una questione privata reloaded

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Raffaele non capisce che a me più dei gusti sessuali della gente, più delle opinioni politiche degli individui, più di ciò che pensano le persone di questo o di quello, da sempre il mio obiettivo è comprendere come si sviluppano le varie inclinazioni verso un genere musicale rispetto a un altro. Perché lui per esempio si accontenta di quello che passa il convento anche se non c’è nulla di ascetico nei network radiofonici commerciali che ascolta mentre gira in auto in lungo e in largo per lavoro. Per questo non riesco a dare la giusta importanza al suo turbamento. Si è intestardito con una ragazza che si intestardisce a chiamare ragazza ma allora il problema è che alla nostra età a trentaquattro anni siamo ancora ragazzi. Io ne ho cinquanta e indosso una t-shirt degli Smiths. Voi come direste? Di lei, non di me, che resto un cretinetti. Una donna? Non so, secondo Raffaele probabilmente le donne sono quelle nei film. Rita Hayworth. Ingrid Bergman. Comunque da qualche settimana – ufficialmente, mentre ufficiosamente dall’inverno 2015 – non fa altro che dire che un giorno potrebbe sposarla, questa ragazza dell’83. Io nell’83 mettevo cose come “Shock the monkey” o “Wot!” di Captain Sensible nel juke-box dei Bagni Nilo, non vi dico come reagivo quando c’era qualcuna in topless (non biasimatemi, avevo sedici anni) e non pensavo che potesse nascere qualcuno che un giorno avrebbe avuto sedici anni in meno di me. Lei ho visto che sul telefono ha qualcosa dei Rolling Stones ma non riesco a entrare nei dettagli, non mi va di fissare i dispositivi personali altrui soprattutto delle donne, pardon, delle ragazze dell’83. Raffaele così la tira per le lunghe con il corteggiamento su Facebook e i messaggi via Whatsapp ma questo ibrido tra romanticismo di una volta e immediatezza della comunicazione genera un mostro che poi prosciuga ogni tipo di relazione: si resta sconosciuti a letto, si diventa molto intimi intellettualmente. Gli adulti non dovrebbero comportarsi così, ma chi ha inventato l’Internet e la possibilità di impostare relazioni virtuali prima che fisiche non ha tenuto conto che ci sono anche quelli un po’ timidi che amano sedersi al centro della loro confort zone e inviare i propri sentimenti in differita. Così ho detto a Raffaele che avrei pubblicato per lui un appello qui, e scusate l’uso personale del mezzo: “ha detto Raffaele di dirti di farti avanti tu”. Grazie. p.s. se hai una risposta in privato per lui scrivimi pure, posso continuare a farvi da tramite, la cosa non mi dispiace nemmeno e mi offre spunti narrativi.

