multisala, tanti divertimenti in uno

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Sto aspettando che termini il sequel di un film per bambini di cui non ho visto nemmeno il primo episodio, seduto su una specie di divano nella hall di un multisala di provincia. Dalle mie parti funziona cosi: nel limite del possibile si portano i bambini al cinema parrocchiale che è una causa da sostenere, sia per una questione di principio che sotto il profilo economico. Costa poco e fa provare quell’effetto di comunità che nei posti come quello in cui vivo, in cui non si capisce bene la fine di un paese e l’inizio di un altro e quando tutto diventa città e metropoli, tutto sommato dà l’ebbrezza dei vecchi tempi, quando i bambini giocavano in strada e altre superficialità di un’epoca finita da un pezzo. La scelta di riserva, quando si vuole andare al cinema ma alla sala dell’oratorio non c’è niente di interessante, è il multiplex al profumo di secchiello di popcorn.

In entrambi i casi la dinamica è la stessa. Si mettono insieme tre o quattro compagni di classe e un genitore li accompagna, fa i biglietti, gli indica la sala e i posti. I bambini si sistemano e l’adulto di turno, oggi sono io, può fare quel che crede. La spesa nel centro commerciale annesso, per esempio. Io questa volta mi sono portato da leggere, sono al primo romanzo di Richard Ford che con Sportswriter è balzato nella top ten personale al fianco dei vari Auster, Delillo, Homes, Everett, Coupland e compagnia bella. Mi accomodo su un divanetto multicolore e per farvi capire quanto mi piace quel libro non mi distrae nulla, né il casino delle famiglie che corrono dietro ai figli né gli adolescenti all’assalto delle sale.

Fino a quando rifletto proprio su quell’utenza e mi meraviglia quel contrasto tra bambini troppo piccoli e le sagome cartonate dei loro eroi, le bestiole gialle di Cattivissimo me o i mostri della Pixar. Per non parlare delle scritte a caratteri cubitali: multisala con una freccia che campeggia sopra l’ingresso del cinema, per differenziarlo dal centro commerciale che gli fa da contorno, i cartelloni pubblicitari di attività locali che sperano nell’investimento in advertising tradizionali puntando a una clientela che i soldi li spende diversamente, a botte di 16 euro a testo per un film con occhiale 3D per esempio. E mentre osservo le famiglie mi sovviene un articolo che mi ha letto dopo pranzo mia figlia, una biografia di Martin Luther King, che è nato lo stesso anno di mio padre ma è stato assassinato a 39 anni. Questo solo perché tra un gruppo e un altro di paganti che si dirigono alle varie sale poso gli occhi su una pagina del libro e leggo proprio quella data, 1968, e l’attenzione sulla storia dura un’altra volta poco.

Vengo distratto da un dialogo tra un coppia di trentenni che si sono seduti a fianco a me. Sfogliano il dépliant con tutta la programmazione della giornata e si scambiano pareri molto vaghi sentiti altrove per scegliere quale film vedere, il che mi sembra curioso perché a me non verrebbe mai in mente di passare un pomeriggio in un multisala in quanto tale e poi lì, a seconda di cosa danno, decidere il film. Voglio dire, se vado al cinema vado a vedere un film non vado a vedere l’edificio indipendentemente dalla programmazione. Non so se mi sono spiegato.

Nel frattempo qualche spettacolo finisce. Escono di gran carriera dal corridoio cui si affacciano tutte le sale due ragazzi nordafricani, vestono giubbe smanicate di colori sgargianti e si allontanano di corsa, potete immaginare che cosa ho pensato. Là dentro, da qualche parte, c’è mia figlia e due sue amiche da sole. Vedo passare tante ragazzine e ragazzini e penso che un posto così, con tanto andirivieni di giovanissimi, potrebbe essere un posto perfetto non solo per la delinquenza tradizionale, avete capito cosa intendo. E per certi versi mi sento sospetto anch’io che osservo le persone passare, seduto da quasi due ore nello stesso punto della hall del multisala con un libro in mano che trascuro per tutte queste cose ed è inutile aggiungere che sono l’unico che è lì di domenica pomeriggio a fare una cosa anomala come leggere un romanzo anziché spippolare sullo smartcoso, mangiare gelati o popcorn o chiacchierare con altri. Non lo scrivo perché poi so già cosa uno può pensare, la superiorità morale e la cultura e cose così.

