il limite del centodieci

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C’è un volume che spicca tra i libri impilati sugli scaffali del mio salotto. Si nota perché è tutto blu, è più alto degli altri, ha la copertina rigida ed è rilegato in pelle, e ha un titolo che risalta perché stampato in color oro. Potrebbe essere scambiato per un raccoglitore di francobolli, o un atlante di cui è andata perduta la sovracopertina. Ma colpisce il fatto che l’autore è, curiosamente, un mio omonimo. Per ovvi motivi logistici è posizionato a fianco di un altro volume che ha la stessa altezza, questo color verde, ma che ha le stesse caratteristiche del libro vicino e che, curiosamente, è stato scritto da un’autrice che ha lo stesso nome e cognome di mia moglie.

Il primo, quello blu, ha un titolo sufficientemente ostico da essere lasciato lì a prendere polvere. A chi interesserebbe saperne di più su “L’episodio di Ifi delle Metamorfosi di Ovidio”? A chi verrebbe voglia di approfondire la tematica del transgenderism nella letteratura latina partendo da uno dei racconti di trasformazione sessuale presenti negli scritti ovidiani? A nessuno, tantomeno a me. Infatti, quando mi capita l’occhio su quello scaffale, che è quello più in alto, quello dei libri inutili che prima o poi finiranno nella raccolta differenziata, mi sorprendo sempre e mi chiedo quando diamine ho acquistato quel libro lì, io che non ne compro mai perché sono un entusiasta fruitore delle biblioteche e del consorzio intercomunale che dalle mie parti ti consente, in pochi giorni, di avere tutte le novità degli autori americani contemporanei e postmoderni che vuoi. E mi viene raramente l’istinto di salire su una sedia ed estrarlo da quella fila per vedere di cosa tratta, qual è la trama, i personaggi, chi è l’assassino e come finisce.

Scherzo, so che non si tratta di un romanzo. Centinaia di pagine con lettering e font di altri tempi, deve essere stato redatto in Wordstar e stampato con chissà quale computer, in un modo in cui solo quel tipo di libri lì venivano realizzati. Centinaia di pagine sono tante, e non riesco a capire davvero come abbia potuto, questo autore che si chiama come me, mettere insieme così tante informazioni, dove l’abbia prese, quando e come le abbia studiate. Per lo meno il suo libro gemello, anzi consorte a fianco, parla di povertà e di stato sociale, probabilmente appartiene a una disciplina più moderna e senza dubbio più utile, tanto che ci scommetto che l’autrice, che si chiama come mia moglie, è un’esperta di scienze politiche ed esercita una professione manageriale in qualche organizzazione pubblica del settore.

Ma questo scrittore qui, che ha voluto fare il figo e trovare l’introvabile in un autore di una civiltà remota che ha scritto roba più strampalata della fantascienza in una lingua morta e sepolta, ci gioco la testa che del suo latinorum non se n’è fatto nulla, coronamento di un’inutile laurea in scienze inutili (come correttamente le definisce Leonardo) e in materie all’epoca completamente slegate dall’allora nascente scienza della comunicazione. Farà qualche lavoro di quelli che si usano oggi con il nome in inglese, cercando pretesti qui e là per far vedere che ancora, di tutti quegli esami di latino, qualcosa si ricorda, usando alla prima occasione qualche citazione o qualche aforisma che chiunque, con Google, è in grado di a tradurre a tempo record e altrettanto velocemente a dimenticarsene al successivo nuovo messaggio di Outlook in arrivo.

servo muto

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Quello che mi pesa di più del mio lavoro è che si parla poco. Mi pesa perché ormai, dopo oltre quindici anni di attività, ho smarrito una delle mie qualità grazie alle quali, giusto per tirarmela un po’, me la sono cavata piuttosto bene alla maturità e, soprattutto, all’università. Ma anche dopo, quando dovevo convincere qualcuno di qualcosa. Avevo pure una buona dialettica, motivavo e dimostravo, raccontavo a voce senza sforzo, chiacchieravo anche fin troppo, me la cavavo piuttosto bene di fronte a tante persone, mi è capitato di tenere corsi anni fa e, insomma, non è andata poi così male. Ma la facondia, che per certi versi è un dono, non è solo un’arte, è anche una disciplina che va coltivata, nutrita e, soprattutto, esercitata.

