ma mi sono fermato in tempo. Ops. “Lì di fronte c’è uno schermo LCD, che trasmette una successione di quote a sintetizzare la vision aziendale. Cheppalle, ho pensato appena l’ho visto, alla fine ci cascano tutti, anche i meno convenzionali. E giù pillole di Martin Luther King alternate a Goethe e Groucho Marx, Gandhi a Thomas Millian, Kennedy a Naomi Klein, Terzani al Cluetrain Manifesto“. Anche qui, mi viene da pensare. il cluetrain già arrivato in ritardo è bello che perso.

T. non lesina nei particolari sull’organizzazione degli spazi. “Entri nell’open space frazionato in cellette, ognuna costituisce una Practice. C’è la Practice Visual, la Practice R&D, la Practice ADV, la Practice ADM, la Practice PM, la Practice VM. Ecco, lì nella Practice vuemm, Video&Multimedia, ci sono io. Taglio e monto riprese, alternandole a grafica 2D e 3D“.  T. si isola ascoltando musica, quando non è necessario indossare le cuffie per l’audio del montaggio. “Alla fine di ogni pezzo è come se mi svegliassi e penso: di nuovo all’inferno“. Il guaio di essere, come T., molto nuvoloso tendente al peggioramento, dentro.

Usiamo la chat, per comunicare tra colleghi. Magari distanti qualche minuto di monopattino. Messaggistica istantanea, non mi avrai mai. Quando uno ti scrive ‘che cosa??’, ‘che cosa volevi che ti dicessi??’, e altre domande che passano alla storia per il doppio punto interrogativo, fa domande incalzanti? Anzi, incalzanti?? Per non parlare allora dell’alzare la voce con l’uso delle MAIUSCOLE, reale o frainteso perché magari hai lasciato premuto un tasto di troppo“. Ecco, inevitabilmente T. svela a B. e A., a fine giornata, cosa lo spinga a chiudersi in playlist a tinte scure e uscire dall’ufficio per tornare a casa. “Sfido chiunque a riconoscermi. Non è tanto la nebbia, è perdersi, anzi perdermi, in una città che non è più la mia, mentre fuori di qui, cioè di me, tutto precipita. Occhi chiusi, orecchie coperte da cuffie, passi a caso“. In auto, coperti dal rumore del motore, si cerca di sdrammatizzare, allora. “Via da questo trailer tra l’hollywoodiano e Moccia. Torniamo a un sano minimalismo, please“. Troppo tardi. Il film va avanti.

Tra di loro hanno passato giornate intere in chat, ed è come se lsi ritrovassero sempre dentro ai loro mac, a riascoltarsi e a rileggersi, per poi riparlarne durante i viaggi. “Tra noi basta una sola parola, al massimo due, che descrivono tutto il resto. E allora occorre comprendere l’intenzione, il significante, il significato, il tempo impiegato da ogni verbo per giungere a destinazione. A quel punto i giochi sono fatti“. Stare soli in tre è meglio che stare soli punto. “Parlare, in auto, è un’oasi di ristoro e leggersi, in chat, leggere qualsiasi cosa, è scoprire altre forme di vita su un pianeta sconosciuto. Ma i pericoli, in giornate come questa, ritornano. Minacciosi no, solo un po’ cattivelli. Pronti a far rovesciare la birra sui pantaloni altrui. O a farci inciampare sulle scale della Feltrinelli“.

Tutto questo perché A. presto cambierà lavoro, una deflagrazione nelle loro dinamiche. “Che dire? Così, tra suoni ovattati e pavè nell’ora di punta, la malinconica beatitudine di una Menabrea è un sottoinsieme dell’averla vista uscire alla fine del primo tempo della nostra vita. Spero che la sua soddisfazione assuma le sembianze di un accordo. Minore, naturalmente“.

il lavoro rende liberi di aspettare

Standard

Sotto l’ufficio di S., al piano terra, c’è una di quelle agenzie duepuntozero molto gheddaun e hipster, peraltro in attività da una decina d’anni, questo a prova che l’essere gheddaun e hipster nel mondo della creatività e della comunicazione digitale è comunque un sistema di sopravvivenza. E molto probabilmente non si tratta di gheddaunness e hipstership (dio mio, ma come sto scrivendo?) omologate, ma di una vera e propria alternativa al mood alternativo. Sapete, comunque, di cosa S. sta parlando. Open space, distesa di mele con il computer intorno, cataste di Wired in abbonamento all’ingresso e via dicendo. Caratteristiche estetiche che, spesso, nella sostanza distraggono il prospect dall’alto turn over e dai contratti stilati con inchiostro simpatico a gggiovani collaboratori e stagisti, con lauree brevissime in tutto quanto fa comunicazione.