cose da fare quando calano gli ascolti

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C’è chi sostiene che il bello di vivere nelle metropoli sia la bassa probabilità di incontrare le stesse persone con continuità, un plus non da poco considerando che di routine ne abbiamo fin troppe. Si tratta di una filosofia – se vogliamo chiamarla così – che scaturisce dalla nostra attitudine a osservare le facce delle persone, ricordarsele, osservarle una seconda, terza e quarta volta per confermare la veridicità di questa teoria strampalata. Un approccio che può essere pericoloso perché ti fa venire voglia di far parlare i visi che si passano in rassegna e quando inizi con questa storia delle conversazioni non ne esci più. Oggi parliamo di meno, forse parliamo più al telefono, ma in genere siamo molto più concentrati su noi stessi. Ci rivolgiamo al nostro interno che non è fatto solo di corpo, mente, anima, coscienza o come diamine la vogliamo chiamare. Abbiamo aggiunto una componente digitale alla nostra natura che teniamo tra le dita, in mano, appoggiata sulle ginocchia quando siamo seduti, con diramazioni nelle cavità auricolari, ricca di colori e di suoni, piena di cose da leggere, contemplare, osservare, imparare o dimenticare, condividere, suggerire, commentare, riflettere. Viviamo con un serbatoio di emozioni sempre al nostro fianco, a volte si scarica ma ci siamo organizzati per non rimanere mai all’asciutto e che è strutturato come la nostra mente ma molto più semplice da usare, esercitare, aumentare di capacità, formattare o cancellarne le parti meno usate. Prendiamo da lì le stesse cose che vediamo nelle facce della gente, che è sempre diversa (soprattutto se viviamo nella metropoli) e come la vastità dell’Internet che abitiamo non ci annoia mai, almeno finché la gente non parla perché, a onor del vero, il rischio c’è e le persone non si possono certo liquidare come un’applicazione qualunque da cui si esce e chi si è visto si è visto. Immagino che avrete capito dove voglio arrivare. Domani si inaugura il “Semestre mondiale della conversazione” che, per la prima volta dal dopoguerra, è guidato proprio dall’Italia. Nelle città, nelle campagne, all’aperto o al chiuso, in luoghi silenziosi o caotici, il nostro dovere per i prossimi sei mesi sarà quello di ascoltare e raccontare, dire e tacere per sentire, far domande e valutare risposte, consolare e chiedere aiuto, sperare e ottenere conferme, convincere e lasciare che qualcuno insista per farci cambiare idea. Non è detto che al termine del semestre tutto torni come prima con i nostri sguardi silenziosi nel vuoto a scavarci dentro per raschiare il fondo di quello che proviamo e delle parole che abbiamo messo da parte a supporto. Prima o poi finiscono anche quelle, ci vuole linfa nuova e vitale. Provate a chiederla a qualcuno, non ve ne pentirete.

individui a cinque stelle

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L’Internet non sarà mai abbastanza utile fino a quando non ci sarà la possibilità di recensire le persone come su Trip Advisor, e non mi riferisco agli endorsement sulle qualità professionali di questo e quello che mettiamo ai nostri colleghi su LinkedIn, che per la maggior parte sono finti come i filtri di Instagram e mirano a metterci in bella luce con il nostro datore di lavoro. Diciamo piuttosto una specie di LinkedIn basato sul privato dove possiamo valutare carattere, disponibilità, personalità, modi di fare, educazione sia nel senso di istruzione che di buone maniere e magari aggiungere recensioni. “Simpatico come una merda nel letto”, direbbe mia nonna buonanima. “Piacevole, sa stare al suo posto e interviene nelle discussioni solo se ha qualcosa di intelligente da dire”, questa l’ho scritta per me, naturalmente. “Un cagaminchia come non se ne vedevano da anni”. “Borioso e pedante, evitate di invitarlo a cena o, se vi capita, fingete un attacco di dissenteria e passate il resto della serata in bagno, molto meglio”. “Scopa da dio ma ascolta musica veramente di merda”. “Sono stata a casa sua, ci sono peli di gatto da tutte le parti e non ha nemmeno l’abbonamento a Sky”. “Guida come un pazzo, non fatevi riaccompagnare a casa ma chiamate un taxi o va bene anche Uber”. “Fa di tutto per evitare di parlare di politica”. “Buono come il pane ma non chiedetegli di comprarvi una birra industriale al supermercato”. Insomma, il divertimento per il futuro potrebbe essere questo: segnarsi tutti i commenti su ristoranti e alberghi che trovate quando andate in giro e immaginarli rivolti a gente in carne ed ossa e chissà se così potremmo imparare qualcosa di più sia sul settore dell’ospitalità che sul genere umano.

raccontatemi anche voi il vostro primo appuntamento

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Viola ha la massima cintura di un’arte marziale dal nome impronunciabile e che vi sfido a capire se ha radici cinesi o giapponesi. Avere ristoranti che propongono sintesi gastronomiche delle due principali potenze economiche dell’est nello stesso menu ha ulteriormente rimescolato le carte per noi suprematisti occidentali, che vediamo negli occhi a mandorla un’unica provincia nemmeno tanto grande, in cui ci si sfonda di cibo senza limiti a undici euro o poco più. Se volete invitare Viola a uscire vi consiglio allora piuttosto una pizza, così non correte il rischio di sbagliare, ma comunque informatevi prima per non fare brutte figure e guastare a priori un futuro insieme. Potete evitare anche di proporre un innocuo cinema se non vi piacciono le donne con gli addominali più marcati dei vostri o, in genere, se nutrite il desiderio di vedervi con una tanto per fare qualcosa perché con Viola prendereste una cantonata, fidatevi.