Insomma, qualcuno potrebbe pensare male, sono anche vestito abbastanza trascurato anche se non indosso smanicati di colore sgargiante. E mi rendo conto di tutto questo quando mi alzo, da lì a poco le bambine di cui sono in attesa usciranno da una delle sale, e due inservienti mi vengono incontro con passo piuttosto nervoso e penso che oddio, ora mi chiederanno cosa ci faccio qui e ci farò una figuraccia con tutte le famiglie e invece no. Mi fanno solo notare che ho lasciato il mio telefono sul divanetto, mi è caduto dalla tasca dei pantaloni. Li ringrazio, lo raccolgo e, non avendo con me carta e penna, lo uso per annotare l’accaduto.

di cosa profumano i vostri figli

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Li scrivo qui perché anche se è passato poco tempo non voglio dimenticarmene. Mi riferisco agli odori che si sentono quando c’è un bambino in casa, diciamo tra i zero e i dieci anni, la mia esperienza è questa. E ho già letto e sentito dire che poi subentra un altro genere di aroma, per certi versi meno gradevole perché riguarda la crescita, lo sviluppo, gli ormoni in subbuglio, le scarpe di gomma portate fino allo sfinimento e gli indumenti a fine giornata dopo ore e ore di scuola e di allenamento. Facciamo così una lista di quello che si sente addosso ai figli quando sono più piccoli perché poi piccoli non lo sono più e, a meno che non abbiate la fortuna di fare gli insegnanti del nido, materna o scuola primaria, tutto ciò finirà prima o poi in cantina con i quaderni a quadrettoni pieni di lettere panciute, attività manuali colorate in modo disordinato, vasini pupazzi lettere di Natale e tante altre cose che poi basta che mi viene da piangere.

Ho pensato di raccogliere qui questa lista di profumi dell’infanzia perché stamattina ho percorso un tratto di strada dietro a una mamma con un passeggino che sprigionava un forte odore di timo che non sentivo da anni, da quando mia moglie ed io lo spalmavamo sotto il naso e sul petto di nostra figlia – addirittura sotto i piedi, ci consigliava mia suocera – per mitigare raffreddori e intasamenti delle vie respiratorie. Io poi andavo matto – una vera e propria droga – dell’odore del cuoio capelluto, approfittavo di quando mi si addormentava addosso per snasare quella fragranza tipica dei primi mesi. Poi le creme e gli oli che si spalmano dopo il bagnetto, c’era una marca che preferivo su tutte, ogni tanto penso di acquistarne una confezione anche se non serve più giusto da tenere pronta in caso di malinconia olfattiva. E c’erano le gocce di essenza che aggiungevamo all’acqua del vaporizzatore, acceso fino a notte inoltrata per mantenere l’aria umidificata durante il sonno. Il profumo della pelle abbronzata mescolato a quello delle creme solari e della salsedine al mare, che a differenza degli adulti nei bambini è tutto molto soft.

Avevamo anche dei pennarelli profumati, ogni colore era un frutto diverso ed era sorprendente l’effetto sinestetico nei bambini e mi dispiaceva quasi usarli per la paura che poi finissero, tanto che qualcuno è ancora funzionante ma ha perso il suo effetto. Certi alimenti poi, dalle pappette alle minestrine e ancora prima al latte in polvere e i plasmon, l’alito che non è mai sgradevole come non si sentono mai le puzze corporee forti fino a quando poi comincia un po’ di quell’odore da tutto il giorno a correre e saltare che è il presagio che un equilibrio si è rotto, è il momento di farsi un archivio delle sensazioni che non si proveranno più. Che poi non è vero, magari da nonno avrò una seconda possibilità. Ora tocca a voi, la lista è ancora lunga, vero?

