spingilo

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Il paradosso del monopolio culturale a stelle e strisce che, a partire dallo sbarco delle truppe alleate in Sicilia, si è consolidato dalle nostre parti, è che alcuni registri artistici sono impossibili da localizzare per ovvie barriere linguistiche e, qualora se ne tenti l’appropriazione con l’obiettivo di sdrammatizzarne il tentativo (perfettamente riuscito) di colonizzazione, facilmente i risultati risultano correnti a sé, riconducibili all’archetipo ma tutto sommato permeate da una propria dignità. Pensate al jazz italiano (che poi non è jazz) o al rock italiano (che poi non è rock). Per non parlare del rap italiano e soprattutto della trap, la vera eccezione che conferma la regola. I trappisti locali non ci pensato due volte a troncare le parole mozzando l’ultima sillaba, con il risultato che noi boomer – qualora scendessimo dal nostro piedistallo post-punk per dedicare la giusta attenzione a questa generazione di tamarri tatuati, tossicodipendenti e depilati – non capiremmo nulla ma ci limiteremmo a percepire il feeling del groove allo stesso modo in cui ci approcciamo ai loro omologhi afro-americani, o come accadeva ai tempi in cui ascoltare l’old school faceva figo. In questo contesto, uno degli effetti più imbarazzanti (sia da un punto di vista linguistico sia sotto il profilo meramente musicale) è costituito dalle riduzioni in italiano dei rap nei film e nei telefilm.

Il punto è che, lasciato in lingua originale, lo slang dei ghetti e dei sobborghi, nessuno ci capirebbe un’acca. Mi è capitato di assistere a svariati tentativi fallimentari nel corso della storia del rap, ora mi vengono in mente solo alcune scene di “House Party”, o il tizio che propone orologi di dubbia provenienza a Auggie Wren in “Smoke”. Ma pensate alla sigla di testa di “Willy, il principe di Bel-Air”, che già l’originale, pur essendo ancora il 1990, era già una versione cosplay dell’hip hop, figuratevi la sua resa in italiano.

L’ultimo esempio dello scempio linguistico a cui purtroppo siamo condannati viene dalla campagna di spot televisivi del prodotto Sodastream che ha localizzato – a proposito di old school – “Push it” delle Salt-n-Pepa che di per sé, a parte i balletti altamente cringe, non sarebbe nemmeno un’idea campata in aria. Per farvi capire, ascoltate lo spot per il mercato tedesco:

quello francese:

ci tocca persino prendere lezioni dai polacchi:

fino all’orgoglio italiano:

Push it real good!

pj

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La prima cosa che mi ha convinto del mestiere dell’insegnante è che, a differenza dei lavori che ho svolto prima in cui ero sempre il più vecchio o quasi, nella scuola ogni anno c’è gente che va davvero in pensione. Ho la prova che esistono persone anziane che, quando la legge glielo permette, smettono di lavorare. Non è una favola.

Al termine del collegio docenti conclusivo erano in otto, a questo giro. Sette colleghe (come sapete, i maschi che insegnano sono mosche bianche) e Anna, la mia bidella preferita, anche se bidella non si dice più. Esaurito l’ultimo punto all’ODG, un nuovo ultimo collegio docenti plenario ha chiuso anche quest’anno scolastico (anche se in realtà saremmo in servizio – pronti in caso di necessità, ma che nessuno si guarda bene dal causare – fino al primo giorno di ferie) non prima di aver festeggiato il personale uscente.

Ma non è questo il punto. Siete mai entrati in una scuola a fine giugno/primi di luglio? Se non credete che l’equazione caldo e fannulloni abbia delle ragioni fondate – che è il luogo comune che il nord del mondo associa al sud del mondo, popoli del Mediterraneo compresi, cioè noi – dovreste mettere piede in un edificio scolastico italiano in estate. Le nostre strutture sono assolutamente inadeguate per un prosieguo dell’attività didattica post calendario, quindi alle cosiddette mamme di merda (non è una diffamazione, si autodefiniscono così loro stesse, provate a documentarvi su Facebook) che ci vorrebbero in cattedra, a noi docenti, e al loro banco, i loro mocciosi, dico che per me va bene.

Prima però voglio l’aria condizionata come negli uffici delle multinazionali in cui probabilmente lavorano loro, e dell’installazione pretendo che se ne occupino i loro mariti, considerando che l’iter per un’opera di riqualificazione di questa entità – richiesta dei docenti alla segreteria, richiesta della segreteria al preside, delibera in consiglio d’istituto e approvazione, richiesta del preside al dirigente dell’ufficio scolastico del comune, proposta in consiglio comunale, aggiunta della voce in bilancio e delibera dei lavori, assegnazione dell’appalto, avvio dei lavori, avanzamento dei lavori, chiusura dei lavori, collaudo e sono sicuro di aver saltato qualche pezzo – si concluderebbe il primo anno dopo il pensionamento mio e di quelli che la pensano come me, quando cioè probabilmente il mondo sarà liquefatto a causa del riscaldamento globale e dei condizionatori non sapremo più che farcene, anche perché i combustibili fossili saranno esauriti e non avremo più energia e tanti saluti all’umanità e alla pedagogia come l’abbiamo conosciuta.

Ed è in questo clima subtropicale monsonico post-negazionista che si consumano i festeggiamenti per i colleghi in uscita. Banchi doppi uniti a formare infinite tavolate a ferro di cavallo imbandite di pizzette, focaccine, tramezzini, brioches salate e mini-panini imbottiti burro e salame, tutte cose a cui io non so resistere. Solo, riflettendo sui rischi di un rientro in auto all’una del pomeriggio con quaranta gradi, il cielo coperto e quell’aria gelatinosa che avviluppa ogni cosa nell’attesa di un tornado da cambiamento climatico, ho declinato l’invito a brindare e poi vuotare alla goccia il calice in plastica non riciclata colmo di bollicine che qualcuno aveva riempito per me.

