quando è in gioco il futuro

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Sostenere colloqui non è un’attività che mi faccia impazzire. Nel senso di tenere il coltello dalla parte del manico, ovvero selezionare personale, scremare le papabili risorse umane per l’agenzia in cui lavoro. I motivi sono molteplici e anche facilmente intuibili. Intanto non è il mio mestiere, non ho studiato per analizzare profili e sintetizzare risultati conto terzi su personalità che potrebbero anche rivelarsi controproducenti verso il mio lavoro, una responsabilità che preferisco non accollarmi. Voglio dire, il mio metro di giudizio sul prossimo è personalissimo, non riesco a rappresentare il pensiero di una collettività come questa in cui le metriche e le variabili che applico nella scelta delle relazioni interpersonali da mantenere, o un banale tu mi sei simpatico e tu no, non hanno il valore oggettivo, determinante e utile allo scopo. Penso che ci siano caratteristiche che vanno oltre l’impatto a pelle che porti a casa da un incontro, no?

In seconda istanza, mi sento in imbarazzo, qui i criteri selettivi hanno alla base il “basta che costa poco”, congiuntivo mancato incluso, vige l’imperativo di lesinare proprio sull’aspetto più importante di una organizzazione impegnata esclusivamente nello svolgimento di un lavoro fatto con la testa, con la fantasia, con la precisione e il metodo, intendo il personale più adatto. Non invidio chi deve prendere una decisione così importante con così pochi elementi e in così poco tempo, comunque accorgersi di aver sbagliato profilo dopo un periodo di prova più o meno lungo può essere frustrante per tutti, a meno di non identificare subito lacune vistose sul lato esecutivo e pratico, quelle le noti in poco tempo e ti consentono un arrivederci e grazie anche nel giro di una giornata.

Ma per alcune mansioni, quelle creative, per esempio, è oltremodo complesso. E mi imbarazza anche il fatto di dover proporre stage, so che là fuori c’è la fila di ragazzi disposti anche a questo tipo di abnegazione, ma non ho i peli sullo stomaco sufficientemente folti e lunghi da mettere sui piatti della bilancia curriculum di studi e di esperienza, investimenti e sacrifici pagati con il lavoro dei genitori, aspettative e sogni da una parte versus un contratto di parcheggio durante il quale il prescelto non imparerà nulla di più di quello che sa, se non come lavorare in questa realtà che, come ogni azienda, è diversa dalle altre e quindi, quando lo stage finirà, dovrà ricominciare da capo in una nuova organizzazione con altre procedure, altre dinamiche, altri colleghi e, speriamo, altri trattamenti economici. Quando noto un eccessivo squilibrio tra la posizione ricercata e la persona che ho di fronte, cerco di mettere al corrente della situazione, sai ti troveresti a fare bassa manovalanza pagato male per poi non ottenere nulla, non mi sembra il caso.

E poi, indipendentemente dalla posizione ricercata, mi viene da fare domande che con il lavoro non c’entrano nulla. Ma mi immagino il trascorrere insieme tante ore al giorno per ogni giorno, la seconda vita che si vive parallelamente alla prima qui in ufficio, penso sempre che sia bello lavorare con persone con cui si va d’accordo. Che libri leggi, quali sono i tuoi registi preferiti, che musica ascolti, quali sono i tuoi interessi. Insomma, se devi lavorare con le parole, digitali o no, è importante comunque avere qualche punto di riferimento. E solo dopo aver sentito le risposte mi rendo conto di quanto sia inutile cercare se stessi negli altri, capisco che è sempre più nutrita la schiera di quelli più giovani di me e più giovani tout court, è un processo incontrovertibile, scambiare qualche battuta sullo scrittore in comune probabilmente non è così importante. Non lo è nemmeno sapere che tra le passioni di un candidato c’è giocare con la PS, anche se l’immediata associazione è con i compagni di classe di mia figlia, terza elementare, chiusi nella cameretta a sfogarsi sui videogame, sudati, nemmeno una pausa per un bicchiere di succo o un morso al pane con la nutella. A quel punto il colloquio è finito, cambio canale perché l’empatia si interrompe così, fine delle trasmissioni, grazie ti facciamo sapere. Game over.

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