l’angolo dei sapori e i viaggi dei desideri

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Il tratto finale della strada provinciale che percorro per andare a scuola è uno dei punti più brutti della periferia milanese. L’aspetto paradossale è che taglia a metà un paesino in cui ha sede uno dei più rinomati ristoranti del mondo, gestito da uno di quegli chef di cui l’Italia si fa bella nei momenti in cui occorre ricucire l’orgoglio nazionale ferito, uno di quelli che costano giustamente un botto e che cerchi di prenotare mesi prima per un anniversario importante, sapendo che sarà l’unica volta nella vita in cui ci andrai. Sarà per questo che è facile scorgere nelle vicinanze le insegne di altri locali dedicati alla gastronomia dai nomi altisonanti e in soluzioni architettoniche oltremodo discutibili, come se il resto del territorio volesse raccogliere le briciole di cotanta ricchezza. Capisco che, se non ci fosse nemmeno tutto questo indotto, la gente del posto si suiciderebbe e certi bambini, a scuola, risulterebbero ancora più deprivati di come sono ora. Eppure il contrasto va venire la pelle d’oca. Poco più avanti c’è una rotonda con un parcheggio su cui si affaccia “un caffè che si chiama desiderio”, una tavola calda frequentata dagli epigoni locali di Vivien Leigh e Marlon Brando. A vedere la scritta nei giorni come oggi, con un po’ di nebbiolina e il cielo grigio milano delle peggiori occasioni, vengono persino da fuori. Mettono le quattro frecce e scattano una foto da condividere sui loro profili social, come a fornire la prova al mondo che di cose così tristi ce ne sono davvero poche. Mi auguro che il caffè sia almeno buono.

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