Negli edifici scolastici, d’estate, e in particolare questa che, con tutti i progetti finanziati dal PNRR che ci sono in ballo, è un’estate molto particolare, succedono strane cose. Ci sono i presidi che impazziscono, parto dalla cima della gerarchia. Ci sono i bidelli a ranghi ridotti che, d’estate, hanno più la funzione di custodi, anche se li vedete pulire cose e ambienti che hanno già ampiamento pulito le settimane prima. Loro sono il vero muro di gomma ed è giusto così, altrimenti ci troveremmo circondati da scuole finlandesi e proprio non è il caso, anche perché con queste condizioni meteo si squaglierebbero all’istante.

Ci sono un paio di amministrativi a chiudere tutte le questioni che gli ultimi mesi di scuola, che stanno all’anno scolastico come il finale caotico e accelerato di certi brani musicali sta all’andamento statico di certi brani che poi esplodono con un finale caotico e accelerato, quando una sana normalizzazione dei ritmi nel corso dell’anno sarebbe il toccasana per la scuola italiana, dicevo tutte le questioni rimaste in sospeso.

Ci sono infine due o tre sfigati, più due che tre, in alcuni casi addirittura uno solo, che tengono corsi di formazione ai colleghi, sistemano i nuovi ambienti didattici, mettono in ordine l’equipaggiamento informatico e digitale, e profanano la scuola con abbigliamento da bassa manovalanza, sudando come maiali e trascorrendo da soli la pausa ai distributori automatici con lattine di chinotto ghiacciato a sessanta centesimi, roba che al bar la pagherebbero almeno il triplo.

Ma, anche se in estate la scuola è vuota, se vi affacciate in una scuola in estate, chiudete gli occhi e vi concentrate sul vostro respiro, vi accorgerete che la scuola è sempre piena. C’è pieno di umanità, a scuola, e a scuola si fa il pieno di umanità. Anche tra i colleghi che partecipano ai corsi di formazione e che ringraziano i colleghi formatori e i colleghi formatori ringraziano i colleghi che partecipano perché è già luglio e tutti vorrebbero essere sull’autostrada del sole, possibilmente non in coda, a rotolare verso sud.

E non smetterò di meravigliarmi ogni volta in cui effettuo l’accesso al mio profilo Facebook e, in cima, riconosco i colleghi con cui l’algoritmo vorrebbe mettermi in contatto ma io me ne guardo bene. La scuola, malgrado faccia di tutto per mutare il suo codice genetico che è di carne, ossa, sangue, sudore, lacrime, bestemmie e passione (e anche un po’ certificati medici in momenti strategici dell’anno) in digitale, non svilirà mai la sua natura fisica in un simulacro virtuale. Accedo al mio profilo Facebook, nei giorni d’estate, quando ogni altra persona normale che non fa l’insegnante è in ufficio, e scorro la home fino a quando spunta una foto di PJ Harvey. C’è sempre una foto di PJ Harvey – per la quale nutro una venerazione che non vi sto a raccontare – che mi aspetta e che compare tra una notizia e l’altra, e la convinzione che Facebook mi legga nel pensiero si tramuta in certezza.

Beth Gibbons – Lives Outgrown

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I Portishead ci hanno lasciato pochissimo materiale a consolazione della loro assenza. Tre album e un live – quest’anno peraltro ristampato con qualche traccia in più – nonostante alcune delle loro canzoni (due su tutte, anzi tre) siano tra le più iconiche della storia della musica. Tra i pezzi da novanta di una stagione musicale irripetibile (il trip hop, il sound di Bristol e in generale l’ultima porzione di un secolo agli sgoccioli) solo loro mancano all’appello, in quest’epoca di tributi, di reunion e di cannibalizzazioni del passato.

Ed era un peccato soprattutto aver perso le tracce di Beth Gibbons, uno dei timbri più rappresentativi del decennio in questione. D’altronde, anche nel momento di maggiore successo, l’approccio dei Portishead allo show business  è sempre sembrato piuttosto defilato. Da Roseland NYC Live in poi, il crescente disinteresse per la musica praticato soprattutto da Geoff Barrow (fuggito a cercare ispirazione in Australia) aveva completamente dilapidato tutte le energie compositive necessarie per un prosieguo di carriera. Non a caso Third, l’album pubblicato nel 2008, ampiamente oltre il tempo massimo di scadenza del trip hop, seppur un disco bellissimo, ha lasciato però (almeno a me) il retrogusto di un tentativo postumo, una di quelle eccezioni che non conferma nessuna regola.

E Beth Gibbons, in quanto a posizionarsi al di là di qualunque circuito, non è certo da meno. Quante volte ne avete sentito parlare, da allora? A memoria ricordiamo una partecipazione a un’iniziativa di beneficenza, il featuring di “Mother I Sober” di Kendrick Lamar un paio di anni fa e il disco frutto della collaborazione con Paul Webb, bassista dei Talk Talk, lì con il nome d’arte Rustin Man, un’opera così incorporea e fragile da evaporare dopo una manciata di ascolti. Fuori dagli standard imposti dallo star system, Beth Gibbons si è impegnata per costruirsi una dimensione privata, in cui diventare adulta e invecchiare con consapevolezza (stavo per scrivere con serenità).

Non sorprende che Lives Outgrown, quello che può essere definito il primo vero album solista della cantante dei Portishead, sia un disco frutto di almeno dieci anni di note prese a margine, di spunti messi da parte per dopo, di ispirazioni suscitate dalla straordinaria quotidianità della vita che scorre trasformate in musica con quello che capita di avere sottomano. Non necessariamente gli strumenti musicali più comuni con cui si compone o comunque strumenti veri e propri, ma anche qualunque oggetto che si presti a fare rumore, come i contenitori per gli alimenti, le scatole e quant’altro sia in grado di generare il suono più adatto allo scopo.