più che di uno stivale ha la forma di un tronchetto

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Questi tempi non passeranno certo alla storia per la grandezza del nostro agire, verranno piuttosto ricordati come gli anni del tronchetto. Sfido chiunque di voi, care lettrici, soprattutto chi non ha approfittato delle ultime stagioni all’insegna degli stivali a tutti i costi, a trovare un paio di calzature che non rientrino nella suddetta categoria, che ora va per la maggiore. Ci sono tronchetti di tutti i tipi, con o senza tacco, le fibbie borchiate che fanno tanto motociclista e i drappi che cadono sulla caviglia. Accollati e non, più o meno eleganti o da battaglia, persino quelli sportivi che ricordano il design del made in Italy con la suola da tennis. Se poi vi capita di entrare in uno degli ennemila megastore monotematici, e qui nella profonda periferia milanese c’è una densità senza precedenti, vi colpisce la distesa orizzontale di tronchetti che svettano su pile di scatole di cartone che contengono il modello in mostra in tutti i numeri e tonalità. Tanto che quando entri ti assale la strana sensazione di essere preso per i fondelli perché l’ampia scelta di articoli in realtà è solo una infinita variazione sul tema del tronchetto, il che rispecchia perfettamente il pensiero unico o unico e mezzo a cui oramai siamo avvezzi in politica, nell’informazione, quando accendiamo la radio e cerchiamo qualcosa che non sia Ligabue o Ramazzotti, quando vogliamo mangiare quello che ci piace e non quello che è in offerta, nelle attività extra-scolastiche dei nostri figli, quando cerchiamo un regalo per una persona cara e a Milano quanto a Cagliari i negozi appartengono alla stessa catena, di fronte alla moltitudine di link su Internet presentati dal più noto motore di ricerca. Il nostro vivere è saturo di impercettibili declinazioni dello stesso archetipo, a guardare bene ci sono solo tronchetti metaforici, e ci sembra pure di avere una scelta se non che, come diceva un mio amico, la scelta non c’è ma si può fare finta di averla.

tronchetti

vecchie canzoni per giovani amori

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Trovo che sia irriguardoso nei confronti della contemporaneità e degli sforzi dell’umanità intera, compiuti per tirare avanti e migliorare se stessa, ascoltare solo ed esclusivamente canzoni di cantanti morti o gruppi ormai più che dimezzati, vuoi per questioni anagrafiche o per la condotta di vita talvolta poco salutare dei componenti, che ora comunicano ai loro fan le giuste vibrazioni dal paradiso delle rockstar. Ecco perché credo sia fondamentale tenersi sempre aggiornati sulle novità discografiche, se non altro si può contribuire al percorso verso un successivo stadio di evoluzione e si toglie un po’ di eredità in termini di diritti alla progenie dei cantanti famosi, evitando che il frutto di tanti sforzi venga dilapidato solo in termini di nepotismo in tentativi di emulazione con successi oltremodo discutibili. D’altronde sembra quasi un destino comune alle persone normali, quello degli anziani di mescolarsi in mezzo ai giovani. Se John Lennon – che è morto ma che se fosse ancora in vita avrebbe 70 anni e rotti – usa risuonare nelle playlist degli adolescenti del 2013 è perché, tra la gente comune, i pensionati amano sbrigare al sabato commissioni e fare cose di cui potrebbero tranquillamente occuparsi in settimana, quando in uffici, negozi, servizi pubblici ci sono sono solo loro e la forza giovane e produttiva di questo paese cazzeggia sui Social Network in ufficio. Invece a tenere in mano il numerino delle code nei pochi negozi rimasti, o nei tavolini comuni ai numerosi bar a gestione cinese dei centri commerciali, sono in larga maggioranza loro, i pensionati che non a caso sono anche la larga maggioranza della popolazione autoctona. Come biasimarli, stare in mezzo a tatuaggi, infradito e pettinature da calciatori è meglio che contornarsi di carampane e fisici cadenti. E poi, con l’occhio dell’esperienza, è possibile trarre il meglio dai comportamenti e dalle abitudini delle nuove generazioni, si possono criticare e tirare sospiri di sollievo su che cosa, chi è nato sensibilmente prima, è riuscito ad evitare. E non mi riferisco solo ai soliloqui con il proprio dispositivo touch screen che probabilmente comporterà l’estinzione del genere umano. Qualche sera fa mi sono trovato in mezzo a un nutrito campione di giovani e giovani adulti, per così dire, in quelle atmosfere da ormoni e contratti a tempo determinato di cui i luoghi di ritrovo per giovani e giovani adulti sono pregni, uno scenario in cui l’anziano ero io. Tra crocchi di avventori con bicchieri di plastica pieni a metà di birra industriale emergevano qui e là, seduti sull’erba di un parco, coppie prevalentemente etero in via di formazione. Ragazzi impegnati in presentazioni in stile marketing di sé cercando di approfittare del giusto livello di persuasione nella ragazza target, e ragazze che si raccontavano guardando un punto indefinito mentre i ragazzi di cui erano target cercavano il giusto varco per compiacerle. Il tutto con canzoni di cantanti e musicisti defunti da tempo. Così ho pensato che ci sono cose che è bello non dover più fare, e che certi posti è meglio evitarli perché quello che avviene mescolato a quello che si sente a una certa età va fuori dalla nostra capacità di comprendere.