Così da quando ho acceso il mio primo strumento di lavoro, che è stato un Mac, da allora la parabola è iniziata a decrescere. E all’inizio facevo fatica a tenere la bocca chiusa, cercavo di chiedere, chiacchieravo al limite del disturbo, ma vedevo che i colleghi senior, gente che veniva dai dueottosei e già chini sui terminali mentre io cercavo di realizzare i miei sogni facendo il musicista, a malapena tolleravano le distrazioni dai loro monitor a 256 colori.

Così per sopravvivenza mi sono adattato, è stato un processo naturale quello di iniziare a relazionarsi solo con il proprio elaboratore. C’erano le pause sigaretta, i caffè, il pranzo, qualche battuta, ma ormai avevo imboccato anche io la strada della granularizzazione totale, che è poi anche la morte sua del lavoro postfordista, ognun per sé e si fotta l’unione dei lavoratori, tanto c’è il pc e i colleghi si fanno tendenzialmente gli affari propri. E mi accorgevo che, pur leggendo come un forsennato, tenere i pensieri in gola per otto ore alla fine arrugginiva quel meraviglioso impianto di diffusione audio di cui l’individuo è dotato.

Ma se fai il programmatore, a parte chiedere quando hai bisogno, non serve scambiare battute con il dirimpettaio, anzi ti distrai e perdi il segno e devi rifare il flusso tutto da capo. Il grafico si blinda in cuffia e vola nel suo mondo della Suite Adobe, e ci si vede a fine progetto, ognuno con i suoi pezzi, chi ha scritto le parole, chi ha disegnato l’interfaccia, chi ha costruito il motore, si assembra il tutto, sempre sul computer, e poi bon. Per non parlare poi dell’avvento dei socialcosi, insomma avete capito dove voglio andare a parare, è comodo comunicare scrivendo perché rileggi tutto, cancelli i refusi (se li vedi), metti due faccine e schiacci enter.

Ed eccoci qui, soli con il ronzio del condizionatore, a scrivere testi e idee e progetti giorno dopo giorno nel silenzio assoluto, le dita su tastiere sempre meno rumorose, i più audaci le cuffie isolanti da cui non trapela nulla, non esistono quasi più nemmeno le stampanti con il loro rumore da telefilm di fantascienza. Alla riunione aspetti il report finale, se ci sono domande fai un reply to all, ogni tanto qualche squillo del telefono o la vibrazione di un cellulare di vecchia generazione, addirittura si percepisce lo sciacquone di chi è in bagno.

E se per caso devi parlare, la voce esce dopo un eh ehm di rito, la sensazione è quella di far passare un mobile ingombrante da una porta troppo piccola, provi a girarlo e rigirarlo ma non c’è verso, devi fare forza fino a quando esce tutto malconcio. Già, perché le cose in testa ci sono, magari un po’ impolverate, metti in ordine i sostantivi, il lessico fortunatamente aumenta giorno dopo giorno, libro dopo libro. Ma le casse gracchiano, forse i cavi non sono collegati correttamente, subentra l’imbarazzo, persino un po’ di rossore sulle guance, l’interlocutore che ti scruta perché ha fretta di sapere, ecco mannaggia quel dato da dire ha lasciato posto al panico da prestazione, la consecutio va in tilt come un qualsiasi programma che necessita di troppa memoria quindi meglio non usarla, tanto se devi dare risposte brevi e mirate chi nota se il congiuntivo è presente o passato. È passato? Mah. Poi ripiomba il nulla. Ciao, a domani, buona serata. Questo almeno è facile da dire.

saluti dalla nicchia

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Quella sera d’estate di sette anni fa, quando i The National avevano suonato per pochi intimi in spiaggia all’Hana-Bi di Marina di Ravenna, sembra lontana anni luce. Ora i paragoni si scomodano e loro stessi ci scherzano su. “Sembra l’inizio di “Pride” ma nel tono sbagliato”, ha detto sorridendo Matt Berninger a Ferrara, riferendosi all’attacco strumentale di “Sorrow”. Ma è un bene che non sia così.