Fatto sta che la prima volta in cui si è diffusa la voce di un suo lavoro solista Beth Gibbons andava per i cinquanta, mentre la pubblicazione del primo estratto da Lives Outgrown la vede quasi sessantenne. Una fase della vita disperata nella sua unicità, un concentrato di perdite e di addii forzati, un ponte a senso unico tra un prima che sembra infinito e un poi dai giorni cinicamente contati che, intonato dallo stesso timbro che abbiamo ascoltato implorare “una ragione per amarti” chissà quanti milioni di volte, lei con la sigaretta in mano, aggrappata al microfono e con un’energia impossibile da descrivere a parole, ci suona ancora più struggente. “The burden of life just won’t leave us alone”, così oggi Beth Gibbons ci trasmette il peso della vita, corredato da un elenco di fardelli, incompleto ma sufficientemente esaustivo, che comprende cose come maternità sfiorate, ansia, menopausa e morte.

Temi che nell’immaginario a cui i nostri beniamini del pop e del rock, raggiunta la terza età, ci hanno abituato, richiederebbero poche cose di contorno. Chitarre acustiche, pianoforte e poco altro. Beth Gibbons ci stupisce invece con una ricchezza di arrangiamenti e orchestrazioni di rara bellezza, ovunque maestosi e evocativi, pensati per sprigionare al massimo tutte le potenzialità delle sue canzoni. Un folk “sbagliato” nel suo tripudio di archi, flauti, percussioni e persino cori di voci bianche, tanto che le due incursioni di chitarra elettrica e quella di organo, con un effetto tipicamente Dummy (in “Rewind” e “Beyond The Sun”), ci sorprendono per la loro estemporaneità, a conferma che non c’è disco più distante dai Portishead e dai campionatori di questo.

Tra le tag con cui questa superlativa tracklist può essere descritta rientrano di diritto termini come intensità, affanno, sospiri, spleen, dubbio, ineluttabilità, disincanto e malinconia. Lives Outgrown va ben oltre il decennio durante il quale è maturato, e risulta il diario dell’intera esistenza di un’artista permeata da una inquietante cupezza. Un oscuro presagio del fatto che, dopo questo album, non ci sarà davvero più nulla.

OMNI – Souvenir

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Se siete fanatici di Tetris, il sound degli Omni è quello che fa per voi. In Souvenir ogni parte va a incastrarsi alla perfezione al suo posto, alla velocità dei livelli riservati ai giocatori più esperti.

Se in natura davvero esiste il math rock, lo stile degli Omni rimanda invece a forme geometriche rigorosamente regolari. Il trio di Atlanta suona un quadratissimo post-punk che, se non fosse completamente elettrico, sembrerebbe pilotato attraverso un trigger proveniente da un calcolatore elettronico. Souvenir è un capolavoro di precisione. Vi sfido a trovare una nota o un colpo di batteria o una sillaba fuori quantizzazione. Tutto sembra perfettamente al proprio posto, in un’alternanza regolare tra suono e pausa.

L’effetto è al limite del robotico, una versione ancora più asciutta dei Devo che si lascia andare a rarissime (e quando si manifestano, deflagranti) eccezioni. Un approccio meccanico e meticoloso che porta persino a scriverne come sto facendo qui. Poche parole per riga, in linea con la brevità delle undici tracce dell’album. Canzoni volutamente omogenee, una regolarità tradita solo dai gradevolissimi cameo vocali di Izzy Glaudini delle Automatic.

Da Souvenir abbiamo solo da imparare. Intanto che nell’era dell’intelligenza artificiale è ancora una volta l’umanità a interpretare al meglio il ruolo della macchina, sia quando si tratta di comporre musica che di scrivere testi dal significato inaccessibile. Poi, che solo la precisione e l’ordine ci salveranno dal caos. Infine, che si può ridurre ai minimi termini la propria arte solo quando, come per gli Omni, c’è davvero sostanza e l’opera mantiene il significato anche con poco, anzi meno. In una sceneggiatura che non ammette sbavature, la band di Atlanta inserisce persino colpi di scena in modo magistrale, su tutti l’impennata rock’n’roll (con tanto di pianoforte) in coda a “INTL Waters”, uno spin off pronto a mettersi in discussione attraverso un’ironica destrutturazione con schianto finale.

Con la pubblicazione di Souvenir, il cantante/bassista Philip Frobos, il chitarrista Frankie Broyles e il batterista Chris Yonker interrompono il periodo di silenzio seguito all’uscita del precedente Networker nel 2019. In mezzo c’è stata la pandemia, che ha messo in stand-by la collaborazione tra i tre e ha consentito lo sviluppo di progetti individuali di vario tipo. Al rientro alla base, l’apporto di Kristofer Sampson in sala di regia ha consolidato il tutto nel nuovo lavoro, fondamentale per riprendere esattamente dal punto in cui le composizioni si erano fermate. Souvenir conferma l’originale formula, un sound che risulta dichiaratamente lineare perché risultato di pattern consolidati che si incastrano efficacemente, tutt’altro che monotono. Anzi. Nell’album non si percepisce alcun calo di energia, nemmeno un irrisorio allontanamento dalla dimensione fisica e immediata della loro riduzione ai minimi termini del rock.

Rispetto ai dischi precedenti, in Souvenir c’è però uno scrupoloso lavoro di pulizia che troverà entusiasti e detrattori. Se volete la mia opinione, ascoltando le nuove tracce, va benissimo così. Ogni singola parte si percepisce distintamente e può essere isolata dal resto, ed è un piacere per le orecchie. Le parti di chitarra, in tutte le sfumature che vanno dal nitido al lievemente distorto, non perdono mai la loro freschissima asetticità, un valore aggiunto per gli amanti del genere. Ma è tutto l’album a risultare terso e tagliente come vetro, e non c’è traccia che scenda a compromessi in tensione.