caso Barilla, dopo la gaffe pronto il pane del perdono

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Niente, mi faceva ridere un titolo così. Perdonate l’interruzione, tornate pure alla crisi di governo.

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se l’autovelox è un fotofinish

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E poi non è che uno esce alla mattina con un cartello grande così sulla schiena con su scritto “odio tutti”, per questo non vale nemmeno l’opposto “ce l’hanno tutti con me”. Il mondo non è una gara, una specie di omni-thlon dove il bisogno di superare gli altri supera noi stessi, ché non dobbiamo essere secondi a nessuno, tantomeno ai nostri impulsi animali. Conosco uno che quando si sveglia e si sente cattivo, o meglio, una brutta persona, si guarda allo specchio e dice di ritrovarsi riflessa l’Italia che c’è in lui. Ma ci sono i giorni – vero? – in cui casa nostra è una caverna e ci sembra di uscire con la clava perché i pericoli si annidano dovunque. Quindi ci sentiamo in dovere di giustificare qualunque gesto con il nostro istinto di sopravvivenza non agevolando l’immissione da destra nelle superstrade congestionate dal traffico, quando la coda ci consente al massimo il passo d’uomo ma l’uomo che vive nell’abitacolo rivale fa parte del resto del mondo conosciuto con cui, manco a farlo apposta, quella mattina siamo in guerra. Per non parlare dei confronti al millesimo di millimetro in prossimità dei caselli, irrispettosi delle corsie canalizzatrici disegnate proprio con l’obiettivo di farci arrivare magari non primi ma per lo meno indenni al nostro sistema di pagamento preferito. Quelli che sono a metà e che vorrebbero fotterci il posto sono un anello sopra di noi nella catena alimentare, e quando non è giornata cerchiamo di ristabilire le giuste gerarchie.

E se ci pensate bene, tutta questa metafora autostradale fila che un piacere, magari un po’ meno nelle ore di punta e nel weekend quando andate al mare, proprio come tutti i milioni di altri con i quali ce l’avete perché sono un ostacolo alla vostra voglia di ottimizzare il tempo libero andando il più veloce possibile verso la meta. Quante volte usiamo segnali nella nostra quotidianità, come lampeggiare con gli abbaglianti al futuro che sta davanti e a cui chiediamo di farsi da parte tanto è lento. Non venite a raccontarmi che non vi capita di procedere nella terza corsia – quella più a sinistra – per lasciarvi dietro tutto il resto che tanto non riuscite nemmeno a vederlo se non riflesso nello specchietto, mentre si ha tutto il tempo di osservare le porzioni in eccesso allontanarsi come sfondo di chi viaggia al nostro fianco nel massimo del confort. Il climatizzatore personalizzato per ogni sedile, quelli dietro con il tablet incorporato, un unico connettore per i dispositivi audio che al giorno d’oggi l’iPhone fa tutto lui. Navigatore, autoradio, computer di bordo. Abbiamo bisogno sempre di più spazio e ma allo stesso tempo cerchiamo di tenerci ben saldi alle nostre radici che ci seguono in questa corsa in cui, con la scusa della sicurezza, ci siamo allargati a torto ma impuniti.

