il momento del bis

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Ho letto con enorme interesse la porzione di intervista di Fabio De Luca a Simon Reynolds in occasione dell’uscita in Italia di Retromania, un saggio in cui il musicologo inglese approfondisce il tema dell’ingombrante peso del passato prossimo musicale sulle tendenze contemporanee e sulla produzione stessa, tanto da impedire, ora come non mai, l’affermazione di novità realmente tali, al netto di commenti del tipo le note sono dodici, è impossibile creare qualcosa di nuovo dal nulla eccetera. In particolare, ma tenete conto che non ho ancora letto il libro e mi riferisco solo all’articolo presente qui, Reynolds riassume nell’interrogativo “cosa succederà quando saremo a corto di passato” un tema che è fondamentale nell’interpretazione del presente musicale, e consente agli anziani come me di bullarsi con i ragazzetti che si riempiono la bocca di gruppi che hanno conosciuto di sponda e di rimando, con i quali (gruppi, ma a volte anche ragazzetti) a volte mi chiedo se sia il caso persino di perdere tempo.

L’impressione che ho io è che i (pochi) rappresentanti delle ultimissime generazioni di musicisti, diciamo a partire dal nuovo e attuale secolo, abbiano trovato un sistema già saturo di ispirazione artistica e si siano mossi come se l’unica via per andare oltre fosse prendere l’ispirazione musicale e il prodotto di questa ispirazione più vicino all’estetica e al gusto del momento e ri-suonarla in modo fintamente filologico, perché il modo in cui era suonata e registrata allora era oggettivamente inadeguato. Provate a mettere uno dopo l’altro, per esempio, due brani abbastanza simili come matrice, come ritmica, come timbro, e lasciate perdere per un attimo tutti i risvolti emotivi che vi legano differentemente a un brano del passato come Transmission dei Joy Division e a un epigono di qualche stagione indiepop fa come Munich degli Editors. Oppure mantenendovi scevri da ogni giudizio, immaginate la stessa Transmission suonata direttamente dagli Editors, con una sezione ritmica moderna e un bilanciamento della stessa in fase di missaggio in linea con le sonorità attuali e con la tipologia di impianti di riproduzione audio che, nel frattempo, si sono evoluti. Ecco, il meglio dell’ispirazione con il meglio della tecnica musicale e audio. Lo stesso discorso può essere fatto per altri generi musicali. I batteristi oggi suonano come i campionatori che negli anni 80 e 90 hanno rubato i pattern e i passaggi di batteria dai dischi funky dei decenni precedenti, imparando a essere meno rumorosi e più lineari, meno piatti e più regolari nell’inserire o togliere elementi, fino a quel miracolo che è stato la drum’n’bass suonata da esseri umani (quanto mi piaceva). Ecco, in questo senso, secondo me, non si può parlare di nostalgia. Come dice Reynolds “nessuno guarda al passato con struggimento, né desidererebbe tornare indietro nel tempo”, perché è chiaro che nessuno vorrebbe avere a che fare con strumenti intrasportabili e cavi ronzanti. E Infatti secondo Reynolds esiste ancora un istinto esplorativo, ma che ha a che fare con la riscoperta. Siamo circondati da cacciatori del passato. Parallelamente il mercato spinge questi “retrogradi”, perché il pubblico appartiene alla stessa generazione e li richiede. Per non parlare dei nostalgici veri, quelli come me per intenderci, che per motivi anagrafici si ricordano bene di tutto e che non disdegnano le ultime produzioni.

E proprio perché ci ricordiamo tutto perfettamente, riteniamo fondamentale fornire un adeguato servizio di memoria storica a chi ne ha bisogno e a chi no, e ricordare che il background su cui questa forma di nostalgia poggia non è assolutamente un magma unico a cui attingere acriticamente, ma una base ben stratificata a settori, ciascuno con la propria delimitazione e importanza. Perché, lo sappiamo tutti, ci sono i settanta e i Settanta, gli ottanta e gli Ottanta. Siamo pronti a fornire consulenza musico-geologica a tutti gli archeo-artisti che vogliono sfondare. Fatevi sotto, prego.

da questa parte, grazie

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Tra i numerosi quanto inutili canali che impoveriscono l’offerta televisiva del digitale terrestre, ce n’è uno che tutte le volte che passo di lì – in quei 5 minuti di cazzeggio che precedono il crollo nelle serate estive, momento che comprende una fase di zapping selvaggio tesa unicamente a trovare il programma di Paola Marella che si diverte a ristrutturare case altrui (Paola, se leggi questo post, mettiti in contatto con me: ho grandi progetti) – trasmette esibizioni live (poi capirete perché l’ho messo in italico) di un dj di fronte a centinaia di persone intente a ballare (buon per lui).

Una formula vecchia quanto l’uomo, almeno da quando esiste il giradischi, che però da circa quindici anni a questa parte si è resa protagonista di un processo di evoluzione nel posizionamento strategico delle due componenti fondamentali – dj e pubblico, appunto – all’interno del luogo adibito di volta in volta ad “area da ballo”. Mi spiego.