Souvenir è una dichiarazione di contemporaneità e rimanda ai tempi e luoghi ben definiti in cui è stato pensato e realizzato. Non potrebbe essere altrimenti, considerando il ritmo mozzafiato della tracklist, che non lascia spazio alla nostalgia. Il che è paradossale, visto il carattere comunque evocativo e derivativo insito nel DNA del progetto. Il presente è anche questo, e non potrebbe meritare colonna sonora migliore. Proprio così. Anzi, come canta Frobos, “exacto, de facto”.

English Teacher – This Could Be Texas

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Che sia o no un disco post-punk, “This Could Be Texas” è un album d’esordio pressoché perfetto con il quale gli English Teacher superano tutte le aspettative.

Non erano abbastanza il modo che hanno solo loro di suonare la chitarra, un vocabolario pieno zeppo di parole tronche, la cultura della musica d’insieme (pensatelo in contrapposizione all’individualismo esasperato ed esasperante dei nostri ragazzi che puntano tutto solo su se stessi), i produttori discografici, la disinibizione compositiva e l’attitudine a superare qualsiasi canone armonico e melodico per meri fini commerciali (una volta avremmo tirato in ballo gli edit radiofonici, oggi parliamo principalmente di TikTok), per non parlare della fortuna di nascere in un posto dove la musica non è svilita ma è rispettata, insegnata e coltivata e, proprio per questo, parte integrante dell’economia, a farci schiumare di invidia.

Ci mancava giusto la possibilità di scegliersi nomi tipo i calamaro, la legge sul cantiere, la capitale degli omicidi, gira al minimo, paese nero strada nuova, lavaggio a secco, gamba bagnata. Da noi, forse, la cosa che si avvicina di più a l’insegnante di inglese è la rappresentante di lista. Oltre a tutte le fortune che hanno, in UK non c’è neppure bisogno di inventarsi neologismi roboanti o giochi di parole o, a parte i Bar Italia, puntare su nonsense in lingua straniera. In UK il rock è ancora una cosa seria. In UK il rock è ancora la musica più moderna che ci sia.

Tengo d’occhio l’uscita di questo disco da quasi due anni, da quando ha fatto breccia nella mia vita la prima versione di “R&B”, un pezzo confezionato a puntino per chi, come me, vede nei canoni del post-punk cantato con voce intonata, possibilmente femminile e con qualche ammiccamento soul, il non plus ultra, anzi il top, come si dice ora. La perfezione.

Da allora ho seguito con una abnegazione che spero qualcuno mi riconosca, prima o poi (un’applicazione vi assicuro ai limiti dello stalking) l’evoluzione di questa band, approcciando con ascolti attentissimi tutti i nuovi singoli che, battuta dopo battuta, nota dopo nota, smentivano l’appartenenza degli English Teacher al mio principale genere musicale di riferimento. Brani pensati per mettere alla prova gli appassionati veri, i cultori disinteressati di questo quartetto che, manco a dirsi, anziché indurmi a desistere, mi hanno intrigato sempre di più. In amore, si sa, è una tecnica consolidata.

Ho persino ricondotto l’esperienza degli English Teacher a quella dei Police, artisti che alle origini della loro carriera hanno sfruttato il punk in quanto genere più in voga ai tempi e, suonando volutamente in modo approssimativo (erano composti da un jazzista, un mostro di tecnica alla batteria e un session man di esperienza) sarebbero potuti risultare più accattivanti per il gusto dell’epoca.

Il punto è proprio che il post-punk, agli English Teacher, sta altrettanto stretto e, giunti all’ultima nota del loro straordinario ellepi di esordio, viene da pensare che l’aspetto post-punk, di tutta quella meraviglia, sia forse il meno rilevante, quello meno decisivo, considerata la bellezza e l’originalità di tutto il resto. E non ero certo solo io, sulle spine, nell’attesa della pubblicazione di This Could Be Texas. Un pezzo da novanta come Beyoncé ne ha incensato il valore poche ore prima dell’uscita, definendo gli English Teacher “di gran lunga la migliore nuova band del pianeta in questo momento”. Non sarò certo io a smentirla.

La tracklist di This Could Be Texas è perfetta e alterna gli ottimi spunti che hanno preceduto l’album con inediti assolutamente all’altezza. Con “Albatross”, il brano di apertura, l’opera spicca immediatamente il volo e non potrebbe essere altrimenti. Non delude le aspettative di chi non vedeva l’ora di avere tra le mani il disco e concentra i tratti principali della band a chi si approccia a loro per la prima volta. Emerge immediatamente tutta la bellezza della poesia di Lily Fontaine (sorprendente autrice dei testi, ottima vocalist e incantevole front woman del gruppo, il tutto in un’unica persona) e la sua personalità artistica a metà tra letteratura e musica, con liriche aspre e allo stesso tempo ricche di fascino, in cui trovano posto introspezione, quotidianità familiare e visioni surreali.

Ci sono quindi i brani che non stonerebbero in nessuna playlist dedicata al fiorente panorama neo post-punk britannico, a partire da “I Am The World’s Biggest Paving Slab”, in cui Lily Fontaine afferma di sentirsi la piastrella più grande del mondo ma anche la celebrità più piccola, un verso che, dopo questo esordio, siamo sicuri che presto non corrisponderà più alla realtà. In questa categoria rientrano a pieno diritto anche “I’m Not Crying, You’re Crying”, una hit alternative a tutti gli effetti, a metà tra lo spoken word di Dry Cleaning e le chitarre stoner dei Dinosaur Jr., l’ormai conosciutissima “R&B”, ovvero come rispondere con ironia ai pregiudizi di vivere con la pelle scura nell’industria musicale, e “Nearly Daffodils”, un modo originale per parlare d’amore che si caratterizza per un particolare fraseggio strumentale all’unisono (o quasi) che mette in luce tutta la tecnica e la creatività del resto della band, il chitarrista Lewis Whiting, il bassista Nicholas Eden e il batterista Douglas Frost.

