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Se è vero che non dovremmo mai e poi mai affezionarci alle cose considerando che prima o poi si rompono, le perdiamo, ce le rubano, si guastano o anche siamo noi quelli a lasciarci le penne e loro non si fanno nessuno scrupolo di cambiare proprietario, per i calzini il problema è duplice. I calzini sono una coppia e come è complesso ristabilire rapporti con coniugi o fidanzati che a un certo punto si lasciano e non sappiamo mai con quale dei due fuoriusciti dal rapporto è più conveniente mantenere l’amicizia, così i calzini fanno presto a tornare single.

Non lo direste mai ma sono tutt’altro che con i piedi per terra, e questo è il loro tallone d’Achille. Sempre con la testa tra le nuvole, si perdono in un bucato, durante una centrifuga, nella cesta della roba da stirare, sullo stendibiancheria, giù in cortile insieme a qualche molletta, e nel migliore dei casi possono sopravvivere anche settimane senza avere contatti con il partner. Diverso è il caso delle coppie di calzini che continuano a stare insieme ma poi uno si sgualcisce, si buca, si strappa, e anche se il partner continuerebbe a svolgere con zelo la propria mansione finisce che nessuno si mette più a rattoppare calzini bucati e quindi il calzino rotto e quello ancora a posto finiscono in pattumiera.

Questo a meno che non acquistiate set di calzini tutti uguali e dello stesso colore. Io per esempio ho un cassetto pieno di calzini di quelli che scompaiono sotto le scarpe che hanno il discutibile naming di “fantasmini”. Sono calzini tutti uguali, tutti blu scuro e perfettamente intercambiabili tanto che non li accoppio mai inserendone uno dentro a un altro. Li lascio liberi di scegliere il proprio compagno di viaggio, e se uno si logora o si perde non importa perché il modello della coppia di calzini aperta non causa drammi da separazione. Il vero problema è che questo set di calzini blu che ho acquistato in stock e che – non esagero – saranno in tutto almeno una ventina (di singoli calzini) sono firmati Gian Marco Venturi. Ora io non sono un fashion blogger, e posso capire un brand di abbigliamento sportivo che marchia i propri calzini in tessuto tecnico da allenamento. Adidas, Puma eccetera è giusto che facciano riconoscere i propri prodotti con il logo ben visibile sopra la caviglia. I fantasmini di Gian Marco Venturi hanno una vistosa scritta sotto la pianta che dice proprio Gian Marco Venturi. Mi chiedo quale vantaggio competitivo e da un punto di vista di brand awareness possa ottenere Gian Marco Venturi stampando il suo nome su calzini che, indossati, sono invisibili e che si acquistano in stock da venti paia al mercato a un prezzo irrisorio. Che poi, mi chiedo, ma chi è Gian Marco Venturi?

facciamo il tifo per il nostro successo

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Se guardo la partita mi distraggono i cartelli e le pubblicità a bordo campo che mi ricordano anche in questo momento di svago la condizione generale di relativa povertà. E per fortuna che non si tratta di un incontro di calcio in cui le réclame rimandano a beni di ben altro livello. I jipponi più ingombranti da centomila euro, l’icoso che costa una milionata di vecchie lire, certi prodotti del made in Italy che se li avessero visti i nostri bisnonni l’emigrazione in america sarebbe stata ancora più massiccia. Ma qui non siamo allo stadio. Alla tv le partite del campionato di pallavolo femminile le passano di rado e i cartelloni cangianti nel palazzetto o sono appannaggio dell’economia locale o vengono opzionati da marchi di serie B come lo sport in questione che, anche se gioca la serie A, di certo non porta profitti a nessuno, almeno non quelli degli sport più redditizi che si venderebbero le madri per averli in esclusiva.