Elvio voleva solo parlare con qualcuno e pubblicava su Facebook segnali d’allarme di profonda solitudine del tipo “nessuno vi farà mai domande come quelle a cui vi date risposta da soli”. Per il resto si faceva bello con le sue qualità intellettuali. Viola invece è separata e insegna matematica, tutt’ora è così e non vi deve sorprendere se ho usato il tempo presente anziché l’imperfetto, ma torniamo a come sono andate le cose. “Una laurea di quel tipo non ti ha insegnato a risolvere i problemi”, le aveva scritto Elvio in chat con una serie di facce sorridenti per evitare ogni rischio di fraintendimento. Vi è chiaro il doppio senso problemi -> geometria? Possiamo continuare il racconto? Perché se devi spiegare una battuta significa che non fa ridere, si dice così. Elvio e Viola si conoscevano comunque da tantissimi anni perché in certi paesoni dalle frequentazioni ridotte si tratta di uno standard relazionale.  Si erano già baciati con la lingua seduti sui gradoni roventi di un teatro all’aperto in estate durante un concerto gratuito come fanno le persone adulte. Erano appena stati testimoni dell’inizio di una bellissima storia d’amore: due sconosciuti, entrambi soli e in attesa dell’inizio della musica, si erano sorprendentemente scoperti lettori dello stesso romanzo ingannando il tempo con la stessa edizione del libro in mano, cercando di farsi notare in qualità di persone interessanti che non sprecano minuti preziosi, come invece fa la massa a spippolare sullo smartcoso.

Un po’ invidiosi di quella storia dalla trama da commedia americana, alla fine si erano arresi reciprocamente a diverse circostanze. Un paio di baci comunque da piena sufficienza ma poi l’assalto delle zanzare e i vapori di Autan avevano preso il sopravvento, l’estate nei dintorni di Milano può essere fatale, da questo punto di vista. Io ho visto persino cantanti scappare dalle luci del palcoscenico sopraffatti dalle punture, che poi ho letto che tutti sono morsicati e non c’entra il sangue dolce o amaro, è che ad alcuni le punture non fanno reazione e prurito e quindi non si accorgono. Elvio, che al massimo si dà le manate per tentare di schiacciarle, aveva quindi telefonato a distanza di qualche settimana a Viola e nemmeno un’ora dopo erano già davanti a un long drink fin troppo sovradimensionato per l’abbattimento reciproco dei freni inibitori, questa volta al chiuso e con l’aria condizionata per non rischiare inutilmente. Forse era tutta questa lucidità – a cui sto facendo di tutto per adattare lo stile del racconto, spero apprezziate il tentativo – che avevo spinto Viola a dirgli che non è che fosse poi così innamorata, e lui non aveva saputo valutare, oltre all’entità del costo delle consumazioni, se tale attestazione di sincerità comportasse una prospettiva vantaggiosa o meno nel medio periodo.

avere fegato e conservarlo con cura

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Qui sotto ieri è successo il finimondo ma, dalle finestre dell’ufficio, non siamo riusciti a capire bene le dinamiche dell’accaduto. C’era una volante della Polizia ferma e con le sirene spiegate, un livello di gravità a causa del quale mi sono permesso di interrompere una riunione per dare un’occhiata. C’era un uomo bloccato a terra dagli agenti, mi è sembrato di veder volare qualche colpo di avvertimento e qualche strattone a danno del presunto malintenzionato. C’erano passanti in sosta a curiosare come me, del resto, e un’auto sfasciata sul davanti poco più in là a bloccare la via in cui si stava svolgendo la colluttazione.