Già solo con questa manciata di brani This Could Be Texas potrebbe conquistare il primato di disco dell’anno. Ma il bello deve ancora venire.

Il resto delle canzoni risultano composizioni fuori da qualsiasi cliché, difficilmente categorizzabili e che fanno degli English Teacher una delle band più originali in circolazione. Mi riferisco a “Broken Biscuits” e al suo sapore tutto dispari alla The Lamb Lies Down On Broadway degli ultimissimi Genesis, al disordinato indie folk di “Mastermind Specialism”, probabilmente il resoconto di una seduta di psicanalisi, alle ancor più evidenti citazioni progressive nella title track, con i suoi strappi resi con strumenti acustici e, quindi, ancora più forti e marcati e il travolgente crescendo strumentale della coda.

Fino all’apoteosi totale e finale, composta dalla struggente “The Best Tears of Your Life”, davvero una delle cose migliori mai sentite negli ultimi anni, dalle parole di incontrollata passione accompagnate dal piano e gli archi di “You Blister My Paint” (“Your overexposure makes my eyes weak/But I can’t look away, You’re so hot then you leave me”), dalla leggerezza pensata quasi in contrapposizione con il pezzo precedente di “Sideboobs”, una gita tra curve e colline con tutte le diverse accezioni del caso, per terminare con “Albert Road”, la ballad che non potrebbe stare altro che qui in chiusura, una sequenza di umanità (chissà se le persone di cui si parla sono le stesse che hanno partecipato al video, riprese nel pub) in rassegna lungo l’omonima via principale di Colne, la cittadina a un’ora di macchina da Leeds in cui Lily Fontaine è cresciuta.

C’è da chiedersi in che modo gli English Teacher sapranno restituire dal vivo quanto promesso in This Could Be Texas. Non dev’essere per nulla facile trasmettere una gamma di registri emotivi e musicali così ampia ed eterogenea. Se riusciranno (ne sono certo) potrò immolarmi definitivamente a loro. Per il momento, mi godo all’infinito questo capolavoro, sicuramente uno degli esordi più convincenti nella storia recente della musica inglese.

la sette

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Ora ditemi se la sigla di Propaganda Live non sta meglio in 7/4.

Nadine Shah – Filthy Underneath

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Il quinto album di Nadine Shah è quello decisivo, quello della svolta, quello che, toccato il fondo, attesta l’urgenza di raccontare come sia stato possibile sopravvivere.

Tra tutte le cantautrici che seguo con religiosa devozione, Nadine Shah è quella più piacevolmente impegnativa, l’artista che più di ogni altra comporta ascolti scomodi e, proprio come tutte le cose ad accesso non immediato, appaganti.

Fin dai tempi del suo straordinario esordio di Love Your Dum and Mad, album che ha compiuto dieci anni il 22 luglio scorso, Nadine Shah si distingue principalmente per la sua voce e il suo timbro, una versione di Siouxsie arricchita dalla versatilità, dalla tecnica e dal gusto di una ricercata interprete jazz, e per il suo stile musicale che riflette perfettamente questa apparente dicotomia.

Il risultato è infatti un raffinato post-punk arricchito da una sofisticata varietà di art rock, da cui risulta un magnetico equilibrio tra elettrico e elettronico, tra chitarre graffianti e synth ultra moderni, frutto della produzione di Ben Hillier (già dietro le quinte del synth rock dei Depeche Mode del nuovo millennio).

Pubblicato a quattro anni dal precedente Kitchen Sink, l’impressione è che Nadine Shah, forse per la prima volta, si concentri completamente su di sé, dopo essersi lasciata ispirare, nei precedenti lavori, da temi sociali di urgente attualità, come la questione femminile, la fragilità e l’instabilità mentale e i migranti, a cui ha dedicato il concept del riuscitissimo Holiday Destination.

Un lockdown intimo che non sorprende, se ripercorriamo le vicende umane che hanno portato alle tracce che compongono Filthy Underneath. Dal 2000 a oggi Nadine Shah ha accompagnato la madre lungo un doloroso decorso di fine vita. Si è sposata per poi divorziare a brevissimo giro. Ha messo volontariamente in discussione la sua stessa vita. Ha risalito il baratro grazie a un faticoso cammino di recupero e, riemersa, ha prestato il suo estro al teatro, la disciplina artistica che più si avvicina alla sua musica, impersonando Titania, la regina delle fate protagonista di Sogno di una notte di mezza estate di William Shakespeare, un barlume di commedia nella tragicità degli eventi.

Un concentrato di vita in quattro anni che non poteva non generare un disco così intenso e sofferto come Filthy Underneath, probabilmente il lavoro meglio riuscito e più completo e maturo di Nadine Shah. Il titolo non lascia dubbi sul desiderio di non nascondere nulla delle torbide vicende di cui l’artista è stata protagonista, suo malgrado. Il disco si apre con “Even Light” che è un vero compendio del suo stile: ardite acrobazie melodiche, l’inconfondibile vibrato della voce in coda alle note tenute, parte di batteria che ricorda “Fool”, uno dei suoi indimenticabili successi, e modernissimi suoni di synth che testimoniano la ricerca in fase di arrangiamento di cui il disco si caratterizza.

Anche il ritmo di “Topless Mother” rimanda a un altro cavallo di battaglia di Nadine Shah come “Stealing Cars”. Qui però si accelera il bpm e si parla di sedute di terapia, mentre nel ritornello (non a caso) si sciorinano disturbanti parole in libertà. C’è persino una rivisitazione in chiave dark del soul e della black music in “Food For Fuel”, basta concentrarsi sul cowbell percosso sul battere e sugli accenti della linea di basso che sembrano fare il verso a “Lady Marmalade” dei Labelle. A spegnere i fuochi ci pensano l’incipit della fredda “You Drive, I Shoot”, una traccia che non stonerebbe in Violator, e “Keeping Score”, forse uno degli episodi migliori del disco, coinvolgente ballad elettronica in cui Nadine Shah, in un mondo in fiamme (sono parole sue) trova un’ancora di salvezza.

