la tre

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Ora ditemi se la sigla di Propaganda Live non sta meglio in 3/4.

la quattro

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Ora ditemi se la sigla di Propaganda Live non sta meglio in 4/4, che poi è già in quattro ma insomma ci siamo capiti.

la cinque

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Ora ditemi se la sigla di Propaganda Live non sta meglio in 5/4.

la sei

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Ora ditemi se la sigla di Propaganda Live non sta meglio in 6/4.

p. s. è il sequel di quella in sette che trovate qui 

nessuno le suonerebbe più così

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Nell’82 la band di Battiato suonava “Cuccuruccuccu” così

mentre sentite che botta nel 2005

Qui invece ecco due modi per rovinare una canzone: un inutile sfoggio di tecnica su “Musica Ribelle”, suonata a un BPM che ne svilisce la portata

e “Rock’n’Roll Robot” con una base ritmica che non c’entra una mazza con l’approccio synyh punk del pezzo, per di più con quel cialtrone di Ruggeri che suona in playback e sbagliando pure gli accordi:

niente di tutto questo

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Certe entità immateriali e metafisiche sono il top per chi si è stufato delle cose che si rompono o delle persone che eludono le aspettative. Bella scoperta, mi direte. Superstizioni, credenze e religioni sono lì proprio per questo e da un bel pezzo, da sempre customizzabili a costo zero, al massimo la stima di qualche simpatizzante dei competitor di ciò che abbiamo scelto per il nostro benessere. Ma, lo sapete meglio di me, si tratta di pratiche per le quali alcuni non si sentono all’altezza, o che altri ritengono totalmente inadeguate. Ci sono però efficaci vie di mezzo. Dispositivi consolatori intangibili ma dotati di quella concretezza percepibile da almeno uno dei nostri cinque sensi a partire dal fumo di una sigaretta, la cui fisicità è facilmente calcolabile sottraendo al peso della sigaretta intonsa e appena estratta dal pacchetto quello della cenere prodotta e dal mozzicone con il filtro una volta terminata, vi riporto qui la formula f = [s – (c + m)] per vostra comodità e per rintracciare meglio la storia da cui è tratta questa citazione. Ricordate solo che fumare, un vezzo che richiama pose altamente idealizzate e fin troppo spesso emulate, purtroppo fa malissimo ed è meglio piantarla subito.

Così nulla supera, in quanto a efficacia, il primato del beneficio della parola scritta e letta. Nel mondo ideale il monopolio sarebbe appannaggio della parola detta e ascoltata, ma noi esseri umani siamo troppo impulsivi, e gli svariati sottosistemi di autoprotezione attivi nella nostra coscienza mettono in quarantena – come un antivirus qualunque, uno di quelli gratuiti che rallentano i sistemi operativi e ci rovinano l’esperienza sull’Internet con call to action a cui nessuno dà seguito – la maggior parte degli stralci delle conversazioni a cui partecipiamo, nemmeno il prossimo fosse sempre lì a consigliarci qualcosa solo per un secondo o terzo fine.

Parole scritte e lette, dicevo. E poi non sottovalutate le potenzialità dei suoni. Le musiche si riproducono sempre uguali, niente è in grado di neutralizzarne il principio attivo, proprio come quella fiaba in cui si sostiene che nulla si crea, nulla si distrugge e tutto si trasforma. Al massimo il nostro stato d’animo, in ogni singolo istante che è quasi sempre diverso da ogni altro, ne hackera la composizione e ne colloca gli elementi fondativi così destrutturati in ricettori e decodificatori differenti rispetto a quelli previsti dalla formula originale, ma la sostanza non cambia. Anzi, no, la sostanza cambia eccome: è proprio l’effetto di questa specie di non materia che agisce per ricostruire e rimarginare ferite fisiche e non rimaste aperte, anche quando nessuno glielo chiede. A metà tra una reazione chimica e un evento miracoloso, la sicurezza della propagazione di onde sonore nell’aria, secondo una conformazione impossibile da modificare, può arrivare a salvarti persino la vita.

farfalle nello stomaco

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Non ho mai capito il senso di ascoltare musica non deprimente. È una cosa senza senso, punto e basta, e non accetto contraddittori. La musica allegra fa schifo e se ne siete fan siete solo dei superficiali e se l’ho scritto è solo perché la musica allegra non esiste, nemmeno la fanfara del circo è una musica allegra, quindi se voi credete di ascoltare musica allegra perché vi fa stare allegri in realtà state ascoltando musica deprimente quanto me e confondete con l’allegria quella sensazione di appagamento che solo la musica deprimente può darvi. Quindi non dovete sentirvi offesi, non vi ho assolutamente dato dei superficiali perché il fatto non sussiste.