non ci si può nemmeno più strangolare con il filo del telefono

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Una delle espressioni che presto cadrà in disuso e che già quando la dici oggi in presenza di qualche rappresentante (suo malgrado) della generazione digitale ti guarda come se parlassi in gaelico è quel “sbattere il telefono in faccia” o “buttare giù la cornetta” della cui obsolescenza, in tempi di smartcosi, converrete con me. Nessuno colpirebbe mai qualcun altro lanciandogli un pezzo da sei o settecento euro sul naso, che magari è più facile che si rompa il dispositivo più che l’altrui grugno, né ci sono più cornette da far cadere con violenza verso il basso. Interrompere una chiamata, di questi tempi, non dà più la stessa soddisfazione del gesto violento fatto ai danni di un Bigrigio o di un Sirio tra le mura domestiche, oppure con uno di quegli indistruttibili Rotor – quei madonnoni color rosso mattone arancio utilizzati nelle cabine pubbliche – in ambienti outdoor tra lo sgomento generale di chi stava a sentire le conversazioni concitate altrui, magari nella calca de posti telefonici a pagamento che usavano anni fa. Ora è sufficiente dare una ditata sul touchscreen dei nostri piastrelloni e occorre pure misurare l’impeto perché una volta che sono rotti, se proprio non si vuole ricorrere agli artigiani di via Paolo Sarpi o altre analoghe chinatown se non siete di Milano, sarete costretti a sborsare un altro capitale per sostituire l’intero pezzo giacché portarlo a riparare costa una follia e in più, nel frattempo, il vostro modello sarà già considerato tecnologicamente superato.

Resta però fuori discussione che l’essere colui che interrompe brutalmente una conversazione diciamo burrascosa, e di questi tempi le conversazioni telefoniche – e anche quelle burrascose – sono quasi esclusivamente di dominio pubblico perché la mobilità dei dispositivi ci induce a usarli mentre facciamo altro o nei momenti morti come i trasferimenti da un posto a un altro, non implica il doversi giustificare per la cattiveria infierita. Intanto perché la vittima non si vede, e gli spettatori del vostro show parteggiano emotivamente per l’unico protagonista visibile e cioè voi che avete diritto di vita e di morte su chi vi sta facendo alterare. Di segno opposto quando siete voi le vittime, ovvero quando vi hanno “sbattuto il telefono in faccia” e siete in pubblico, giacché è un onta il dover riconoscere la sconfitta e passare da una turbolenza sonora verbale al silenzio assoluto preceduto da numerosi e reiterati “pronto? pronto?” di disperazione, momenti durante i quali noi curiosi ci guardiamo con quello stato d’animo per cui siamo consapevoli che non poteva altro che finire così.

Quindi scende l’imbarazzo, la vittima al limite può fingere e lamentarsi con la compagnia telefonica di turno sul fatto che è caduta improvvisamente la conversazione, lì magari non c’è campo ma non se la beve nessuno, state sereni. Il mio suggerimento, lo so perché l’ho provato io una volta ed è un escamotage rodato e funzionante, ve lo assicuro, è quello di far finta di continuare il dialogo approfittando per riportarlo su binari di civiltà, per così dire, recitando la parte di chi sta convincendo l’interlocutore alle proprie ragioni mentre l’interlocutore, di là, sta già facendo altro. Quindi ci si saluta con un benaugurante “ne parliamo più tardi, che ne dici?”, la gente intorno si tranquillizza, qualche volta parte pure l’applauso come quando il pilota compie un atterraggio da manuale.

recensioni letterarie: Catalogo Ikea 2013-2014 [attenzione spoiler, questo post contiene anticipazioni sulla trama]

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Vivere la casa è creare spazio per la vita di tutti i giorni. La nuova edizione del catalogo Ikea inizia così, introducendo il tema che è un po’ la fatica che ci portiamo appresso e che non riusciamo mai a riporre in alcun luogo perché è la vita stessa di tutti giorni a non avere nemmeno uno spazio organizzato rispondente a un modello svedese. Le prime esperienze abitative, in questa nuova narrazione dell’impiallacciato, anticipano subito una trama che si sviluppa in un unico piano monodimensionale. Ambienti rappresentati solo per un lato che sembra infinito, popolato di bimbi che giocano o che guardano la tv mentre gli adulti riposano il sonno delle grandi responsabilità e delle scelte, certi che nessuno corre pericolo se lo show room della modernità è uno spettacolo a porte chiuse ma sempre ben allestito.