E non è così, perché si riferiva all’inizio di “Where the streets have no name”, lo si capisce anche da qui, se vogliamo fare i fighi almeno facciamolo con le citazioni corrette. Ecco perché tutti noi preferiremmo che i The National rimanessero ancora un “piccolo segreto da scovare” e che nessuno, tranne il sottoscritto naturalmente, scrivesse recensioni dei loro concerti.

tirare diritto

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“Ragazzi, che ne dite di una partita a cricket?”. Mi guardano come se fossi un testimone di Geova che si presenta conti il suo completo dell’Oviesse sulla porta mentre si brucia l’arrosto e contemporaneamente squilla il telefono e tua figlia ti chiama perché Windows è crashato. Non vedono infatti come io possa risolvere la situazione e vorrebbero che mi allontanassi da lì, per non creare ulteriori problemi. Da mezz’ora siedono ai lati del campo di basket che è occupato da una dozzina di ragazzotti a torso nudo impegnati nella quotidiana partitella a calcetto. Già, che orrore, calcetto nel campo di basket, per di più sono lì da chissà quanto. Ma i tre ragazzini pakistani non se la sentono di chiedere di subentrare, perché quei ragazzotti prolungano apposta la loro presenza in modo provocatorio, si vede perché giocano con la sigaretta accesa in bocca mentre le loro spasimanti ocheggiano ai bordi del campo plaudendo a Tizio e Caio.

I tre pakistani li vedo spesso allenarsi nel loro sport nazionale. Non ho idea di quali siano le regole, ma loro si mettono in due da un lato, uno dietro l’altro, posizionati come un catcher e un battitore di baseball, per intenderci. Il terzo, a turno, va dall’altra parte del campo e lancia una palla. E se prima usavano una scadente racchetta da tennis al posto del bastone regolamentare, ora noto finalmente una mazza nuova fiammante, forse è anche per quello che li vedo impazienti di provarla. Approfittano del campo vuoto al termine del pomeriggio, quando i bambini rientrano con le mamme a casa e i gruppi di ragazzini che trascorrono i pomeriggi in attesa della nuova stagione scolastica giocando a pallacanestro o pallavolo tornano per la cena.

Ma questi, che son più grandicelli degli altri, hanno capito l’antifona, e per farsi belli con le loro amichette hanno deciso di puntare sul bullismo razzista. I pakistani che vadano a giocare a cricket a casa loro. Quindi i tre se ne guardano bene da sollecitare il loro diritto a usufruire delle strutture pubbliche, non vogliono creare problemi e rischiare la rissa, ovviamente.

Così, ecco un nuovo lavoro per Superman. Quando mi offro di aiutarli, mi guardano sbigottiti. Per fortuna porto sempre con me la mia tuta da azione, vado a cambiarmi velocemente negli spogliatoi della società di ciclismo amatoriale che ha la sede proprio lì a fianco, e torno sul posto tutto vestito nel mio completo aderente che mi ha reso celebre in ogni parte del mondo. Tanto che anche i ragazzi pakistani riconoscono la esse rossa sul mio muscoloso torace, e il loro umore balza alle stelle. “Forza ragazzi, è il nostro turno”. Immediatamente gli arroganti bulletti di quartiere raccolgono i loro stracci sudati e si allontanano da lì, derisi dalle ragazze che, come è la prassi, sono invece incantate dalle mie reiterate gesta di giustiziere universale e passano dalla parte dei buoni. “Tornate pure dalle vostre mamme”, dico loro, “ora tocca a noi”. Il più intraprendente dei tre pakistani sorride e mi porge la mazza di cricket in segno di riconoscenza: il primo turno da battitore è mio.