Tutto mi riporta a un certo provincialismo economico che dall’alto di certe metropoli patrimonio dell’immaginario collettivo fa venire i brividi di angoscia. L’agenzia di lavoro outsider rispetto ai grandi nomi del recruiting on line, che già loro che sono colossi nessuno ha mai capito come facciano a campare se poi la stragrande maggioranza trova quei pochi posti disponibili solo per sentito dire. Io che ho la fortuna di un tempo indeterminato vorrei scendere in campo (in senso figurato, non sono granché come schiacciatore) per congratularmi con quei professionisti dell’occupazione locale e implorarli di estendere il loro modello, che dal cartellone pubblicitario sembra essere vincente, a livello nazionale. In quanti, vedendo il logo dagli spalti, si ricordano di non avere un lavoro?

Poi vabbé, ci sono i tre quattro sponsor minori della squadra di casa che hanno ragione sociale abbastanza folkloristica, la sede nei dintorni e un nome che al terzo giro ti fa ancora ridere. Ma il loop del cartellone però si chiude sorprendentemente con una concessionaria Volkswagen, e qui scommetto che si diffoonde il desiderio di emigrare in Germania, un posto in cui la Touran ce l’ha l’equivalente tedesco nella posizione sociale dell’italiano che si compra la Punto, io per primo. La pubblicità accende i desideri della massa, ma è difficile non osservarla con gli occhi della quotidianità.

in quale direzione creativa

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Quello che fa la differenza nel mio ambiente di lavoro è la capacità di convincere. C’è tutta una gerarchia di professioni che parte da chi sa influenzare meglio fino a chi non è tenuto a farlo. All’ultimo livello, il ground zero, c’è infatti la produzione, che deve mettere insieme le idee di chi ha persuaso quello sotto nella catena. Perché se riesci a convincere il team con cui operi gli altri fanno quello che dici tu, si diffonde la voce che sei bravo e sai fare il tuo lavoro. Non basta avere il guizzo, bisogna fare capire agli altri che quella è la strada. Quella è la verità. Quello è il verbo. Poi ci sono i fuoriclasse, chi ha la pensata e la manda così, via e-mail, senza faccine e spiegazioni a corredo. Chissà, forse vivono di gloria e rendita perché in passato hanno vinto il campionato mondiale di persuasione. Fatto sta che ora non si preoccupano minimamente di essere messi in discussione. L’ascetismo è invece uno stadio evolutivo ancora più estremo, è l’arte del partorire arte, la sublimazione della creatività in ufficio, quella che scaturisce indipendentemente dalla richiesta di prestazione e di feedback. Un asceta è un virtuoso che ha l’illuminazione e la scrive generalmente sul suo Social Network preferito, solo per essere contemplato. Ci sono infine quelli la cui capacità di essere convincenti costituisce una componente dello stipendio percepito. La degenerazione dell’arte del convincimento altrui è la provvigione, il risultato di una formula alchemica altrove definita vendita. Ma il commerciale, che prima del possibile acquirente deve aver persuaso se stesso, fugge da ogni logica in quanto agisce orizzontalmente, verso l’esterno dell’azienda. Quando per deformazione professionale si prodiga anche verticalmente si crea un corto circuito, il diagramma di flusso necessita di uno spin off non programmato e c’è il rischio di tilt. Non ci si fida più. Ci si chiede se la propria attività è utile, fa del bene anche oltre il mercato, o è solo pubblicità, è solo anima del commercio condannata all’inferno. Si persuade con le parole giuste, con uno sguardo, con i gesti, parlando nel vuoto, dimostrando se stessi con l’ausilio di Power Point. Va bene, mi hai convinto, dicono alla fine. O non si dice nulla se non un bravo, bell’idea. Ci aggiorniamo dài, al telefono. O, via mail, ti faccio sapere appena ho news.

punto sul vivo, dal vivo

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Fondamentalmente, il motivo per cui non mi piace più come una volta andare ai concerti è il fatto di scoprire che altre ennemila persone hanno i miei stessi gusti e sono lì come me per il gruppo che credevo di nicchia ma che invece lo conoscono cani e porci che suona sul palco. Seguito a ruota da quelli che ballano fuori tempo, e se hai la sfortuna di essere uno come me che va maledettamente a ritmo e sente il groove da dio e ti capita davanti uno/a scoordinato/a che prende battere per levare, il rischio di collisione è assicurato. Non c’è niente di peggio che il contatto tra arti sudati e pelosi di sconosciuti.