Sono passato di lì poco dopo per capire meglio con una scusa – nel senso che la scusa l’ho raccontata a me stesso per non auto-ammettere che anch’io sono un degno membro della categoria umana dei voyeur da tragedia altrui e così mi sono detto di fare un salto al supermercato più avanti per far finta che fosse una casualità – e da vicino la situazione era altrettanto incomprensibile. Era trascorsa qualche ora ma gli agenti erano ancora lì a effettuare rilievi e compilare moduli, l’auto incidentata parcheggiata a lato con le quattro frecce ancora attive (fate ciao alla batteria, anche se in un dramma di questa entità non è certo ai primi posti delle priorità) e i testimoni in piedi a osservare gli sviluppi della vicenda, malgrado tutto stesse volgendo al termine. In quell’istante ho pensato a quanto ormai assomigliamo alle faccine che postiamo a corollario dei nostri scambi di messaggistica su Whatsapp e c’è da chiedersi se siano state disegnate così su modello delle nostre espressioni o viceversa, un po’ come quando pronunciamo parole come se fossero hashtag, o diciamo LOL anziché ridere o, in generale, mescoliamo i due piani della conversazione, quella in diretta a cui partecipiamo in carne e ossa o quella in differita con i dispositivi tecnologici. La gente stava a guardare i rimasugli di un fattaccio di cronaca, di cui comunque non ho trovato traccia alcuna nei quotidiani locali, con quella faccina con gli occhioni spaventati che, quando qualcuno la usa e la riceviamo in risposta, subito prende le sembianze del nostro interlocutore e anche a noi, per una sorta di processo simbiotico, ci viene subito da tirare su la pelle della fronte e le sopracciglia un po’ di lato per posizionarci sulla stessa lunghezza d’onda.

La mia personale interpretazione dell’accaduto, a seguito di un banale due più due tra quello che ho visto e ciò a cui mi inducono i pregiudizi di cui sono intriso, è che un sudamericano ubriaco ha tentato di sfuggire a una pattuglia e nel dedalo delle corsie e dei controviali che delimitano la piazza qui sotto si è schiantato da qualche parte, quindi ha tentato la fuga di corsa senza successo ma prendendo a male parole gli agenti e meritandosi il trattamento completo. Per questo ieri sera, quando sono rientrato a casa, mi sono chiesto davanti a un bicchiere di birra quanto bere alcolici faccia male o meno. A quanto deve ammontare lo storico di alcolici di una persona per rientrare nella casistica degli alcolizzati. Nel mio piccolo ho due casi in famiglia alla cui morte ha dato sicuramente una mano il loro vissuto etilico, e mi preme precisare che uno dei due aveva gli stessi cinquant’anni a cui mi sto avvicinando precipitosamente, un traguardo che taglierò (o almeno spero di tagliare) tra venti giorni spaccati. Mia mamma, che è anche la zia dell’esempio di cirrosi epatica che vi ho riportato poc’anzi e che di anni ne ha trenta esatti più di me, mi dice che non c’è nessuna differenza, che lei si sente sempre la stessa di quando era una ragazzina almeno fino a quando non si osserva allo specchio e scopre una vecchia. Per questo, secondo me, è importante controllare le differenze causate grazie all’età ogni giorno nel proprio riflesso, così diventare anziani sembrerà più un’abitudine che una condanna. Io al momento invece mi guardo, spalanco la bocca e penso a quanto sia facile entrare nel corpo di una persona, quante vie di accesso ci siano (doppi sensi a parte) al nostro interno e mi sembra che apparati, organi, tessuti e persino cellule siano alla portata di mano molto più di quanto possiamo immaginare.

non possiamo certo essere amici, né oggi né allora

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“Sei mia” la canta Riccardo ad Amici ed è veramente una canzone di merda. Ieri l’hanno interpretata tre ragazzetti tamarrissimi sul treno, una aveva già gli shorts di jeans e mi chiedo cosa indosserà a luglio, sapete che per me le stagioni sono una questione di calendario e al 31 marzo, caldo o non caldo, ci vuole ancora la maglia della salute. C’era un signore seduto di fronte a me che era infastidito dal fatto che i ragazzi tamarrissimi la cantassero, con la base suonata a palla sul telefonino, e dal casino inappropriato per un luogo pubblico che facevano. Io no. Stavo leggendo ma non mi ha disturbato il baccano. Mi ha disturbato la musica di merda che sono stato costretto ad ascoltare, la pessima qualità a cui sono stato esposto. Il mio compagno di viaggio si è voltato e ha chiesto ai ragazzetti tamarrissimi se, secondo loro, non stessero esagerando, una domanda retorica che non ha avuto risposta alcuna se non la reiterazione del messaggio. Io invece mi sono voltato verso di te e ho detto proprio “che musica di merda”, ma il problema è che tu non c’eri. Pensavo avessi cambiato facoltà, o cambiato orari, o cambiato città di partenza, o cambiato città di destinazione. Invece ti sei rotta un piede e l’ho notato solo poco prima, quando ormai non potevo più tornare indietro per chiederti come fosse successo e così abbiamo viaggiato in due carrozze distanti e distinte. Peccato, perché l’occasione non era male, anzi. Fa il paio con quella volta in cui non mi sono fermato per darti uno strappo in auto quando pioveva e ti ho superato mentre camminavi senza ombrello. Ora però potrò unire le due cose: al vederti zoppicare sotto l’acqua e riparata solo dal cappuccio del parka sicuramente non mi tirerò indietro, preparerò anzi le cose affinché la colonna sonora sia più appropriata.