lo sciocco e il suo denaro

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Ho notato, sai, che hai notato che ti ho notato, cara copertina di “Kind of blue” che fai capolino dalla vetrina dell’edicola qui sotto, edizione in vinile 180 grammi a sette euro e novanta, prima uscita di una collana di ristampe dedicata al jazz che già so sarà causa di discussioni con mia moglie per tutta la durata dell’iniziativa De Agostini. Perché proprio lì sul sito ho visto poi qualche anticipazione sulle prossime, Blue train e Time out, per esempio, roba che ho già originale su CD ma che diamine mi ha scatenato una salivazione che non avevo dai tempi della scoperta di Amazon e del mercato di 33 giri nuovi che sui siti di e-commerce musicale sta rifiorendo. Ti sono passato davanti gà quattro volte, una ieri, quando è scattato il colpo di fulmine e tre oggi, tu eri lì con Miles e la sua tromba appoggiata sulle labbra, scommetto pronto a partire con il solo di So What, vero? E so come andrà a finire, perché la prima uscita a metà prezzo sarà mia la prossima volta che passerò di lì, cioè tra poche ore, ma le successive a quindici euro l’una? Come si fa a lasciare indietro uno solo di voi, agognati vinili di jazz, che vi vorrei avere tutti impilati nella libreria e pronti a girare sotto la puntina nelle fredde serate dell’imminente inverno milanese? So che non vedete l’ora di trasferirvi tutti a casa mia, cari. Farò il possibile.

scemo chi legge

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Ogni giorno c’è qualcosa di nuovo che spopola sul web, un video che sfonda, una foto che fa il giro dei blog e dei siti di informazione, lo strafalcione più cliccato, la gag involontaria ripresa per caso, la rissa, il filmato che fa scompisciare grandi e piccini, travet e manager, intellettuali e non. E anche le testate che dovrebbero essere le più autorevoli, o almeno le più affidabili, le più serie, hanno il tormentone del momento in pole position nella colonnina infame delle stronzate, tra uno scorcio di tette, un bacio saffico e l’abnormità faunistica più in voga, il coccodrillo gigantesco, il ragno campione del mondo, il polpo veggente, il figlio di dj Francesco. Nulla ci è risparmiato in questa rubrica trasversale che è l’Internet delle facezie, che mescolata in prima pagina a scioperi generali, mercati che collassano e maggioranze che implodono fa sembrare tutto un grande Circo Orfei virtuale, tutto quanto fa spettacolo, il bello della diretta. E presto, al posto dell’ormai desueto “visto in TV”, a fianco dei prodotti sulle riviste e negli spot comparirà il bollino “visto su Internet”. Hai visto su Internet? Figata, eh?

quando è in gioco il futuro

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Sostenere colloqui non è un’attività che mi faccia impazzire. Nel senso di tenere il coltello dalla parte del manico, ovvero selezionare personale, scremare le papabili risorse umane per l’agenzia in cui lavoro. I motivi sono molteplici e anche facilmente intuibili. Intanto non è il mio mestiere, non ho studiato per analizzare profili e sintetizzare risultati conto terzi su personalità che potrebbero anche rivelarsi controproducenti verso il mio lavoro, una responsabilità che preferisco non accollarmi. Voglio dire, il mio metro di giudizio sul prossimo è personalissimo, non riesco a rappresentare il pensiero di una collettività come questa in cui le metriche e le variabili che applico nella scelta delle relazioni interpersonali da mantenere, o un banale tu mi sei simpatico e tu no, non hanno il valore oggettivo, determinante e utile allo scopo. Penso che ci siano caratteristiche che vanno oltre l’impatto a pelle che porti a casa da un incontro, no?

In seconda istanza, mi sento in imbarazzo, qui i criteri selettivi hanno alla base il “basta che costa poco”, congiuntivo mancato incluso, vige l’imperativo di lesinare proprio sull’aspetto più importante di una organizzazione impegnata esclusivamente nello svolgimento di un lavoro fatto con la testa, con la fantasia, con la precisione e il metodo, intendo il personale più adatto. Non invidio chi deve prendere una decisione così importante con così pochi elementi e in così poco tempo, comunque accorgersi di aver sbagliato profilo dopo un periodo di prova più o meno lungo può essere frustrante per tutti, a meno di non identificare subito lacune vistose sul lato esecutivo e pratico, quelle le noti in poco tempo e ti consentono un arrivederci e grazie anche nel giro di una giornata.