Vi dirò di più. In estate ascoltare musica deprimente è ancora più piacevolmente deprimente, e lo sapete perché? Perché con il caldo e l’afa e il soffoco la musica deprimente sublima, dà il meglio di sé, e alla sensazione di depressione sovrappone uno strato di fiera consapevolezza romantica, e cioè che per ogni ascolto chiusi in casa (anche senza aria condizionata) di qualcosa di veramente deprimente (per deludere i soliti detrattori delle persone che amano deprimersi con la musica e che ci accusano di essere fermi a “Dummy” dei Portishead o a “Ok Computer”, per non tirare in ballo sempre i Joy Division, ecco un consiglio di qualcosa di recente: le tracce più introspettive di “Tangk”, l’ultimo disco degli Idles), dicevo che per ogni ascolto chiusi in casa di qualcosa di veramente deprimente c’è qualcuno che ha dovuto interrompere la riproduzione dell’ultimo singolo di Annalisa o del tormentone reggaeton dell’estate – ce lo/la immaginiamo in costume, al tramonto sul bagnasciuga con una tazza di mojito in mano – a causa dell’energia negativa che abbiamo insufflato nel mondo grazie alla nostra determinazione a mantenere vivo il legame tra umore e sottofondo sonoro. Una sorta di rivisitazione della teoria di Edward Lorenz: il battito d’ali di una farfalla qui a Milano è in grado di provocare un uragano in Nuova Zelanda, anche se in realtà è più facile il contrario, se vogliamo dare una spiegazione a certi temporaloni che non si erano mai visti prima, da queste parti.

Non solo. Non so per quale altra legge matematica ma ho la casa infestata di farfalle della pasta. In principio uscivano i vermi bianchi dalle fottute pareti, non vi dico quanti ne ho eliminati. Quindi alle larve sono subentrate le farfalle. Il punto è che non ho ancora identificato la causa, ma ho pulito con l’aceto il pensile della cucina dove conservo pasta e farine. Per mia fortuna, tutti quei battiti d’ali hanno causato solo una sensazione di materia in decomposizione, in perfetta sintonia con certi ellepì che in questa stagione ricca di contraddizioni mi va di ascoltare. La cosa divertente sarebbe trovare il covo delle farfalle della pasta in una confezione di farfalle, nel senso della pasta (ho una scorta di pasta Armando in dispensa, è la migliore pasta che abbia mai provato).

Un corto circuito che mi manda in tilt tanto quanto sembra in tilt mia figlia, che si sveglia con lo stomaco infestato di farfalle per la storia d’amore che sta vivendo. Per sdrammatizzare, vi ricordo che in tedesco farfalla si dice schmetterling, che è una parola che non è romantica per un cazzo, considerando che, pronunciata a pochi millimetri dalle labbra della/o propria/o amata/o, il rischio di sputazzarsi addosso è concretissimo. Anche perché, se la legge di prima è vera, uno sputo qui può causare chissà quale maremoto agli antipodi dei sentimenti.

spingilo

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Il paradosso del monopolio culturale a stelle e strisce che, a partire dallo sbarco delle truppe alleate in Sicilia, si è consolidato dalle nostre parti, è che alcuni registri artistici sono impossibili da localizzare per ovvie barriere linguistiche e, qualora se ne tenti l’appropriazione con l’obiettivo di sdrammatizzarne il tentativo (perfettamente riuscito) di colonizzazione, facilmente i risultati risultano correnti a sé, riconducibili all’archetipo ma tutto sommato permeate da una propria dignità. Pensate al jazz italiano (che poi non è jazz) o al rock italiano (che poi non è rock). Per non parlare del rap italiano e soprattutto della trap, la vera eccezione che conferma la regola. I trappisti locali non ci pensato due volte a troncare le parole mozzando l’ultima sillaba, con il risultato che noi boomer – qualora scendessimo dal nostro piedistallo post-punk per dedicare la giusta attenzione a questa generazione di tamarri tatuati, tossicodipendenti e depilati – non capiremmo nulla ma ci limiteremmo a percepire il feeling del groove allo stesso modo in cui ci approcciamo ai loro omologhi afro-americani, o come accadeva ai tempi in cui ascoltare l’old school faceva figo. In questo contesto, uno degli effetti più imbarazzanti (sia da un punto di vista linguistico sia sotto il profilo meramente musicale) è costituito dalle riduzioni in italiano dei rap nei film e nei telefilm.

