fratello, dove sei?

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Sono fermamente convinto, e sono pronto a essere smentito, che ci siano mestieri tipicamente italiani, professioni che magari sono svolte ovunque nel mondo ma che qui da noi hanno acquistato una accezione diversa e tipicamente in linea con il nostro stile di vita. E non me ne vogliano i rappresentanti di questi settori che leggono qui, non ce l’ho con voi. La colpa è della vostra clientela, voi dovete campare, noi vi paghiamo e il cerchio si chiude. E non mi riferisco solamente ai notai, interpellati a stilare atti che altrove necessitano solo una semplice delibera da parte di personale amministrativo chiamato a registrare transazioni immobiliari, per esempio. O i commercialisti, il cui operato può essere scambiato per una consulenza sulle modalità a cui il contribuente ha diritto per a pagare il minimo legale dei tributi dovuti anche laddove quel diritto è più borderline, a fianco del semplice (per modo di dire) calcolo della contabilità. Così come in Italia vige l’abitudine di scagliarsi addosso avvocati come se fosse la metodologia standard di interrelazione tra essere umani in disaccordo. Una vita trascorsa sul filo del rasoio tra ciò che ci è lecito e ciò che può essere usato contro di noi o contro il prossimo, un sistema di confronto che non procede se non garantito dalla tutela di un esperto e titolato di giurisprudenza. Anche qui, loro, gli avvocati, non sono colpevoli della nostra litigiosità e della nostra coda di paglia, dalla crescente paura di essere raggirati dalla legge. Per strada non sento altro che persone che, al telefono, si confrontano con il loro legale, incitano a minacciare, a mentire, o a trovare escamotage per farla franca. E magari loro, da quel popò di studi associati in cui sono riusciti a portare a termine i sudati anni di pranticantato, vorrebbero occuparsi di cose più stimolanti di querelle (e querele) da quattro soldi, beghe condominiali, crediti irrisolti o debitori che fanno gli gnorri. Addirittura fratelli che sono costretti a difendersi da sorelle rivolgendosi agli avvocati, parenti che si citano di fronte al giudice senza nemmeno aver tentato prima una riconciliazione verbale, un confronto a quattrocchi. Una telefonata di scuse. Niente. Non vorrei mai trovarmi in una situazione così. Già. E non la auguro a nessuno.

per un pelo

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Due ragazzi, due ragazzi maschi, salgono sulla metro, si siedono poco distante da me esausti come dopo una corsa, probabilmente hanno preso il treno per un pelo, si prendono per mano e si danno un bacio. Il tizio di fronte a me, che era appisolato, si sveglia nello stesso istante, li vede e dice più a se stesso che agli altri, con forte accento meridionale “‘sti ricchioni”. Uno vicino a me lo sente, si volta verso di me ed esclama “‘sti terroni”. La signora in piedi, che ha seguito tutto la scena, ancora si rivolge a me e, con l’intento di apostrofare entrambi i protagonisti del botta e risposta, esclama “‘sti cretini”. Ne è seguito qualche secondo di silenzio, in cui tutti hanno guardato tutti, ognuno aspettava la mossa seguente dell’avversario. Io mi sono lanciato fuori dall’esplosione imminente, per fortuna la fermata dopo era la mia.