scrivere con la sicura

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La cosiddetta comunicazione in differita ha da sempre un’aura di romanticismo e non a caso è utilizzata abbondantemente da chi si caga sotto a dire le cose in tempo reale ai diretti interessati. Si tratta di un fenomeno vecchio tanto quanto le incisioni rupestri e consiste appunto nella mediazione delle cose da dire grazie a un canale di trasmissione che le raccoglie e le rende più o meno durevoli nel tempo. Una grotta, una tavoletta incisa con uno stilo, una pergamena, una stampa a caratteri mobili, una missiva, un affresco, due fogli in una macchina da scrivere con la carta carbone in mezzo, una stampante ad aghi, una stampante digitale, un SMS, un blog e Snapchat, tanto per condensare in un paio di righe migliaia di anni di struggimenti dell’homo sapiens ma păvĭdus. Proviamo a vederla quindi dal punto di vista opposto: quanto si è evoluta la civiltà proprio grazie agli uomini che si sono ingegnati a trovare modi per far sapere agli altri le cose mentre non ci sono, in modo da evitare possibili brutte figure, rifiuti, delusioni oppure in generale levarsi dall’imbarazzo?

Non c’è nulla di male a comportarsi così, anzi alcuni la definiscono persino arte. Il problema sorge quando si utilizzano i suddetti canali di comunicazione in differita in non lucidissime condizioni, per esempio fortemente stressati o fiaccati dalla disperazione oppure fuori di sé dalla rabbia o anche solo semplicemente nell’euforia dell’alcol, perché la parola (o la sua rappresentazione visiva) lasciata nero su bianco all’interpretazione del destinatario (c’è un celebre motto suppongo millenario che evidenzia proprio il gap in termini di gravità tra la leggerezza della parola pronunciata e l’irrimediabile pesantezza di quella scritta e delle conseguenze che causa il fatto che resti), dicevo che la parola lasciata nero su bianco all’interpretazione del destinatario ne raddoppia se non triplica la forza, per questo dev’essere ben ponderata a priori e non abbandonata alla mercé del destinatario senza prima una valutazione sulle sue conseguenze.

Per questo motivo bisognerebbe che esistessero dei modi per impedire ai suddetti canali di comunicazione in differita di funzionare quando la persona che si accinge ad usarli può potenzialmente causare danni. Una sorta di sicura che fa sì che telefoni, computer, ma anche penne o spray per scritte sui muri non si attivassero per esempio percependo al contatto con le dita della persona il suo stato confusionale o anche valori come la percentuale di birra nelle vene, come un banale palloncino delle forze dell’ordine un sabato sera qualunque. Come la protezione che hanno certi flaconi grazie alla quale possiamo tenere alla larga i nostri figli da veleni, medicinali e detersivi. Per dire, io e il mio amico Marco abbiamo trascorso insieme alcuni ultimi dell’anno durante i quali ci siamo imposti di mandare i tradizionali auguri via messaggio molte ore prima della mezzanotte, in modo da evitare l’invio di corbellerie o parole compromettenti nei momenti meno adatti a questo genere di cose, sapete come vanno certe celebrazioni in cui alla fine si beve senza ritegno. Ecco: come non ci si dovrebbe mettere alla guida dopo un tot di bicchieri, allo stesso modo è sconsigliato scrivere cose quando non si è in grado di ragionare, punto e basta. E anche post come questo, vedete, uno dovrebbe scriverli solo se perfettamente lucido.

siete tutte così belle a Milano?