Il punto è che, lasciato in lingua originale, lo slang dei ghetti e dei sobborghi, nessuno ci capirebbe un’acca. Mi è capitato di assistere a svariati tentativi fallimentari nel corso della storia del rap, ora mi vengono in mente solo alcune scene di “House Party”, o il tizio che propone orologi di dubbia provenienza a Auggie Wren in “Smoke”. Ma pensate alla sigla di testa di “Willy, il principe di Bel-Air”, che già l’originale, pur essendo ancora il 1990, era già una versione cosplay dell’hip hop, figuratevi la sua resa in italiano.

L’ultimo esempio dello scempio linguistico a cui purtroppo siamo condannati viene dalla campagna di spot televisivi del prodotto Sodastream che ha localizzato – a proposito di old school – “Push it” delle Salt-n-Pepa che di per sé, a parte i balletti altamente cringe, non sarebbe nemmeno un’idea campata in aria. Per farvi capire, ascoltate lo spot per il mercato tedesco:

quello francese:

ci tocca persino prendere lezioni dai polacchi:

fino all’orgoglio italiano:

Push it real good!

pj

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La prima cosa che mi ha convinto del mestiere dell’insegnante è che, a differenza dei lavori che ho svolto prima in cui ero sempre il più vecchio o quasi, nella scuola ogni anno c’è gente che va davvero in pensione. Ho la prova che esistono persone anziane che, quando la legge glielo permette, smettono di lavorare. Non è una favola.

Al termine del collegio docenti conclusivo erano in otto, a questo giro. Sette colleghe (come sapete, i maschi che insegnano sono mosche bianche) e Anna, la mia bidella preferita, anche se bidella non si dice più. Esaurito l’ultimo punto all’ODG, un nuovo ultimo collegio docenti plenario ha chiuso anche quest’anno scolastico (anche se in realtà saremmo in servizio – pronti in caso di necessità, ma che nessuno si guarda bene dal causare – fino al primo giorno di ferie) non prima di aver festeggiato il personale uscente.

Ma non è questo il punto. Siete mai entrati in una scuola a fine giugno/primi di luglio? Se non credete che l’equazione caldo e fannulloni abbia delle ragioni fondate – che è il luogo comune che il nord del mondo associa al sud del mondo, popoli del Mediterraneo compresi, cioè noi – dovreste mettere piede in un edificio scolastico italiano in estate. Le nostre strutture sono assolutamente inadeguate per un prosieguo dell’attività didattica post calendario, quindi alle cosiddette mamme di merda (non è una diffamazione, si autodefiniscono così loro stesse, provate a documentarvi su Facebook) che ci vorrebbero in cattedra, a noi docenti, e al loro banco, i loro mocciosi, dico che per me va bene.

Prima però voglio l’aria condizionata come negli uffici delle multinazionali in cui probabilmente lavorano loro, e dell’installazione pretendo che se ne occupino i loro mariti, considerando che l’iter per un’opera di riqualificazione di questa entità – richiesta dei docenti alla segreteria, richiesta della segreteria al preside, delibera in consiglio d’istituto e approvazione, richiesta del preside al dirigente dell’ufficio scolastico del comune, proposta in consiglio comunale, aggiunta della voce in bilancio e delibera dei lavori, assegnazione dell’appalto, avvio dei lavori, avanzamento dei lavori, chiusura dei lavori, collaudo e sono sicuro di aver saltato qualche pezzo – si concluderebbe il primo anno dopo il pensionamento mio e di quelli che la pensano come me, quando cioè probabilmente il mondo sarà liquefatto a causa del riscaldamento globale e dei condizionatori non sapremo più che farcene, anche perché i combustibili fossili saranno esauriti e non avremo più energia e tanti saluti all’umanità e alla pedagogia come l’abbiamo conosciuta.