elementare, watson

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La maestra preferita da mia figlia e da quasi tutti i suoi compagni di classe, quest’anno non c’è più. La maestra Claudia è una precaria e proviene da un paese della provincia di Siracusa, da dieci anni le vengono assegnati incarichi stagionali in scuole primarie della zona, gli ultimi tre nell’istituto frequentato da mia figlia; il che significa, come sappiamo, due mesi senza stipendio, un disagio che si aggiunge al fatto che è sposata e suo marito, dipendente pubblico, non può trasferirsi con lei al nord. Il loro ménage consiste nell’incontrarsi un weekend al mese e aspettare ponti e ferie estive. Ogni progetto famigliare, un figlio per esempio, sono demandati a un non ancora ben definito futuro. Nonostante ciò, anno dopo anno la maestra Claudia ha continuato a sperare di essere confermata nella stessa scuola e con lo stesso incarico, un mix di serietà professionale e di affetto per la classe (genitori compresi) in cui era così benvoluta. In prima era l’insegnante dedicata all’area logico-matematico-scientifica e di inglese, e già all’inizio della seconda avevamo temuto il peggio, perdendo poi alla fine solo inglese e informatica. Ma quest’estate c’era nell’aria una ventata di ottimismo: la maestra Claudia, forte di un punteggio molto alto, sarebbe riuscita a rientrare nel numero delle insegnanti passate di ruolo. È facile quindi immaginare il nostro e il suo disappunto quando la chiamata degli incarichi si è fermata ben prima del numero annunciato, e poco sopra la sua posizione. Una lotteria della sfortuna, per non essere volgari. Va beh, non importa, mi farò ancora un anno da precaria e speriamo per il prossimo, l’importante è rimanere con le mie classi, ci ha detto. Ma non è stato così. Una maestra nominata fresca fresca di ruolo, buon per lei, è stata assegnata alla nostra scuola, ha potuto scegliere tra i posti vacanti e ha deciso per la cattedra scoperta già della maestra Claudia. Le nostre lamentele alla preside sono state più che sterili, il punteggio maggiore consente il diritto di prelazione sull’incarico. Alla maestra Claudia è stato concesso di sceglierne uno tra quelli rimasti scoperti, e mia figlia e i suoi compagni non hanno più la loro maestra preferita. La nuova maestra dedicata all’area logico-matematico-scientifica è la settima insegnante di mia figlia e i suoi compagni. La settima in poco più di diciotto mesi, e siamo solo al primo giorno di terza. Ah, bella fortuna il maestro unico.

il momento del bis

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Ho letto con enorme interesse la porzione di intervista di Fabio De Luca a Simon Reynolds in occasione dell’uscita in Italia di Retromania, un saggio in cui il musicologo inglese approfondisce il tema dell’ingombrante peso del passato prossimo musicale sulle tendenze contemporanee e sulla produzione stessa, tanto da impedire, ora come non mai, l’affermazione di novità realmente tali, al netto di commenti del tipo le note sono dodici, è impossibile creare qualcosa di nuovo dal nulla eccetera. In particolare, ma tenete conto che non ho ancora letto il libro e mi riferisco solo all’articolo presente qui, Reynolds riassume nell’interrogativo “cosa succederà quando saremo a corto di passato” un tema che è fondamentale nell’interpretazione del presente musicale, e consente agli anziani come me di bullarsi con i ragazzetti che si riempiono la bocca di gruppi che hanno conosciuto di sponda e di rimando, con i quali (gruppi, ma a volte anche ragazzetti) a volte mi chiedo se sia il caso persino di perdere tempo.

L’impressione che ho io è che i (pochi) rappresentanti delle ultimissime generazioni di musicisti, diciamo a partire dal nuovo e attuale secolo, abbiano trovato un sistema già saturo di ispirazione artistica e si siano mossi come se l’unica via per andare oltre fosse prendere l’ispirazione musicale e il prodotto di questa ispirazione più vicino all’estetica e al gusto del momento e ri-suonarla in modo fintamente filologico, perché il modo in cui era suonata e registrata allora era oggettivamente inadeguato. Provate a mettere uno dopo l’altro, per esempio, due brani abbastanza simili come matrice, come ritmica, come timbro, e lasciate perdere per un attimo tutti i risvolti emotivi che vi legano differentemente a un brano del passato come Transmission dei Joy Division e a un epigono di qualche stagione indiepop fa come Munich degli Editors. Oppure mantenendovi scevri da ogni giudizio, immaginate la stessa Transmission suonata direttamente dagli Editors, con una sezione ritmica moderna e un bilanciamento della stessa in fase di missaggio in linea con le sonorità attuali e con la tipologia di impianti di riproduzione audio che, nel frattempo, si sono evoluti. Ecco, il meglio dell’ispirazione con il meglio della tecnica musicale e audio. Lo stesso discorso può essere fatto per altri generi musicali. I batteristi oggi suonano come i campionatori che negli anni 80 e 90 hanno rubato i pattern e i passaggi di batteria dai dischi funky dei decenni precedenti, imparando a essere meno rumorosi e più lineari, meno piatti e più regolari nell’inserire o togliere elementi, fino a quel miracolo che è stato la drum’n’bass suonata da esseri umani (quanto mi piaceva). Ecco, in questo senso, secondo me, non si può parlare di nostalgia. Come dice Reynolds “nessuno guarda al passato con struggimento, né desidererebbe tornare indietro nel tempo”, perché è chiaro che nessuno vorrebbe avere a che fare con strumenti intrasportabili e cavi ronzanti. E Infatti secondo Reynolds esiste ancora un istinto esplorativo, ma che ha a che fare con la riscoperta. Siamo circondati da cacciatori del passato. Parallelamente il mercato spinge questi “retrogradi”, perché il pubblico appartiene alla stessa generazione e li richiede. Per non parlare dei nostalgici veri, quelli come me per intenderci, che per motivi anagrafici si ricordano bene di tutto e che non disdegnano le ultime produzioni.