Quindi, e credo di averlo già detto non ricordo in quale post, ho in dispetto le persone che passano il tempo a digitalizzare il concerto anziché goderselo come un momento indimenticabile che dopo un paio d’ore finirà, e sì avrai le tue foto sulla digitale o la clip con un audio impresentabile da postare immediatamente su Facebook tramite la tua app preferita, ma devi star lì a inquadrare, e poi è sfocato, e poi qualcuno ti dà uno spintone, e il pezzo è bello che finito e tu non l’hai goduto appieno. Poi ci sono quelli/e dal look impeccabile, tremendamente cool che avranno passato ore a scegliere la maglietta più appropriata. Per esempio, una t-shirt dei Joy Division a un concerto di Sizzla. Originale, no? Può essere anche un’idea verticalizzarsi completamente, vestendocisi a tema secondo il concerto. Per esempio in giacca e cravatta agli Interpol. Ci sono i gruppi di amici che si vestono tutti uguali. Che teneri. Quasi sempre si tratta di band che si recano insieme al concerto dei loro principali ispiratori, non saprei altrimenti spiegare una tale abnegazione.

Come non fare un cenno quindi ai gruppi supporter, scelti spesso alla c***o di cane, ma peggio di loro sono quelli che vanno al concerto solo per i gruppi supporter scelti alla c***o di cane, e che quindi sono ancora più di nicchia di me. Che smacco. Mi rovinano la serata; il giorno dopo, per mettermi al passo, come minimo dovrò scaricarmi l’intera discografia e studiare sodo. Non si finisce mai di imparare.

Non reggo quindi l’area vip, quello spazio vuoto tra transenne che resta deserto fino a pochi minuti prima del concerto. E tutti si chiedono chi sarà il vip o il fortunato possessore del biglietto omaggio che assisterà al concerto in quello splendido isolamento. Per esempio, l’altra sera c’era Omar Pedrini. E pensate che c’è chi lo riconosce ancora; sono contento, mi sta simpatico soprattutto ora che non sta più con elenuar casalegno (in una intervista lessi che il partito più a sinistra che ha votato è forza italia, sarà anche una bella ragazza ma non ce la farei mai).

Infine, per dirla alla Max Collini, sono sempre il più vecchio nel locale, per questo ho provato a farmi accompagnare da mia figlia all’ultimo concerto, quello di cui sopra, un paio di sere fa al Forum di Assago. Non vi dico di quale gruppo si tratta per non allontanare potenziali stimatori di questo blog che sono capitati qui grazie a keyword quali Tv on the Radio, National e altri gruppi realmente di nicchia, pensando di trovarsi a tu per tu con un vero cultore indie. Insomma, i trucchi di SEM e il SEO possono essere applicati anche così. Dicevo, 28 euro di biglietto, in tre 56 perché i bambini sotto gli 8 anni non pagano. Alle 19 mia moglie, mia figlia ed io eravamo già dentro, in posizione tattica: tribune in fondo, proprio di fronte al palco, prima fila davanti alle transenne, a ridosso dell’area vip. Potevamo anche utilizzare la bambina come scusa: “Hey amico togliti di mezzo, non vedi che la bambina non vede? Ma ce l’hai un cuore?”. Oppure “Ti sposti, vero, quando iniziano a suonare?”. E comunque la band in questione piace molto anche a lei.