Ed è in questo clima subtropicale monsonico post-negazionista che si consumano i festeggiamenti per i colleghi in uscita. Banchi doppi uniti a formare infinite tavolate a ferro di cavallo imbandite di pizzette, focaccine, tramezzini, brioches salate e mini-panini imbottiti burro e salame, tutte cose a cui io non so resistere. Solo, riflettendo sui rischi di un rientro in auto all’una del pomeriggio con quaranta gradi, il cielo coperto e quell’aria gelatinosa che avviluppa ogni cosa nell’attesa di un tornado da cambiamento climatico, ho declinato l’invito a brindare e poi vuotare alla goccia il calice in plastica non riciclata colmo di bollicine che qualcuno aveva riempito per me.

Negli edifici scolastici, d’estate, e in particolare questa che, con tutti i progetti finanziati dal PNRR che ci sono in ballo, è un’estate molto particolare, succedono strane cose. Ci sono i presidi che impazziscono, parto dalla cima della gerarchia. Ci sono i bidelli a ranghi ridotti che, d’estate, hanno più la funzione di custodi, anche se li vedete pulire cose e ambienti che hanno già ampiamento pulito le settimane prima. Loro sono il vero muro di gomma ed è giusto così, altrimenti ci troveremmo circondati da scuole finlandesi e proprio non è il caso, anche perché con queste condizioni meteo si squaglierebbero all’istante.

Ci sono un paio di amministrativi a chiudere tutte le questioni che gli ultimi mesi di scuola, che stanno all’anno scolastico come il finale caotico e accelerato di certi brani musicali sta all’andamento statico di certi brani che poi esplodono con un finale caotico e accelerato, quando una sana normalizzazione dei ritmi nel corso dell’anno sarebbe il toccasana per la scuola italiana, dicevo tutte le questioni rimaste in sospeso.

Ci sono infine due o tre sfigati, più due che tre, in alcuni casi addirittura uno solo, che tengono corsi di formazione ai colleghi, sistemano i nuovi ambienti didattici, mettono in ordine l’equipaggiamento informatico e digitale, e profanano la scuola con abbigliamento da bassa manovalanza, sudando come maiali e trascorrendo da soli la pausa ai distributori automatici con lattine di chinotto ghiacciato a sessanta centesimi, roba che al bar la pagherebbero almeno il triplo.

Ma, anche se in estate la scuola è vuota, se vi affacciate in una scuola in estate, chiudete gli occhi e vi concentrate sul vostro respiro, vi accorgerete che la scuola è sempre piena. C’è pieno di umanità, a scuola, e a scuola si fa il pieno di umanità. Anche tra i colleghi che partecipano ai corsi di formazione e che ringraziano i colleghi formatori e i colleghi formatori ringraziano i colleghi che partecipano perché è già luglio e tutti vorrebbero essere sull’autostrada del sole, possibilmente non in coda, a rotolare verso sud.

E non smetterò di meravigliarmi ogni volta in cui effettuo l’accesso al mio profilo Facebook e, in cima, riconosco i colleghi con cui l’algoritmo vorrebbe mettermi in contatto ma io me ne guardo bene. La scuola, malgrado faccia di tutto per mutare il suo codice genetico che è di carne, ossa, sangue, sudore, lacrime, bestemmie e passione (e anche un po’ certificati medici in momenti strategici dell’anno) in digitale, non svilirà mai la sua natura fisica in un simulacro virtuale. Accedo al mio profilo Facebook, nei giorni d’estate, quando ogni altra persona normale che non fa l’insegnante è in ufficio, e scorro la home fino a quando spunta una foto di PJ Harvey. C’è sempre una foto di PJ Harvey – per la quale nutro una venerazione che non vi sto a raccontare – che mi aspetta e che compare tra una notizia e l’altra, e la convinzione che Facebook mi legga nel pensiero si tramuta in certezza.

Beth Gibbons – Lives Outgrown

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I Portishead ci hanno lasciato pochissimo materiale a consolazione della loro assenza. Tre album e un live – quest’anno peraltro ristampato con qualche traccia in più – nonostante alcune delle loro canzoni (due su tutte, anzi tre) siano tra le più iconiche della storia della musica. Tra i pezzi da novanta di una stagione musicale irripetibile (il trip hop, il sound di Bristol e in generale l’ultima porzione di un secolo agli sgoccioli) solo loro mancano all’appello, in quest’epoca di tributi, di reunion e di cannibalizzazioni del passato.