Ma per alcune mansioni, quelle creative, per esempio, è oltremodo complesso. E mi imbarazza anche il fatto di dover proporre stage, so che là fuori c’è la fila di ragazzi disposti anche a questo tipo di abnegazione, ma non ho i peli sullo stomaco sufficientemente folti e lunghi da mettere sui piatti della bilancia curriculum di studi e di esperienza, investimenti e sacrifici pagati con il lavoro dei genitori, aspettative e sogni da una parte versus un contratto di parcheggio durante il quale il prescelto non imparerà nulla di più di quello che sa, se non come lavorare in questa realtà che, come ogni azienda, è diversa dalle altre e quindi, quando lo stage finirà, dovrà ricominciare da capo in una nuova organizzazione con altre procedure, altre dinamiche, altri colleghi e, speriamo, altri trattamenti economici. Quando noto un eccessivo squilibrio tra la posizione ricercata e la persona che ho di fronte, cerco di mettere al corrente della situazione, sai ti troveresti a fare bassa manovalanza pagato male per poi non ottenere nulla, non mi sembra il caso.

E poi, indipendentemente dalla posizione ricercata, mi viene da fare domande che con il lavoro non c’entrano nulla. Ma mi immagino il trascorrere insieme tante ore al giorno per ogni giorno, la seconda vita che si vive parallelamente alla prima qui in ufficio, penso sempre che sia bello lavorare con persone con cui si va d’accordo. Che libri leggi, quali sono i tuoi registi preferiti, che musica ascolti, quali sono i tuoi interessi. Insomma, se devi lavorare con le parole, digitali o no, è importante comunque avere qualche punto di riferimento. E solo dopo aver sentito le risposte mi rendo conto di quanto sia inutile cercare se stessi negli altri, capisco che è sempre più nutrita la schiera di quelli più giovani di me e più giovani tout court, è un processo incontrovertibile, scambiare qualche battuta sullo scrittore in comune probabilmente non è così importante. Non lo è nemmeno sapere che tra le passioni di un candidato c’è giocare con la PS, anche se l’immediata associazione è con i compagni di classe di mia figlia, terza elementare, chiusi nella cameretta a sfogarsi sui videogame, sudati, nemmeno una pausa per un bicchiere di succo o un morso al pane con la nutella. A quel punto il colloquio è finito, cambio canale perché l’empatia si interrompe così, fine delle trasmissioni, grazie ti facciamo sapere. Game over.

segni dell’antica fiamma

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Sinceramente non ricordo quando sia successo a me, ammesso che a me sia successo. Sta di fatto che qualche giorno fa, mentre eravamo a spasso freschi freschi di vacanza, mia figlia a sette anni e mezzo e quasi in terza elementare ha fatto un po’ di domande sull’amore, sui sentimenti e sulle relazioni al suo papà. A me. Ammetto che è dal giorno in cui ho scoperto il sesso della creatura che si stava sviluppando dentro mia moglie che aspetto con angoscia momenti come questo, un temibile elenco di incontri ineluttabili con il destino che comprende, in ordine cronologico, altre scadenze quali il primo ciclo mestruale o il suo primo appuntamento.

Ma verso questi ultimi due, sarà che mi sembrano ancora lontani, non nutro una particolare ansietà. Giuro. Nel primo caso si tratta di un passo dello sviluppo naturale, come lo svezzamento o i denti da latte che lasciano il posto a quelli da adulti. E per quanto riguarda il primo appuntamento, per ora, mi limito a un boh, cioè nel mio immaginario ci sono numerosi film americani in cui i padri guardano le figlie in attesa che il campanello suoni e che dicono loro che sono bellissime tanto da poter far girare la testa a chiunque, mi viene in mente per esempio Pretty in pink. Ecco, magari la fatidica sera schiatterò di gelosia ma mi sforzerò di comportarmi così, e, appena uscita, metterò su i Psychedelic Furs, mi attaccherò alla bottiglia di Cognac e piangerò sulla spalla di mia moglie, che più razionale di me mi consolerà mettendomi al corrente di tutte le informazioni che ha raccolto di nascosto sul (o sulla) mini-pretendente.