Dietro a fondali e paratie che dosano quell’ingrediente iper-reale che sapienti architetti stemperano lungo una visione platonica delle idee domestiche, da questa quinta volutamente minimale fanno capolino stampe con gatti giganteschi e bici posteggiate a cazzo perché quello che si ha per le mani è un catalogo, attenzione. Una sintesi delle possibilità di ravvisare il proprio sé e liberarlo dalla dipendenza del tasso di grancasa di cui siamo permeati, come metafora della resa e del compromesso. Ma dove si nascondono i protagonisti di questa nuova avventura, sfuggiti al mondo della convenienza? Essi sono solo comparse in stanze stipate di cose in istantanee fuori fuoco a ricordarci che una qualsiasi superficie sguarnita richiama una riflessione. Chi siamo? Saremo in grado di montarlo? Perché la birra Ikea costa quattro euro?

E ancora, cosa è un vuoto? Una porzione di essenza in meno, un oggetto in esposizione che qualcuno ha sottratto ignaro che lì non si deve toccare nulla e occorre invece attendere la discesa al piano inferiore, là sotto dove man mano che si avvicinano le casse ogni acquirente lascia dietro di sé sempre più copiose tracce della serenità, sogni di socialismo reale del benessere applicato all’individualità in quella allegoria della casa, che è la casa di tutti e che a tutti ha infuso una speranza di luci, colori, jingle, dispositivi elettronici non funzionanti ma a prova di italiano, libri in brossura di autori dai nomi impronunciabili.

E anche nella nuova edizione le novità sono sempre molteplici, in questo spaccato di società scandinava che trasuda da carte da parati, tendaggi mitteleuropei e stampe industriali a finto rischio di omologazione. Volti nuovi da idealizzare – prima che i nostri figli non ci facciano chiamare dalla zona giochi con il sangue dal naso – mescolati ai protagonisti ormai costanti della nostra vita, il Billy come il Besta o l’Expedit che un po’ come i nostri migliori amici o le persone che davvero ci stanno a cuore sembrano condurci anche questa volta verso l’epilogo. Che però non è un epilogo perché il catalogo non ha una fine ma un perpetuo ritorno alla partenza nel labirinto dei passaggi non segnalati tra i reparti, qui reso in forma di elenco di tutti i prodotti in ordine alfabetico. Una sorta di meta-titoli di coda preceduta da un tripudio tanto multietnico quanto utopico con colte citazioni nell’appendice gastronomica a tema.

Ma non c’è da sorprendersi, anzi sì. Sorprendiamoci. Un giudizio ampiamente positivo per questo nuovo capitolo di una saga che da anni porta un po’ di Stoccolma nel nostro sdraiarci nell’ozio, nel vivere sogni agitati della settimana lavorativa, mentre ci sforziamo per andare di corpo o come scenografia per una cena romantica. Il nuovo catalogo Ikea si conferma così un altro pezzo della storia delle nostre vite, quella pennellata di giallo e blu che ci fa sognare che anche se siamo in milioni, ogni domenica pomeriggio, a riempirci il borsone di plastica di cose e matite e fogli a righe e metri di carta che chissà se useremo mai. In fondo c’è qualcuno lassù che ci ama davvero e che è prima di tutto è un architetto d’interni. Precario, ma questa è solo una boutade.

il blog e la rotazione delle colture

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Da solo, nel silenzio del box della domenica pomeriggio, mi meraviglio del sistema di mensole che continuano a reggere il peso sproporzionato di cose che sono utili solo a metà. Un’architettura di accantonamento che non ho certo costruito io, considerando che il trapano proprio non fa per me, ma che vista così, in quel luogo che sembra pensato apposta per essere sporco e dimenticato, mi fa sorprendentemente assalire da quel brivido che è unico ed è quello che il genere umano prova esclusivamente in quello stato di solitudine totale di fronte a un progetto. Due cose prima di proseguire: deve trattarsi intanto di solitudine assoluta anche se temporanea, per lasciar scaturire tale sensazione. E poi non capisco quelli che piastrellano il pavimento del garage, che già è scandaloso dover acquistare una stanza pensata per un’automobile, figuriamoci poi ad accomodarla come una sala da pranzo. Ma non è questo il punto. Io che non sono un amante del fai-da-te, nell’assenza totale di suoni e rumori e con quel groppo di piacere che mi percorre dallo sterno all’inguine, riesco persino a capire il mio vicino che è in pensione a 58 anni e che nel box ci passa la sua vita.