Ed era un peccato soprattutto aver perso le tracce di Beth Gibbons, uno dei timbri più rappresentativi del decennio in questione. D’altronde, anche nel momento di maggiore successo, l’approccio dei Portishead allo show business  è sempre sembrato piuttosto defilato. Da Roseland NYC Live in poi, il crescente disinteresse per la musica praticato soprattutto da Geoff Barrow (fuggito a cercare ispirazione in Australia) aveva completamente dilapidato tutte le energie compositive necessarie per un prosieguo di carriera. Non a caso Third, l’album pubblicato nel 2008, ampiamente oltre il tempo massimo di scadenza del trip hop, seppur un disco bellissimo, ha lasciato però (almeno a me) il retrogusto di un tentativo postumo, una di quelle eccezioni che non conferma nessuna regola.

E Beth Gibbons, in quanto a posizionarsi al di là di qualunque circuito, non è certo da meno. Quante volte ne avete sentito parlare, da allora? A memoria ricordiamo una partecipazione a un’iniziativa di beneficenza, il featuring di “Mother I Sober” di Kendrick Lamar un paio di anni fa e il disco frutto della collaborazione con Paul Webb, bassista dei Talk Talk, lì con il nome d’arte Rustin Man, un’opera così incorporea e fragile da evaporare dopo una manciata di ascolti. Fuori dagli standard imposti dallo star system, Beth Gibbons si è impegnata per costruirsi una dimensione privata, in cui diventare adulta e invecchiare con consapevolezza (stavo per scrivere con serenità).

Non sorprende che Lives Outgrown, quello che può essere definito il primo vero album solista della cantante dei Portishead, sia un disco frutto di almeno dieci anni di note prese a margine, di spunti messi da parte per dopo, di ispirazioni suscitate dalla straordinaria quotidianità della vita che scorre trasformate in musica con quello che capita di avere sottomano. Non necessariamente gli strumenti musicali più comuni con cui si compone o comunque strumenti veri e propri, ma anche qualunque oggetto che si presti a fare rumore, come i contenitori per gli alimenti, le scatole e quant’altro sia in grado di generare il suono più adatto allo scopo.

Fatto sta che la prima volta in cui si è diffusa la voce di un suo lavoro solista Beth Gibbons andava per i cinquanta, mentre la pubblicazione del primo estratto da Lives Outgrown la vede quasi sessantenne. Una fase della vita disperata nella sua unicità, un concentrato di perdite e di addii forzati, un ponte a senso unico tra un prima che sembra infinito e un poi dai giorni cinicamente contati che, intonato dallo stesso timbro che abbiamo ascoltato implorare “una ragione per amarti” chissà quanti milioni di volte, lei con la sigaretta in mano, aggrappata al microfono e con un’energia impossibile da descrivere a parole, ci suona ancora più struggente. “The burden of life just won’t leave us alone”, così oggi Beth Gibbons ci trasmette il peso della vita, corredato da un elenco di fardelli, incompleto ma sufficientemente esaustivo, che comprende cose come maternità sfiorate, ansia, menopausa e morte.

Temi che nell’immaginario a cui i nostri beniamini del pop e del rock, raggiunta la terza età, ci hanno abituato, richiederebbero poche cose di contorno. Chitarre acustiche, pianoforte e poco altro. Beth Gibbons ci stupisce invece con una ricchezza di arrangiamenti e orchestrazioni di rara bellezza, ovunque maestosi e evocativi, pensati per sprigionare al massimo tutte le potenzialità delle sue canzoni. Un folk “sbagliato” nel suo tripudio di archi, flauti, percussioni e persino cori di voci bianche, tanto che le due incursioni di chitarra elettrica e quella di organo, con un effetto tipicamente Dummy (in “Rewind” e “Beyond The Sun”), ci sorprendono per la loro estemporaneità, a conferma che non c’è disco più distante dai Portishead e dai campionatori di questo.

Tra le tag con cui questa superlativa tracklist può essere descritta rientrano di diritto termini come intensità, affanno, sospiri, spleen, dubbio, ineluttabilità, disincanto e malinconia. Lives Outgrown va ben oltre il decennio durante il quale è maturato, e risulta il diario dell’intera esistenza di un’artista permeata da una inquietante cupezza. Un oscuro presagio del fatto che, dopo questo album, non ci sarà davvero più nulla.