Invece, b-movie americani a parte, ammetto di non essere stato abbastanza pronto a sostenere una conversazione sull’amore proprio ora, cioè così presto, temo di non aver reagito con la acuta sagacia che ha contraddistinto fino ad ora il mio ruolo di padre (ehm). Ma forse non era ancora la volta decisiva, cioè si è trattato di una chiacchierata sui generis, volta a soddisfare la curiosità scaturita dalla sua ennesima lettura vacanziera. I termini con cui mia figlia ha presentato le sue argomentazioni sono rispettabilissimi ma ancora nella sfera un po’ caotica della prima infanzia. Dove cioè l’amore è quella cosa che i bimbi vedono nell’unione dei genitori (quando sono uniti, naturalmente) e che si alimenta da fonti aleatorie quali i cartoni animati, le porcherie della pubblicità e della tivù, le canzoni, i libri, i fumetti, le copertine delle riviste da grandi (e purtroppo da adulti) nelle edicole, i racconti dei propri fratelli/sorelle maggiori o dei fratelli/sorelle maggiori dei compagni di classe, i compagni di classe che mediano, anzi, distorcono tutto quanto, probabilmente la fonte più pericolosa.

Ogni bambino ha una sua innamorata, a quanto pare, e non tutti sono corrisposti, fortunatamente. Perché c’è Tizio che dice di amare tutte, ma solo in due ammettono di essere fidanzate con lui. Ci sono già le classiche catene, A che ama B ma B è innamorato di C che però ama D che vorrebbe stare con E a cui è antipatico A. Eh, bambina mia, c’est la vie. Ne vedrai di ogni. E le bambine che vogliono baciare altre bambine non necessariamente, cerco di spiegarle, hanno un orientamento omosessuale. Gli esseri umani si abbracciano e si baciano anche perché si vogliono bene, ci sono numerosi livelli di amicizia, l’amore è un’altra categoria, non necessariamente al culmine di intensità. E c’è Caio che dice di essere ossessionato, ama mia figlia dalla scuola materna. Tranquilli, tutto sotto controllo, so a chi si stia riferendo, sono mesi che non si vedono più, non c’è pericolo di un fidanzamento prematuro.

E poi, le dico, da qui alla terza media, età in cui più o meno avvampano le prime cotte serie, c’è tempo, chissà quanti bambini o ragazzini avrai conosciuto e avrai considerato simpatici. Ma a quel punto sono un po’ scosso, chissà se davvero sono stato esaustivo. La guardo, lei mi sorride e mi prende per mano. Papà, prima di salire in casa giochiamo un po’ a ping-pong? Whew, tiro un sospiro di sollievo, forse sono ancora ai primi posti della sua classifica. E ho ancora qualche mese di tempo per prepararmi meglio.

unhappy hour

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Oggi tutto sembra essere tornato alla normalità, dopo la pausa estiva. L’aria torna a essere irrespirabile, per esempio. Ora, di Milano tutto si può dire tranne che ci sia l’aria buona. Ma oltre il danno, la beffa è la fragranza e le sue sfumature che ogni giorno siamo tenuti a cogliere, tanto che in casa è quasi meglio tenersi l’atmosfera viziata dell’alba piuttosto che spalancare le finestre allo smog nelle sue varie essenze. Effluvi chimici all’inconfondibile flavour di letame misti ai gas di scarico, un mix la cui risultante stamattina non era nemmeno troppo spiacevole. Ricordava il Vernidas, la vernice protettiva con cui da bambini mettevamo fine alle nostre inconfondibili creazioni di plastilina alle elementari. Insomma, tutti si sono rimessi in moto, anzi in macchina, ed è un segno che inesorabilmente stiamo tagliando i ponti con l’estate. Ma qualcosa di diverso da prima c’è.

