la casa vuota

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Lorenzo è affetto da ipoacusia e, se ci aggiungete che in casa parla solo cinese, i momenti di confronto in classe si riducono all’osso. Se non fosse che è mostruosamente intelligente ci sarebbe da mettersi le mani nei capelli. Con i numeri e la matematica è fortissimo perché non ci sono lingue da decodificare, assimilare e riprodurre. Un numero è un numero e basta, una quantità che ha un simbolo. Anzi, un simbolo che è una quantità, senza significanti e significati e tutti gli orpelli della comunicazione verbale che sì, sono importanti ma per un bambino di sette anni hanno solo il sapore di uno sciroppo disgustoso. Mentre il calcolo e tutto ciò che gravita intorno è una confort zone da cui Lorenzo – al momento – non sente nessuna esigenza di uscire, in tutti i sensi. Quando rientriamo dalla mensa afferra il suo quaderno dei disegni dallo zaino su cui si staglia inconfondibile il suo nome e inizia a ergere altissime torri con matita e righello che riempie presto di numeri, lasciando il più alto sempre a svettare sul tetto come una di quelle insegne che danno il nome ai grattacieli. E non appena richiamo la classe per avvisarli di prepararsi per la sortita in giardino per l’intervallo lungo si arrabbia tantissimo perché non gli importa di entrare in relazione con nessuno che non sia la matematica. Vorrebbe solo rimanere lì, al suo banco, nel suo mondo dove non ci sono parole da scambiare e da comprendere. E non trapela un briciolo di frustrazione, almeno al momento.

Così, mentre il resto della classe corre all’impazzata, perlustra il sottosuolo alla ricerca di vermi o sperimenta nuove forme di relazione destrutturata, Lorenzo non mi molla un attimo. Il suo passatempo preferito è mettersi dietro di me e giocare a sparire dal mio campo visivo, un espediente che mi riporta alla mente quel bellissimo film di Kim Ki-duk. Solo che a scuola non siamo al cinema e Lorenzo non è Tae-suk, anche se – proprio come il protagonista di “Ferro 3 – la casa vuota” – a stento proferisce una parola. Il fatto è che è difficile che un bambino sia in grado di esercitare con così grande perizia la tecnica di illusionismo che ti fa sembrare invisibile sfruttando i punti morti di quello che percepiamo con gli occhi. E poi non solo lo vedo nell’ombra che si mette alle mie spalle, ma è lui il primo a farmi notare la sua presenza muovendo il cappuccio del mio piumino 100 grammi. Quello è il segnale: Lorenzo vuole giocare con me. Io cammino e lui mi segue. Mi sposto di lato e lui fa lo stesso. Accelero il passo e cerca di starmi dietro. Poi all’improvviso salto e ruoto di 180 gradi e a quel punto Lorenzo urla dallo spavento – ma immagino che faccia finta di spaventarsi – e sono io a inseguire lui.

Il problema è che fa così per tutta l’ora che trascorriamo fuori. Dopo un po’ cerco di distrarlo, gli chiedo di aiutare Simone che ha perso il portachiavi con lo stormtrooper, gli dico di unirsi ai bambini che stanno pasticciando il muretto con le pietre colorate raccolte in terra, provo ad accendergli la curiosità sulle bacche che stanno raccogliendo gli altri. Lorenzo valuta se la cosa può interessargli, ma tempo un minuto me lo ritrovo ancora alle spalle con le sue espressioni a mandorla da personaggio dei cartoon orientali. Comunque preferisco di gran lunga questa relazione motoria rispetto alle interazioni che abbiamo in classe, quando alza la mano per dirmi cose che hanno a che fare con in numeri. La data del suo compleanno, il risultato della moltiplicazione di due numeri con le cifre che si somigliano, quanti giorni mancano alla fine dell’anno. Ogni volta che c’è un numero collegato con un aspetto della sua vita non resiste all’impulso di condividerlo con me. D’altronde sono il suo insegnante di matematica e qualcuno deve avergli detto di trovare un punto di riferimento in quel guazzabuglio di marmocchi. Spero di non deluderlo.

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