Non vi dico la difficoltà di tenere una bambina per 2 ore in attesa a un concerto, peggio che un viaggio in macchina e le domande rivolte ogni 100 metri “Papà, siamo arrivati?”. Qui è lo stesso: “Papà quando iniziano?”. “Tra 50 minuti”. “Papà quando iniziano?”. “Tra 49 minuti”. E così via. Il conto alla rovescia finalmente si interrompe. Si spengono le luci, il pubblico è in delirio, scattano tutti in piedi. Per fortuna che siamo in posizione strategica. Parte il primo pezzo. Tutto inizia a vibrare, la mia cassa toracica e, suppongo, anche quella di mia figlia. I bassi hanno una frequenza inumana, l’acustica del Forum che ricordavo scadente ma non così inqualificabile rimescola i suoni in una bolla appiccicosa che si attacca su tutto. I vestiti, la pelle e soprattutto l’umore. Io e mia moglie convergiamo gli sguardi sulla bambina, che si preme le mani slle orecchie e sta piangendo, spaventata.

Il concerto è finito, a metà del primo pezzo. Usciamo dal Forum, fuori fa freddo, gli addetti alla sicurezza ci fanno passare e ci guardano severi. Non è un posto adatto per bambini. Probabilmente nemmeno per adulti genitori.

le brochure che non ti ho scritto

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Comunicare per le aziende è una bella sfida. Intanto perché raramente le aziende si fidano ciecamente di te, anzi di me, diciamo dell’agenzia in cui lavoro, pur avendoci scelto. Magari è un problema nostro e non ci siamo mai conquistati completamente la stima del cliente, che invece dovrebbe lasciar fare alla struttura da cui compra consulenza. Se chiamo un elettricista, già che lo pago, non gli dico come farmi un nuovo punto luce. Così, quasi mai ti lasciano carta bianca su cosa comunicare e come farlo.

Nel caso di aziende multinazionali, è ancora più difficile. Ci sono già linee guida marketing a priori decise da persone che sicuramente ne sanno più di tutti, e che non mi permetto di discutere. Poi ci sono i marketing manager locali, qui il discorso si fa più complesso. Insomma, si deve sempre lavorare a quattro o sei mani e alla fine il risultato è sempre un ibrido, meno efficace di quanto lo sarebbe se a lavorarci ci fosse solo l’esperto in comunicazione aziendale, che saremmo noi. Il problema è che il marketing vuole dire la sua, ma il marketing non è la comunicazione anche se si tende a unificare le due funzioni. Diciamo che il marketing decide gli obiettivi, la comunicazione inventa la forma e il contenuto per raggiungerli. Tu, azienda, non dovresti dirmi “mi serve una brochure aziendale”, perché a me verrebbe da risponderti “guarda che nel 2011 le brochure aziendali non se le i****a più nessuno”, ma so già che tu mi diresti “fammi la brochure aziendale lo stesso”. Tu, azienda, nel momento in cui mi scegli come tua agenzia di comunicazione, dovresti chiedermi “quale strumento mi consigli di realizzare per comunicare i miei punti di forza?”, e io ti farei un paio di proposte, non di certo un quartino patinato e autoreferenziale per farti bello con il tuo AD, perché non ti porterebbe un centesimo di fatturato in più.

Questo nel migliore dei casi. Nel peggiore, un giorno arriva al marketing uno che crede di avere qualche esperienza di comunicazione, e decide che gli stai sulle palle. Magari a ragione, come dice una mia amica “magica”, tutta questione di hi-fi, di vibrazioni positive e negative, di come le senti. Da qui chissà che tipo di vibrazioni escono, ma non ha più importanza: ora questo nuovo tizio ha messo un bello strato di materiale refrattario sulla porta del suo ufficio, e stop. Sono subentrate altre agenzie, la scelta ripeto è sacrosanta, per carità. Giusto così, la competitività rende più grintosi e ti costringe a rinnovarti sempre, e poi il budget è tuo. Ma, cazzo, finirà il tuo contratto di sostituzione di maternità, prima o poi.