Grazie allo spoken word di “Sad Lads Anonymous” la voce si fa conturbante e scende di tono, in un esercizio di terapia della lentezza propedeutica all’esplosione ritmica di “The Greatest Dancer”, uno dei singoli che ha preceduto l’album, trascinante e ipnotica danza (con un tema di synth epocale) perfetta per perdere il controllo e portare all’oblio di tutto, dolore compreso. “See My Girl” è una conversazione che Nadine Shah tesse con se stessa e con la madre morente, lungo una rassegna di istantanee per una sigla finale in accompagnamento ai titoli di coda di una relazione tra mamma e figlia. La lista delle venti peggiori cose che possano venire in mente è invece un fedele resoconto dell’esperienza del suo percorso di riabilitazione in clinica, episodio in cui la cantautrice storyteller che è in lei ha raccolto le toccanti testimonianze dei suoi compagni di destino (compresi quelli che non ce l’hanno fatta) per poi metterle in musica in “Twenty Things”.

Della scarna “Hyperrealism” ci aspettiamo una versione remix con una base electro sotto. Il pezzo risulta infatti una potenziale hit, a partire dal riff di synth e piano a corollario della melodia delle strofe. Nadine Shah ci lascia (senza lasciarci, per nostra fortuna) infine con l’escamotage della “French Exit”, l’andarsene alla chetichella dai party senza salutare, perché abbandonare qualcosa a cui si partecipa senza dare nell’occhio è un soffio, una sillaba tra l’istante in cui sei vivo e il nulla, proprio come la morte per propria scelta.

Converrete con me che Filthy Underneath è un album di una cupezza unica, un’opera che non lascia scampo, una testimonianza di amore per la vita di chi è sopravvissuto ma non ne è ancora del tutto consapevole, e per questo non possiamo che consumarlo di ascolti.

Idles – Tangk

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Tangk è il nuovo disco degli Idles e, per me, il 2024 potrebbe anche chiudersi qui.

Tanto per cominciare, il remake del video di “Yellow” dei Coldplay, realizzato grazie all’intelligenza artificiale per la clip di “Grace”, è forse, almeno ad oggi, l’applicazione più pertinente e meglio riuscita della tecnologia deepfake. Un uso magistrale che si dovrebbe insegnare nelle scuole. Altro che capi di stato che dichiarano guerra ad altri capi di stato o personaggi famosi che straparlano a botte di corbellerie o tutte le altre stronzate che ci lasciano presagire che l’AI, dopo le tv Mediaset e i social, è l’invenzione che darà il colpo di grazia alla nostra civiltà come l’abbiamo conosciuta.

Ma è tutta la storia a essere bellissima: Joe Talbot che scrive un pezzo che parla d’amore e si sogna proprio Chris Martin nel fiore dell’età che, con la sua andatura dinoccolata sul bagnasciuga sotto la pioggia all’alba, intona tutto lo struggimento del suo omologo di ventiquattro anni dopo in sostituzione di quello (altrettanto melenso) della canzone originale di ventiquattro anni prima. E Chris Martin che, anziché sottrarsi al divertissement (o, peggio, andare per vie legali per questioni di copyright come un’isterica rockstar miliardaria qualunque, priva del senso dell’umorismo e dell’ironia con cui l’operazione è stata pensata) non solo concede il suo benestare per trasformare l’idea in realtà, ma contribuisce ad addestrare l’AI per rendere la sua performance vocale più realistica, in modo che il risultato balzi immediatamente ai vertici delle classifiche dei video musicali più iconici di tutti i tempi.

Non trovate tutto questo commovente? Il risultato è che “Grace” è una delle canzoni più significative della storia recente, un pezzo che potrebbe davvero stare nel repertorio dei Coldplay, perché no? La voce di Talbot è incredibilmente delicata e, con un arrangiamento più rassicurante, non sfigurerebbe nel repertorio di uno dei gruppi più famosi al mondo.

E poi c’è la questione dell’amore. Sembra che nei quaranta e rotti minuti di Tangk, Joe Talbot pronunci la parola love quasi trenta volte e dia sfogo, quasi senza soluzione di continuità, a buoni sentimenti come la freudenfreude, quello stato d’animo da oratorio che consiste nel provare gioia per la gioia degli altri, o la gratitudine per ogni mattino che ci viene regalato. Tenete conto che il suo approccio al prosieguo di Crawler è stato quello di rispondere a urgenze condivise, a partire dal mondo in caduta libera post-pandemia, e ad altre molto personali, e decisamente agli antipodi tra di loro, come il lutto e la passione.

Ma il britpop, le dita che si uniscono a forma di cuore e Hall&Oates non sono le sole cose che mai ti aspetteresti di trovare in un album degli Idles. Pensate alla melodia a bocca chiusa nel finale di “Idea 01”, così spiazzante da sembrare un violino interpellato a chiudere una prima traccia praticamente perfetta, un incipit che chiunque, in futuro, gli invidierà, con quell’accompagnamento di piano suonato dal chitarrista e co-produttore Mark Bowen (sporcato a opera d’arte) che accompagna una melodia straordinariamente premurosa, preludio all’amore nella dimensione paterna di “Gift Horse”.