E proprio perché ci ricordiamo tutto perfettamente, riteniamo fondamentale fornire un adeguato servizio di memoria storica a chi ne ha bisogno e a chi no, e ricordare che il background su cui questa forma di nostalgia poggia non è assolutamente un magma unico a cui attingere acriticamente, ma una base ben stratificata a settori, ciascuno con la propria delimitazione e importanza. Perché, lo sappiamo tutti, ci sono i settanta e i Settanta, gli ottanta e gli Ottanta. Siamo pronti a fornire consulenza musico-geologica a tutti gli archeo-artisti che vogliono sfondare. Fatevi sotto, prego.

il dodici settembre

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Povero dodici settembre, oramai è diventato il giorno più bistrattato dell’anno, non lo celebra nessuno pur essendo una data importante. Il dodici settembre è il decennale della scoperta di una grande energia, quella necessaria ad alimentare lo sforzo a ricostruire tutto da capo. Oggi ricorre l’alba che sorge sullo spettro della catastrofe, in un giorno in cui l’aria è ancora irrespirabile per il fumo nero del giorno prima, la luce naturale del sole che si accende e tenta di sopraffare le luci artificiali rimaste attive nella notte per non interrompere i soccorsi alle macerie delle Twin Towers. Un giorno in cui molti non si sono svegliati perché non sono andati proprio a dormire, impegnati a Ground Zero, o a casa a seguire la diretta di quello che stava succedendo, o proprio non c’erano più, di loro non rimaneva più nulla ed è facile immaginare il perché. Il dodici settembre non ha nessuna invidia per il suo fratello maggiore, così gli ricorda che non è l’unico. Sai, gli dice, non sei il solo a essere entrato nella storia. Per esempio, anche l’undici settembre del 73 c’erano aerei protagonisti in cielo, ma aerei militari che bombardavano la sede di uno stato sovrano, quello cileno, che stava per perdere la sua libertà e il suo rappresentante eletto democraticamente in favore di una sanguinaria dittatura militare.

E se ci sono molte ragioni per cui l’undici/nove di dieci anni fa ha superato in drammaticità tutti gli altri, non bisogna dimenticare il giorno successivo ai grandi eventi, il day after, e il dodici settembre lo è diventato per antonomasia. Perché il giorno dopo, a freddo, è ancora tutto più assurdo e ancora più presente e vivido del giorno prima. Buon dodici settembre a tutti, anche se apparentemente non c’è proprio nulla di cui rallegrarsi.

p.s. e, per cortesia, ora basta full immersion mediatiche in catastrofi in cui sono coinvolti voli di linea. Vorrei avere il coraggio di mettere ancora piede su un aereo, in futuro.

ingrana la terza

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Allora hai preparato tutto? Sicura? Fammi ricapitolare. Il diario l’abbiamo preso all’Auchan di Olbia, mentre aspettavamo l’imbarco per il ritorno dalla Sardegna. Cercavamo qualche prodotto tipico a buon prezzo e hai notato il diario di Snoopy che qualcuno aveva dimenicato fuori posto, abbiamo scoperto poi essere disponibile in più colori e l’hai scelto violetto. D’altronde non c’è fumetto più divertente dei Peanuts, e questo lo dici anche tu, poi Snoopy ha davvero una faccia simpatica, se una mattina in classe avrai un po’ di nostalgia potrai cercare conforto in lui. Magari fuori piove e sei triste, vedi Snoopy, ti ricordi dove abbiamo comprato il diario e lo colleghi alle albe sul mare che abbiamo visto in campeggio. Lo zaino va bene quello dell’anno scorso, ne abbiamo scelto uno grande apposta da durare almeno fino in quinta. Il compromesso era: sceglilo del colore che vuoi tu ma niente disegni e cartoni animati sopra. I grembiuli sono puliti e stirati nell’armadio, sono gli stessi dalla prima e anche ora che vai in terza la taglia è sempre quella. I compiti delle vacanze li abbiamo finiti tutti vero? Quest’anno mi sa che si inizia a studiare sul serio, dobbiamo fare più attenzione, se pensi che qualcosa sia difficile non ti devi preoccupare, ci siamo qui noi. Ricordiamo di legare i capelli, ci sono sempre le insidie in agguato, quelle che iniziano per “p” e che fanno rima con “occhi”, che poi dobbiamo fare i trattamenti e non ci passa più. Insomma, domattina suona la prima campanella e l’estate è definitivamente finita, ma non quella che abbiamo dentro, la bella stagione che ci piace trascorrere insieme anche in inverno, barricati in casa, a chiacchierare di cose sempre più difficili, nuove sfide emotive, almeno per me, perché ogni giorno sei un giorno più grande e ogni anno è avere una figlia sempre più compagna di vita.