L’organigramma, sono parole di S., è una cascata di geek e indie e indie/geek con qualche rara voce fuori dal coro: il rasta che non fa pausa sigaretta perché fa pausa canna, il nerd programmatore che appena può si sistema in Accenture e via dicendo. In questo scenario, S. mi racconta di una ragazza di cui non conosce il nome – chiamiamola E. – con cui si incrocia ogni mattina nell’androne. E., da qualche mese, è in forza all’agenzia gheddaun e hipster. S. entra infreddolito (siamo in inverno) e chiama l’ascensore, la cui porta si trova a fianco dell’ingresso dell’agenzia gheddaun e hipster. Canticchia, fischietta o, è lui a confessarmelo, a volte borbotta da solo (questo è il risultato di 15 anni di esperienza nel campo dei new media, trecentosessantacinque giorni l’anno a confrontarsi solo e unicamente con intelligenze artificiali. Parlare da soli è una delle più comuni conseguenze: è profondamente ingiusto biasimare i creativi).

Poi avverte la presenza e si gira. Sdraiata sul muretto, sotto la finestrona che dà sul cortile, c’è lei: E. Un concentrato di tutto quello a cui puoi associare il concetto di agenzie geddaun, ovvero (dall’alto verso il basso): taglio a caschetto con ciuffone tendente all’emo, auricolari conficcati nelle orecchie tra lobi ricolmi di anellini i cui cavi portano a i-phone di ordinanza tra pollici in continuo fermento (skippare brani dalla playlist, rispondere a messaggi e commentare commenti degli amici su FB) e che talvolta lascia il posto a un libro, giacca blu scuro con spillette di gruppi inesistenti, foulard, pantalone stretto sulle caviglie e all-star pelose e nere. Età: tra i venti e trenta.

Cosa ci fa la nostra indie-girl alle otto e quarantacinque del mattino, in un portone della city? Aspetta che l’agenzia gheddaun e hipster apra i battenti, non prima delle nove se non nove e trenta. Si, avete letto bene. I soci dell’agenzia, probabilmente gli unici ad avere a disposizione le chiavi e il codice dell’allarme, entrano con la dovuta calma. Magari stanno facendo colazione al bar delle modelle, all’angolo, e se ne fottono. La nostra E., proveniendo da chissà dove con chissà quale treno a chissà quale ora in chissà quale stazione, non ha scampo: quella è l’unica ora utile a cui arrivare per non rischiare il ritardo. E, in modo intelligente, anziché guardare nel vuoto, consumare il proprio rimborso spese nei bar del centro o respirare smog fresco di giornata passeggiando in circonvallazione, ha fatto dell’androne il suo riparo temporaneo prima di immolarsi al marketing digitale.

Il pippotto di S., spropositamente lungo, lascia trapelare un po’ di tenerezza verso quella giovane adulta costretta a prolungare la propria adolescenza oltre i livelli di guardia a causa della peggiore situazione economica del dopoguerra, che ha lasciato l’imprenditoria in mano a una generazione di fanfaroni. Perché S. è certo che tra qualche mese, quando ineluttabile sorgerà il sole sul giorno della scadenza del suo contratto farlocco firmato da ambe le parti con l’inchiostro simpatico di cui sopra, E. tornerà nel suo cyberspazio fatto di newsletter di offerte di lavoro, lavorifighipuntocom e così via. A nulla sarà valso quel sacrificio, il dedicare quotidianamente ore della sua vita in quell’anticamera della produttività senza un mazzo di chiavi utile ad anticipare la sua giornata lavorativa, di conseguenza la fine della stessa, di conseguenza il ritorno a casa, di conseguenza a vivere la sua vita privata decorosamente.

Ho suggerito a S. così di costituire un club di solidarietà, tutti i creativi e i web designer e i flash developer e gli art director e gli online strategist e i video producer e i social media content manager uniti, se occorre mi rendo disponibile in prima persona per un dj set visto che i copy sono più che ridondanti, alle otto e quaranticinque con tè caldo e biscotti nell’androne di quel palazzo anni cinquanta, ad aspettare i soci proprietari dell’agenzia hipster-gheddaun. Una sorta di flash mob contro chi, dei flash mob, si riempe la bocca e i powerpoint e cerca di venderli alle multinazionali. E dàtele un mazzo di chiavi, che diamine. Barboni.