E pensate a “Pop Pop Pop”, con quella metrica da ninna nanna a cavallo tra la conta che fanno i bambini per designare sotto a chi tocca e alla trap. Ma anche il soul di “Roy”, con un Talbot in versione Otis Redding, lo stile più adatto per farsi perdonare dalla propria amata per certe cose dette la sera prima, e una band sotto che suona un punk-blues decisamente oltre ogni aspettativa. O ancora la voce sussurrata di “A Gospel”, coda naturale della traccia precedente, tutta pianoforte e archi. Per non parlare del modo di edulcorare il brutalismo degli esordi in “Jungle”, vero capolavoro dal suono indefinibile, e del sax che si erge repentino dalle macerie negli ultimi istanti di “Monolith”, ancora un sorprendente blues scelto come improbabile chiusura di una tracklist in grado di lasciare di stucco anche gli animi più scettici.

Di certo mettono più a nostro agio le volte in cui la band manda affanculo tutto e tutti, re compreso, violenta gli strumenti con una distorsione disumana, percuote le pelli dei tamburi con la rabbia tipica dell’hardcore (“Gratitude” su tutti), urla tutto il suo disagio possibile e invita al pogo con il patrocinio e il bpm disco-punk degli LCD Soundsystem.

E sapete come andrà a finire, vero? Andrà a finire che, al cospetto di questo album monumentale, l’amore per gli Idles (e l’amore secondo gli Idles) ci dividerà di nuovo: apocalittici e integrati, o detrattori e entusiasti, insomma quella dicotomia lì. Il punto è che la band di Talbot ha bruciato le tappe. Cinque long playing in sette anni e ora si trova già in quella fase di presunta morbidezza in cui cascano tutti, quella in cui gli snob dei “mi piacevano i primi due dischi”, i più pessimisti, gli intransigenti e i disillusi del bicchiere mezzo vuoto vedono solo compromessi e decadenza, mentre i più curiosi e intelligenti, chi, in genere, approccia l’arte come naturale evoluzione della multiforme indole umana, riconosce il vero genio.

Se state dall’altra parte, quella che avrete capito essere opposta alla mia, quella sbagliata, insomma, vi lancio un’altra provocazione: provate a fare sempre uguale la cosa che vi piace di più e poi ne parleremo quando, del vostro estro, rimarrà solo un mozzicone impossibile da impugnare. Per me, un disco come Tangk è uno di quelli che, tra trenta o quarant’anni, definiremo, anzi, definirete epocale, una delle opere più influenti della vostra vita, il punto di non ritorno per una band punk sempre meno post e ormai molto radicale nel suo non esserlo come gli Idles che, sono sicuro di averlo scritto da qualche parte e di ripetermi, sta alla moda musicale del momento come i Killing Joke di “Wardance” stavano all’analogo movimento nel primissimo scorcio degli anni Ottanta.

Con Tangk gli Idles hanno ampiamente sconfinato nell’empireo degli artisti che fanno la differenza. Una scalata alla vetta già avviata con il precedente Crawler (bello come solo sa essere un’opera di passaggio) che taglia definitivamente ogni legame con la genuina ferocia degli esordi e definisce al meglio un gruppo di musicisti che hanno tutto lo spazio e il tempo per esprimersi al massimo e in ogni forma.

La speranza è che gli Idles siano diventati sin nel midollo tutto questo: cattiveria sperimentale, impeto con il valore aumentato della ricercatezza, rabbia che tracima nell’avanguardia artistica grazie alle larghe intese con tutte le cose belle con cui vale la pena mescolarsi. Il risultato è una assoluta meraviglia, la più credibile colonna sonora degli anni venti, un’opera in cui la raffinatezza di cui è pervasa stride meravigliosamente con l’idea che abbiamo maturato degli Idles, in tutto questo tempo. Le loro pose truci, il look beffardo, il suono gratuitamente aggressivo, la mancanza di grazia compositiva e quel mix di cinismo e di noncuranza come conseguenza della sfacciataggine incosciente figlia dell’insicurezza.

Sulla morale di Tangk c’è poco da dire. Come la favola di Esopo “Il Sole e il vento del Nord”, che ne ha ispirato la composizione, “No god, no king, I said, love is the fing”, pronunciato così, con la F al posto della TH come fanno i veri gentleman, ci ricorda che la gentilezza e la cortesia vincono dove la forza e la spavalderia falliscono. Un approccio che, nel punk rock, si mette in pratica con una produzione come quella di Nigel Godrich, il sesto Radiohead, per capirci. Di sicuro, Tangk è un ellepi che nessuno dovrebbe assolutamente lasciarsi sfuggire, un album intriso di suoni e parole d’amore da urlare sgomenti, il più efficace deterrente al senso di vuoto invadente di questi tempi pessimi che, detto tra noi, ci sono ottime possibilità che siano davvero gli ultimi.

The Last Dinner Party – Prelude To Ecstasy

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Altro che ultima cena: con un menu di undici portate (più aperitivo con tanto di orchestra) le The Last Dinner Party ci offrono un ricco buffet per il vernissage del loro esclusivo e divertente progetto musicale.

In un mondo in cui la trasgressione è la regola, alla fine passano per alternativi quelli che le regole le seguono. Non drogarsi, non tatuarsi, lo scoutismo, smettere di fumare, entusiasmarsi per i Promessi Sposi, preferire maglioncini e Clarks alle tute e alle sneakers: ecco i veri eccessi del nostro tempo. Faccio l’insegnante e quando incontro un ragazzino con i capelli lunghi, uno che si distingua dalla massa, senza marsupio e borsello, uno che non si rasa le righe sul cranio e non si concia come i fenomeni della trap, mi viene da fermarlo, mi viene da stringergli la mano e fargli i complimenti. Finalmente qualcosa di completamente diverso. Non fraintendetemi, non sono mica un moderato, un conservatore o un fratellista d’Italia. Soprattutto quando si parla di musica.

Dico solo che, se non fossimo sovraesposti alle più ritrite avanguardie stilistiche, liquideremmo gente che si è fatta le ossa nelle tribute band dei Queen o che armonizza ritornelli nemmeno fossero gli Abba come reazionari, esponenti di un’inutile controriforma artistica, energie e bit sprecati per melensi manierismi mainstream, retromaniaci post-classicisti epigoni di specie artistiche fortunatamente estintesi grazie ai techno-meteoriti degli anni novanta. E invece, a valle della recensione della milionesima band prog-post punk di South London, al cospetto di un disco come Prelude To Ecstasy ecco che gridiamo al miracolo e, parlo per me, ci strappiamo quei pochi capelli che ci sono rimasti.