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Fare la corte è un comportamento che apparentemente non necessita di grande sforzo perché, spesso, è indotto da una sorprendente naturalezza. Ieri mattina sono entrato nel portone per salire in ufficio preceduto di qualche metro dalla donna che lavora nell’agenzia al piano di sotto, che ha percorso l’ingresso con le sue ampie falcate – è alta come me – e con un casco da motociclista in testa. Il fabbro che stava armeggiando al cancello del cortile per sostituirne la serratura non si è lasciato sfuggire il portamento e le ha detto “Siete tutte così belle a Milano?”. Lei, senza fermarsi, gli ha risposto un secco ma compiaciuto “Ha visto?”. Messa così l’attrazione risulta davvero un gioco da ragazzi, anzi, un gioco tra ragazzi. Altro che quelli che pensano che sia il risultato di una somma di parti, nel senso di parti del corpo altrui. I capelli così, gli occhi cosà, il seno e le gambe e il fondoschiena nemmeno fossimo carne pronta a essere servita al banco macelleria all’Esselunga. E poi vogliamo parlare di certe smancerie o, peggio, della timidezza nel dichiararsi? Per dire, io e Susanna non ci siamo mai salutati, nessuno ha preso l’iniziativa ed è finita come è finita. Chissà cosa penserà di questi approcci diretti il fabbro in questione tra trent’anni, quando nei giorni di festa rifletterà sul piacere di svegliarsi per primo, in anticipo rispetto ai figli e alla moglie che magari sarà davvero la donna che lavora nell’agenzia al piano di sotto. Magari ieri è tornata giù portandogli un caffè e un biglietto da visita, poco romantico ma più efficace rispetto a un post-it con il numero di telefono scritto a penna ma a Milano, dove probabilmente davvero le ragazze sono tutte così belle, funziona così.

chi viene dopo Grazia e Graziella? Per saperlo leggi qui.

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Sul lavoro ci si ringrazia per qualunque cosa con il risultato che quella che potrebbe sembrare una civilissima pratica di buona educazione si è trasformata in una risposta convenzionale da non negare a nessuno e, come tutte le cose soggette a sovraesposizione o rilasciate in quantità industriale, ne esce svilita, svuotata, svalutata e snaturata. L’esempio più eclatante di questo fenomeno è il fatto che ogni e-mail si deve chiudere con un bel grazie ma, considerando che ce ne scambiamo a dozzine quotidianamente con lo stesso destinatario, al grazie finale diamo l’importanza di poco superiore a un qualsiasi segno di interpunzione sul cui uso in contesti di comunicazione elettronica, peraltro, ci sarebbero interi manuali da scrivere ma chi sono io per insegnare a voi l’utilizzo delle virgole, tanto per fare un esempio?

Comunque la cosa ha preso piede e mandi un file e ti ritorna un grazie, fornisci un aggiornamento e ti ritorna un grazie, condividi qualcosa e ti ritorna un grazie ma il problema è che quello è il tuo lavoro e allora, se devo essere ringraziato per ogni aspetto in cui si declina la mia professionalità, tanto vale mettermi un’insegna al neon rossa con su scritto a caratteri cubitali THANK YOU sempre accesa qui davanti e a posto così. Anzi no, datemi un bell’aumento di stipendio e vi abbuono dal ringraziarmi per i prossimi due o tre anni. Il lato oscuro di questa vicenda è che siamo talmente assuefatti dal ringraziare cani e porci per qualunque nonnulla che abbiamo preso anche a ringraziare anche quando non dovremmo, anche quando magari anziché dire grazie dovremmo mandare a quel paese e persino in casi in cui proprio non c’entra nulla e il ringraziamento suona come un “grazie solo per il fatto di considerarmi un referente di qualcosa, un’entità dotata di casella di posta elettronica che ha conquistato un livello evolutivo superiore alla risposta automatica”.