l’acqua alla gola

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È la traduzione più o meno letterale dell’inglese “Dire Straits”, e mi serve solo a introdurre il senso di piacevolezza derivato dall’ascolto di “Making movies”, on air sul mio impianto stereo poco fa. Un gruppo, quello dei fratelli Knopfler, che non mi sono mai minimamente filato ai tempi, orbo e intollerante nei miei stereotipi culturali e pregno di estetica post-punk tanto da snobbare una musica così mainstream. Ma quel pugno di brani che probabilmente ascoltavo di nascosto da me stesso perché ricordo perfettamente, mi riferisco alle prime tre tracce del lato A che, oggettivamente un po’ di storia della musica l’hanno fatta, finalmente dopo il conseguimento della maggiore età (i cosiddetti -anta) e dell’abbattimento delle barriere dell’ignoranza, oggi mi rizzano i peli sulle braccia per l’emozione. Un sintomo della vecchiaia, lo so, quello di commuoversi per cose un tempo impensabili, se non derise. Ma è così, ed è una fortuna che i gusti, con gli anni, possano cambiare.

gli anelli più piccoli delle catene

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Il cratere artificiale scavato all’imbocco del paese ha svelato la sua natura. Nessun meteorite: si tratta di buco propedeutico alle fondamenta di un colossale piano terra posto sotto a un primo piano sormontato da un secondo, un’anima di cemento armato a cui è stato dato un corpo, un corpo che è stato vestito fino ad assumere le sembianze di un megamulticentro sportivo della catena Virgin. Millemila metri quadrati di fitness, palestre, piscine, spogliatoi, spazi comuni stanno per essere inaugurati a fianco di uno dei tanti non-luoghi dell’hinterland, un’area che già ospita l’immancabile Esselunga, il Decathlon, un Leroy-Merlin, con il contorno di concessionarie di automobili varie, tutti insieme appassionatamente lungo il perimetro di una rotonda ubicata in un incrocio strategico, a meno di un chilometro dal centro del paese.

Il megamulticentro sportivo Virgin sancirà probabilmente la fine della piscina con palestra nuova fiammante ubicata a cinque minuti a piedi da casa mia, nel parco, un complesso modernissimo costruito pochi anni fa e di proprietà, per il 51%, del comune, quindi anche mio. Un progetto nato tra mille polemiche e che è stato anche causa del fallimento dell’amministrazione di centrodestra precedente all’attuale, di centrosinistra, che ha dovuto risanare a fatica un buco economico non indifferente. Ma verrà colpita anche una seconda palestra privata, piuttosto frequentata, che difficilmente farà fronte al vantaggio competitivo della multinazionale del sudore benefico. E sono pronto a scommettere che anche molte società sportive amatoriali della zona vedranno diminuire i loro iscritti, magari quelli più allocchi attirati dalle insegne luminose di un paese dei bengodi dove, oltre ad allenarsi, potranno avere maggiori opportunità di vita sociale grazie a una formula che unisce sport a divertimento, l’ennesimo all inclusive in cui manca solo che ti lavino la maglietta e calzini sudati per farteli trovare pronti al successivo ingresso (cosa che peraltro succede altrove). In più, determinerà l’ennesimo cambiamento delle abitudini di vita dei miei concittadini, perché per recarsi al megamulticentro sportivo Virgin dovranno comunque utilizzare l’automobile, l’ubicazione seppur limitrofa è comunque raggiungibile quasi esclusivamente con una superstrada. Il percorso pedonale e ciclabile attraversa una strada provinciale molto trafficata. E poi, non dimentichiamo che non ci sarà certo problema di parcheggio.