Uno dei numerosi bar dell’isolato, quello all’angolo, non ha riaperto dopo le ferie. Il cartello che informava della chiusura estiva è stato sostituito da un avviso della Polizia Tributaria, che ha messo i sigilli alle serrande e la cui rimozione viola la legge tanto quanto i gestori o i proprietari dell’esercizio pubblico che qualcosa, per essere soggetti a indagini, devono pur aver combinato. L’annuncio dei finanzieri spicca nella sua sobrietà sotto l’insegna colorata del suddetto bar, il cui nome in lingua spagnola richiama luoghi esotici, divertimento, tapas a volontà, quel matto di Pablo che balla sui tavoli e altri ameni luoghi comuni caraibici. Il palazzo, con quella saracinesca chiusa in uno scenario che ha ripreso la sua consueta vivacità feriale, sembra ora orbo da un occhio, ricorda un volto con una benda nera come Moshe Dayan, un corpo con una ferita ricucita male, una bocca tappata forzatamente.

Gli ex consumatori abituali del caffè prima di mettersi al lavoro e del cappuccino con brioche alla crema gonfiata nel microonde, ma anche gli sbevazzoni che, madidi di sudore dopo una giornata al pc, si alternavano in giri di aperitivi alcolici, si avvicendano nella lettura di quella sorta di necrologio, si chiedono cosa sarà mai successo, tutti i giornali parlano di lotta all’evasione, vuoi dire che hanno cominciato proprio da qui? Ma no, hai voglia a far entrare in vigore la manovra. E la vita continua, dai andiamo al bar più avanti, oggi tocca a me pagare, dice l’avvocato con i suoi assistenti, e via con il Giornale sottobraccio. Inizia una nuova stagione, ma la serranda resta giù a coprire le vergogne di scontrini mai battuti, camerieri mai messi in regola pronti a far finta di essere clienti in caso di controllo, occasioni di ristorazione perdute, di pause che ora chissà dove si consumeranno. Sì, è mio, no grazie, lo prendo senza zucchero.

genera mostri

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Anche se sto dormendo me ne accorgo, perché il giorno dopo ricordo quasi sempre tutto. Il ritmo della causa scatenante che aumenta, il desiderio di liberazione che matura, la preparazione del verso, una sorta di riscaldamento piuttosto agitato, quindi spalanco la bocca e il grido esce, con intensità variabile a seconda proprio della sequenza delle fasi, che funziona più o meno come quando lanci un elastico, che più lo carichi tirandolo verso di te e più lui vola in avanti. A quel punto il danno è fatto, e nel silenzio della notte riecheggia l’urlo o la parola con cui si sancisce il dominio della tensione dell’inconscio in azione sul conscio dormiente. Le cause scatenanti sono varie, dipendono da stress, stanchezza, quantità, qualità e pesantezza della cena. Ma anche un letto posizionato diversamente o il totale delle ore di sonno macinate, paradossalmente più dormo e maggiore è il rischio. Dietro c’è comunque sempre un incubo di varia natura: la casa di campagna dei nonni, isolata e desueta, l’uragano che vuole entrare dalla finestra, i nazisti che mi fucilano o mi puntano la rivoltella alla tempia e poi sparano, la sensazione di soffocamento mentre cerco di nascere dal corpo di mia mamma, e una più banale manifestazione di conoscenti morti che mi vengono a salutare nel sogno e che non mi lasciano mai nemmeno un pronostico per mettere al sicuro la mia vecchiaia, ma forse lì l’urlo è uno sbotto per l’occasione sprecata. Mia moglie a volte riesce ad accorgersi che sono lì lì per svegliare tutto il condominio, e cerca di farmi riprendere conoscenza in tempo. Ma spesso ce ne rendiamo conto a danno compiuto, ho gridato ancora nel sonno? Qualche secondo, mi giro dall’altra parte e riprendo a dormire. Mi alzo a bere un bicchiere d’acqua o a fare pipì. Accendo la luce e cerco di calmarmi. La mattina dopo ci scherziamo su, la pizza con le acciughe o i peperoni, sì, anche questa volta, devo ricordarmi di prendere qualcos’altro. Ma entrambi sappiamo benissimo che non è quello, per lo meno non è solo quello.