La discoteca, il club, il luogo chiuso, raramente concede risalto al selezionatore musicale, che sta dietro la console mentre la gente balla la sua selecta. Fin qui ci siamo. A un certo punto, con un paio di fenomeni quali il successo di gruppi privi di batterista e l’avvento della musica elettronica, si sono diffusi gli eventi a metà tra il concerto e il rapporto univoco dj – pubblico danzante. Quest’ultimo balla qualsiasi cosa il dj proponga (almeno un tempo era così) e si fa bellamente i c**** propri mentre il selezionatore in cuffia – a volte nascosto chissà dove, a volte in una sorta di pulpito, altre, come in alcuni locali un po’ improvvisati, con i piatti su un comune tavolino da bar, dentro il bar stesso a rischio di essere travolto dall’esagitato di turno (ho visto una volta un ubriaco rovesciarsi su una console di fortuna dietro alla quale Fabio De Luca aveva appena messo On my radio dei Selecter, la versione live se non ricordo male) – sciorina la sua playlist.

Nell’evento a metà tra il concerto e la selecta invece il dj sta sul palco e il pubblico danzante sta sotto, come nei concerti con musicisti (mi vien da dire veri ma non lo scrivo per non urtare la sensibilità né degli uni né degli altri) dotati di strumenti tradizionali. Già nei concerti dei Depeche Mode, almeno nella formazione più autorevole, cioè quella in quattro con Alan Wilder e prima che a Martin Gore venisse la pessima idea di imbracciare la chitarra, diciamo fino a Black Celebration, c’era un po’ di imbarazzo tra il pubblico. Stare lì in piedi rivolti verso il palco a sentire dischi, perché ora se vogliamo contarcela su va bene, ma non mi si venga a dire che a quei tempi i Depeche Mode suonavano dal vivo, visto che ballavano tutti, ogni tanto davano qualche manata sulla tastiera, e le versioni dei pezzi erano troppo fedeli a quelle registrate, dicevo stare lì a guardare un playback evoluto era un po’ una forzatura. C’era questa finzione collettiva in cui celebravamo tutti insieme da sotto la visione dei nostri beniamini. Ma chiamarlo concerto, onestamente, è troppo.

Passano gli anni e la cosa si ingigantisce pure. Nel 97, dopo aver pagato 60 mila lire per il biglietto del concerto dei Prodigy (poi se volete vi spiego perché l’ho fatto, a volte le cose si fanno anche per gli altri), ho assistito a una performance di base registrata più effetti speciali e coreografie varie, tanto che il gruppo supporto che ho dovuto pure sopportare, tali Marlene Kuntz, si sono distinti enormemente per grinta, suono e pathos. Tanto vale fare come i Kraftwerk, visti pochi anni fa già in versione pensionati i quali, sul palco come quattro impiegati di banca prossimi al ritiro della liquidazione dietro ad altrettanti Mac portatili, hanno eseguito una navigazione in internet con controllo di posta elettronica – perché secondo me proprio quello facevano – al cospetto del pubblico per 2 ore circa, con il valore aggiunto del video, alle loro spalle, che per lo meno dava il quid multimediale mancante.

Il livello successivo, a cui non ho mai voluto per scelta partecipare, comprende i performer tipo i Chemical Brothers. Per inciso: tutti i gruppi e i dj citati finora, a parte Prodigy e Marlene, sono tra i miei preferiti quindi la critica che muovo non è a loro, sia ben chiaro. I Chemical Brothers, potete dare un’occhiata per esempio qui ma avrete visto questi video decine di volte, si mettono dietro ai loro mixeroni e… e poi non si sa bene che fanno. Quanto suonano? Quanto mixano live? E trovarmi lì, in mezzo a migliaia di persone tutte rivolte a guardare due sul palco che magari giocano a solitario mentre sotto un cd suona tutto il concerto mi farebbe sentire un po’ sciocco.

Tutto questo per arrivare al punto di rottura: dj sul palco, ma dj veri, con piatti o cd, e pubblico sotto che, anziché ballare insieme – magari vedi una vicino che ti prende e cerchi di rimorchiarla – è disposto in file orizzontali e rivolto rigorosamente verso di lui. Il dj, poveretto, sì ogni tanto balla, batte le mani, fa qualche gesto di feeling di circostanza, ma il più delle volte lo vedi dare sorsi a un cocktail (e il pubblico ti guarda mentre bevi il cocktail), girare manopoline senza nessun apparente risultato su quello che esce dalle casse (e il pubblico ti osserva e balla mentre giri le manopoline), o guarda con la testa bassa i dischi che ruotano nei piatti, un po’ imbarazzato dall’aver di fronte centinaia di persone che lo guardano anche mentre osserva il moto perpetuo dei dischi sui piatti. Eppure, su questa tv, il pubblico sembra divertirsi un sacco: le ragazze sovente vestono solo il top del costume da bagno, i ragazzi si muovono a tempo con il bicchiere di plastica in mano, e tutti guardano il palco, felici di aver afferrato il senso.