Così, come una qualunque sostanza che, lasciata con la sua confezione aperta, ha perso il suo principio attivo o la sua fragranza, quando ci capita di essere a contatto con qualcosa di veramente speciale, altruista o degno della considerazione altrui, da un po’ abbiamo preso l’abitudine di dire o ricevere il “grazie di cuore” perché non si sa bene in che modo ma la nostra scorta di riconoscenza genuina la conserviamo lì, in uno scomparto speciale come quelli dei frigoriferi moderni, isolato dagli altri, in cui è possibile impostare una temperatura diversa. Infine, per chiudere, dei vari grazie mille o l’improbabile grazissime che spopola sui social network potete tranquillamente farne carta straccia o tenerli in un cassetto insieme alle altre banconote fuori corso, chissà che un giorno guarderemo anche questi buffi modi di dire come un cimelio vintage di cui vantarsi con i propri nipoti ma, a dirla tutta, spero di no.

impiegato presso me stesso

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Ho acquistato ai saldi, pagandola una sciocchezza, una tuta così comoda che adesso non ho più voglia di uscire di casa, e quando mi parlano di ambiente di lavoro a me la prima cosa che mi viene in mente è la mia nuova tuta da casa con la felpa con il cappuccio e i pantaloni morbidi. Una volta era diverso. Mi trovavo molto a mio agio nei vestiti che indossavo per uscire e per andare al lavoro ma poi, non so quando è successo, ho preso a vestirmi senza particolare attenzione, con poca cura persino negli acquisti stessi, e da allora non provo nessuna soddisfazione. Forse è il corpo che cambia o forse succede che certi materiali come quello di cui è composta la mia tuta da casa ti fanno sentire a disagio con tutto il resto. Capita. Per questo vorrei indossare la mia nuova tuta da casa anche quando sono in ufficio ma, stando alle convenzioni della società di cui facciamo parte, non si può, o comunque perderei in credibilità, la gente penserebbe che sono un deficiente, che non ho rispetto per l’ambiente di lavoro.

In realtà l’ambiente di lavoro è importante, però poi, dopo un po’, non ci si fa più caso. L’attrazione si spegne come in altri contesti della nostra esistenza e, proprio come in una coppia quando uno chiude gli occhi immaginando di giacere con un altro, sei in ufficio ma inizi a desiderare di essere altrove. Sei in ufficio ma ti immagini di essere alla scrivania di casa tua, con il laptop davanti, a scrivere le pagine più intense del tuo nuovo romanzo in tuta e calzettoni di lana.

Ma c’è un altro aspetto, tutt’altro che secondario, da tenere in considerazione. Sin dal primo giorno in cui noi umani facciamo il nostro ingresso tra i pari c’è subito qualcuno che ce lo mena con lo spirito di squadra. Già dalla nostra prima esperienza in un contesto di gruppo comunitario costituito per il perseguimento di un obiettivo condiviso ci viene insegnato che l’unione fa la forza, che la collaborazione è la cosa più efficace del mondo, che insieme agli altri il valore dell’individuo aumenta la sua potenzialità. Poi ci sono fior di studiosi che analizzano i nostri comportamenti per mettere nero su bianco il nostro ruolo: il gregario, il leader, il suo braccio destro, il parassita, il bastian contrario. Così è nella scuola, così nel mondo del lavoro. Avete presente il team building? Le imprese che spendono milioni di lire in attività e iniziative per stringere i legami tra i colleghi in modo che dalle trame dell’identità aziendale non esca nemmeno un fidelino? I manager compongono squadre perché da soli la produttività va a rilento, non c’è un back-up di ruolo in caso di malattia, in tanti si aumentano esponenzialmente i profitti, in un certo senso ci si controlla a vicenda a tutto vantaggio del business eccetera eccetera.

Ecco, sappiate che a me non piace lavorare con altre persone. Preferisco lavorare da solo, sbrigarmi le cose da solo, arrivare alla conclusione che ho pensato io senza avere qualcuno che mi suggerisce delle varianti che possono snaturare la mia idea. E se lavoro da solo l’ambiente di lavoro posso allestirmelo su misura, come voglio io. E allora, come ambiente di lavoro, scelgo la mia nuova tuta, quella che ho acquistato ai saldi pagandola una sciocchezza, che è così comoda che adesso non ho più voglia di uscire di casa.