Resta da chiedersi quale altra componente della nostra esistenza rimane disponibile per essere target di questa speculazione all’ingrosso. Dopo supermercati e centri commerciali che hanno cancellato, oltre al commercio al dettaglio, anche il piacere della spesa quotidiana, prassi soppiantata dai mega-acquisti settimanali nei ritagli di tempo del nostro orario di lavoro o, meglio, nel finesettimana. Dopo i megastore culturali, in cui trovi ovunque gli stessi libri e gli stessi cd e dei quali vuoi mettere la comodità di entrare con il carrello della spesa? Poi il bricolage e l’abbigliamento, insomma, cosa resta ancora da vendere? La scuola? Sorgeranno catene di mega-complessi privati dove iscrivere i nostri figli dagli otto mesi dell’asilo nido alla quinta superiore, spazi in cui c’è tutto, li accompagni la mattina e li ritiri prima di tornare a casa ma non hai remore perché sono seguiti da personal trainer e assistenti e comunque possono chiedere aiuto alla receptionist messa lì da qualche agenzia interinale? O il tempo libero: immagino spazi multipiano in erba sintetica dedicati ai finesettimana delle famigliole, ogni livello una fascia di età con giochi e passatempo adatti, un abbonamento mensile adulti a prezzo pieno e under dodici a prezzo ridotto, le famiglie si organizzano e un genitore accompagna anche i figli degli altri e sta lì, sulla panchina sotto il sole artificiale a curare gruppi di scalmanati che sfogano le smanie di caciara mentre dai finti lampioni si diffondono canzoni adatte al target? Oppure bocciofile e circoli per la terza età, qui gli sponsor non mancano, magari con la navetta che fa la raccolta di chi non può più utilizzare un mezzo proprio. Un posto sicuro in cui investire la pensione, e poi via in questi multiplex tra balere e giochi di carte, spazi per la socializzazione, gadget e promozioni ad hoc per uno dei gruppi di acquisto che, ad oggi, se la passa comunque ancora discretamente.

Ed è facile immaginare come sarà questo paesino tra dieci o venti anni, l’ennesimo quartiere dormitorio con tanti satelliti commerciali tematici intorno, dove le uniche infrastrutture attive presenti saranno sempre più solo i distributori di benzina.

l’erba della vicina è sempre più verde

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Spero di non dover mai lavorare alla creatività per un adv di un detergente intimo.

poveri ma

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Sono sempre stato uno un po’ trasandato, ma ora dovrei darmi una regolata, me lo impongono le regole della convivenza e la società in genere, poi mia figlia cresce e insomma, ho come l’impressione che le responsabilità aumentino, anche quella di non lasciare che i figli si vergognino di un genitore che non si prende sufficiente cura di sé. Diciamo che sono ai limiti dell’accettabile. Già ho gettato le giacche vintage e il parka dell’esercito della DDR prima di fare la spola davanti alla scuola materna, perché si cresce e per darmi un tono, però sul resto ho tergiversato e ora urge una riassestata. Ho un non-taglio di capelli, i sempre più pochi capelli che non ho mai voglia di pettinare, la mattina spesso restano dritti e se succede restano lì, non mi prendo il disturbo di fare qualcosa, convincerli a rimanere al loro posto. Poi ho la barba, sempre più bianca, e se non stai attento cresce e ti dà quell’aspetto del poco di buono, non è assolutamente vero che fai la figura dell’intellettuale, semmai del vagabondo. Per non parlare dei vestiti, sempre gli stessi, roba di qualità discutibile e scelta casualmente prima di uscire. E non è la questione di essere originali o scazzati ma con gusto. È proprio fottersene alla grande, in ufficio nessuno ci fa caso più di tanto, perché dovrei farmi problemi io.

Poi vedo in metro quelli che vanno al lavoro in giacca e cravatta e penso a come stanno bene, che bell’effetto che danno, mi piacerebbe essere come loro, quanto costerà un completo così, non penso che sia una questione di prezzo, beh ma dovrei averne più di uno perché poi se si sporca? E mi dico che sì, da domani mi sforzo nel darmi un contegno, magari vado anche dal barbiere, poi mi metto quello di più elegante che ho e una camicia. Sì ma dentro o fuori i pantaloni? E c’è quel momento prima dell’ultima rampa di scale per uscire in superficie alla fermata in cui passo davanti a un’infilata di specchi, cerco di non guardarmi ma poi una sbirciata me la do. Chi è quell’uomo di mezza età piuttosto dimesso con le cuffie blu elettrico sulle orecchie, la borsa a tracolla come i pischelli e la maglietta a righe? Che vergogna. Nemmeno un po’ business casual. Niente. Ma dura poco, di sicuro è uno stato d’animo che non arriva fino al mattino seguente, quando tutto si sussegue come il giorno prima, apro l’armadio e vedo il nulla, chiudo gli occhi e tiro su indumenti a caso.