E sono certo che ci saremmo immaginati lo stesso l’album di esordio delle The Last Dinner Party come colonna sonora di un sequel distopico di Piccole Donne anche se non le avessimo mai notate suonare negli stralci dei loro live su Youtube, testimonianze di una fervida attività marketing volta a infiammare a puntino l’hype per questo primo disco, o viste interpretare i video degli svariati singoli che l’hanno preceduto e posare per gli shooting promozionali con quegli assurdi abiti di scena d’epoca. Anche se – parlo per me – non si capisce bene quale. Costumi di uno dei soliti passati indefiniti – non per questo avvincenti – in cui si mescola tutto, da Ziggy Stardust a Emily Brontë passando per Stevie Nicks. Un’età dell’oro di cui sappiamo solo che si è perpetuata per secoli prima dell’avvento del web e dei social, anche se web e social sono proprio il pretesto romantico che ci fa rimpiangere un mondo in cui ci estingueremmo nel giro di qualche ora, senza smartphone.

L’unica certezza che ho è che il ruolo di Jo calzerebbe a pennello per Lizzie Mayland, chitarra e cori della band (statene certi) rivelazione di quest’anno che, forse a causa alla sua bisestilità, da un punto di vista strettamente musicale, grazie alle The Last Dinner Party è già cominciato col botto. Per chi potrebbe interpretare Abigail Morris, l’impertinente voce solista, ci devo pensare. Nel frattempo, a loro due e a Emily Roberts (chitarra solista, mandolino, flauto), Georgia Davies (basso) e Aurora Nishevci (tastiere, voce) chiederei come gli è venuto in mente un progetto di questo tipo.

Un nome che ci evoca un consesso di apostoli (rigorosamente uomini) al convivio di saluti finali di un profeta (rigorosamente uomo, almeno fino a prova contraria). Un’estetica un po’ gotica e a tratti rococò che, quando è stata di monopolio maschile ai tempi del glam e delle zeppe, ha spostato la lancetta della fluidità di genere verso valori e falsetti ben oltre il livello di guardia, quasi a ridosso della macchietta. Una proposta plissettata e tutta merletti, così sfrontatamente sfarzosa da emancipare le The Last Dinner Party da qualunque tendenza del momento, spiazzando la critica con un coraggio che nessun esordiente di sesso maschile avrebbe mai azzardato.

E lo so che questi discorsi non si dovrebbero fare e che guardare al genere dei musicisti è conseguenza di una società e di una cultura rock sessista e patriarcale. Il punto è che io adoro i gruppi tutti al femminile. Adoro le batteriste e la loro postura dietro ai tamburi, la fierezza con cui osservano il loro set, i piatti e le pelli. Adoro le bassiste, di cui ormai c’è una consolidata tradizione. Adoro le ragazze che manipolano i potenziometri dei sintetizzatori e persino le chitarriste che pestano con i tacchi il pedale del wah wah e l’effetto dei prodigi dell’onicotecnica mentre le loro dita corrono veloci sul manico. Adoro come si abbina agli strumenti musicali tutto ciò che è femminile (la rabbia, la passione, la grazia, l’estasi, l’ardimento, persino la gravidanza) perché alle voci femminili e alla meraviglia che suscitano siamo abituati. Il resto, condizionati dal testosterone nel rock, ci fa approcciare le band tutte al femminile con una doppia aspettativa proprio come, nel resto del mondo reale, per una donna è tutto difficile (come minimo) il doppio.

E sono altresì convinto che The Last Dinner Party siano un gruppo pazzesco proprio perché suonano e cantano come solo cinque donne possono fare. Anzi, sei, perché è importante nominare anche Rebekah Rayner, la straordinaria batterista che non risulta nella line up ufficiale del gruppo ma che si presta al gioco delle parti con velluti e corsetti tanto quanto le altre ragazze per le esibizioni live. Molto più di una semplice turnista e perfettamente allineata con il suono e l’estetica della band. Un gruppo che, se fosse stato composto da maschi, sarebbe diventato il nuovo Greta Van Fleet da tanto al mucchio.

Il bello di questo disco è che il fatto che evochi tanto Kate Bush quanto riesca a citare (con ineguagliabile intelligenza) una non-hit come “This Town Ain’t Big Enough For Both Of Us” degli Sparks come se nulla importasse, o che induca l’ascoltatore ad aspettarsi, da un momento all’altro, voci che si sovrappongono ribadendo la richiesta a Scaramouche sulla fattibilità del Fandango o qualche altra trovata kitsch degna di un Eurovision Song Contest di metà anni settanta, non risulta per nulla derivativo. C’è tutto questo, insieme a canzoni che cambiano rotta più volte per rientrare indenni al punto di partenza, inni da arena rock e ballad da meditazione. C’è tantissima musica, pensata, composta, suonata e cantata egregiamente, divertente e mai banale, sempre diversa e sempre di altissimo livello.

Per il resto, se tutto ciò che è a corollario non vi piace, potete chiudere gli occhi o aspettare cosa si inventeranno le The Last Dinner Party per il sequel di questo disco. Il sophistirock di Prelude To Ecstasy, pur con tutte le ingenuità proprie di un album di esordio che di certo non abbatteranno i nostri pregiudizi rispetto a un gruppo di giovani donne che sfidano il patriar-mercato discografico conciate come ai tempi di Emily Dickinson, è una delle cose più fresche e originali sentite finora, il preludio a un anno, si spera, il più femminile possibile, e non solo in musica.

quasi dieci minuti di quando quando quando quando di Annalisa

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