è un periodo difficile? fai un break

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Il duro e palloso lavoro di editing che devo ultimare entro domani sera mi sta prosciugando. Devo risistemare un testo 3/4 tecnico e 1/4 marketing, che potrebbe tranquillamente rimanere così, nella sua incomprensibilità. Perché, in ogni caso, il cliente vuole che i concetti da comunicare siano quelli. Ma si tratta di concetti che nessuno comprenderà anche perché le brochure aziendali sono da evitare come la peste, e il testo che sto faticosamente modificando non lo leggerà nessuno. Che senso ha una brochure aziendale, nel 2011. Bisogna però pur guadagnarsi da vivere, e c’è di peggio, per carità. Ma vi assicuro che in certi momenti mi verrebbe da convincere i miei clienti che stanno spendendo male il loro budget, investendolo su di me. Un esempio? Provate a rendere diversamente la seguente porzione di testo:

In ambito Finanza Xxxxxxx affianca i propri clienti nella rapida evoluzione del business attraverso l’ottimizzazione dell’operatività delle sale di contrattazione, con servizi e soluzioni sia software che hardware. Elementi di eccellenza dell’offerta Xxxxxxx sono rappresentati dai due centri di competenza Yyyyyy, dislocati a Aaaaaa e Bbbbb, e dal centro di competenza Zzzzzzz. In particolare, per ciò che riguarda Yyyyyy Xxxxxxx fornisce servizi di system design, configuration, integration, upgrade e application management 24/7 sulle piattaforme Qqqqqqq  e Ww.3. Inoltre, in qualità di business partner certificato Yyyyyy, oggi Xxxxxxx è tra le poche realtà in grado di aiutare i clienti nei delicati processi di ottimizzazione e di migrazione verso le nuove release delle piattaforme in essere.

Il cliente paga e io eseguo. Chiudo gli occhi, mescolo le parole come lettere in un sacchetto dello scarabeo. Ed ecco come è diventato:

Xxxxxxx mette a disposizione delle organizzazioni servizi e soluzioni sia software che hardware dedicati all’ottimizzazione dell’operatività nelle sale di contrattazione, a supporto di un settore in continua evoluzione. Attraverso i due centri di competenza Yyyyyy di Aaaaa e Bbbbb, Xxxxxxx fornisce servizi di system design, configuration, integration, upgrade e application management 24/7 sulle piattaforme Qqqqqqq  e Ww.3.
Non solo. In quanto business partner certificato Yyyyyy, Xxxxxxx è una delle poche realtà in grado di recare assistenza alle aziende nei processi di ottimizzazione e di migrazione alle nuove release della piattaforma.
Il centro di competenza Zzzzzzz consente inoltre a Xxxxxxx di sviluppare soluzioni per la razionalizzazione delle postazioni di lavoro nelle sale di contrattazione, garantendo una riduzione del TCO.

Spero abbiate notato la vera perla di tutto questo, ovvero il “non solo” messo a metà periodo, il mio asso nella manica, la mia firma, come i programmatori che mettono codice personalizzato tra le righe degli script per far uscire parolacce con contorte combinazioni di tasti, o i designer 3D che in un paio di pixel nascosti in uno scenario digitalizzano la loro foto, o i cartoonist che inseriscono immagini subliminali di donne nude nei film Disney. “Non solo” risalta orgogliosamente in quasi tutte le brochure aziendali che ho scritto nella mia vita, alternato all’altrettanto efficace “ma non è tutto”, di tono più giornalistico. Hai letto un “non solo” in qualche testo corporate? Non c’è dubbio. Sicuramente è mio. Provaci anche tu. “Non solo” dà grandi soddisfazioni, vedrai. Sei nel mezzo di un periodo difficile? Concediti un break, metti un “non solo”. E ancora meglio se poi vai a capo, lasciando magari una riga vuota.