Capisco anche mio padre, che curava un orto ma non come fanno tutti, l’orticello dato in gestione dal comune sotto il cavalcavia dell’autostrada che poi non oso immaginare il sapore della verdura, nel senso che è sicuramente roba a chilometro zero perché chi li cura va e viene in bici. Ma i chilometri sugli ortaggi sono tutti quelli delle auto e dei tir che passano sopra, quindi alla fine è meglio la grande distribuzione. No, mio padre aveva un orto in una zona di campagna vera su una collina vera a un’ora di viaggio da casa sua. Mio padre un giorno sì e uno no, una volta in pensione, prendeva la sua Lada Niva e andava a innaffiare, potare, raccogliere, sistemare. Tornava con verdura e prodotti per tutti, roba buona e sana. Un’esperienza che però non condivideva con nessuno. Sono certo che amasse recarsi da solo per trascorrere da solo un paio d’ore con il suo orto, ad affrontare e risolvere problemi senza nessuno intorno. E siccome lo conosco bene, posso immaginarmelo stare in piedi e godersi quel brivido di cui sopra, che non saprei definire ma magari ha un nome, fermo a guardare i settori dei campi coltivati ciascuno con vegetali differenti.

Di queste cose non ne abbiamo mai parlato, e tanto meno possiamo farlo ora visto che mio papà è in quell’età in cui confonde le cose e i discorsi, si ricorda solo pezzi e, spiace dirlo, ma dal punto di vista del dialogo non costituisce più un interlocutore autorevole né è costruttivo intrattenersi con lui. O meglio, io lo faccio giusto per rispetto, perché è mio padre e spero che un giorno anche mia figlia riesca ad essere indulgente con me sul fatto che sono diventato vecchio, che il cervello mi sta andando in pappa e che non posso più proteggerla come quando era piccola. Quindi di lui in piedi che osserva il suo orto godendosi la solitudine del momento ho solo un ricordo di quelli inventati, lo desumo da come rammento mio papà prima che diventasse troppo vecchio per qualunque cosa.

Comunque, e dovreste saperlo se avete un blog, ci sono strumenti per vedere quanti passano a leggere le proprie cose. Oggi stavo dando un’occhiata a questa parte visibile solo a me che in gergo si dice back-end, e mi sentivo piuttosto fiero non tanto perché ho un’audience da paura, perché altrimenti non avrei trascorso la domenica tra box, cantina e pc ma sarei andato alla Blogfest a ritirare il mio premio di miglior cialtrone del web. Voglio dire, io e il mio blog siamo come il mio vicino baby-pensionato con le sue mensole o mio padre con il suo orto, non ricaviamo un centesimo o un quarto d’ora di nulla dalle nostre passioni, ma le coltiviamo ugualmente e per anni, finché abbiamo le forze, finché ci funziona il trapano, finché ci vengono in mente cose da scrivere. Mi sono sorpreso invece perché mi sono accorto di guardare la home page di questo blog, quella che immagino abbiate davanti anche voi, proprio nello stesso modo in cui sono sicuro mio padre guardasse il suo orto. Con quel brivido che sale e scende e che te lo danno solo e unicamente la solitudine e il silenzio, di fronte a un qualcosa che cresce grazie a te, che poi magari lo racconti dopo, ma che in quel momento davvero non vorresti condividere con nessun altro.

porno subito

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La sfida per i prossimi anni consisterà nel difendere i più piccoli da quell’infinito contenitore di schifezze che è l’Internet. Ci sono tante cose belle, eh, per carità, ma insomma. Tanto per cominciare, mi chiedo che ne sarebbe stato della nostra generazione se anziché nascondere “Le ore” nei cassetti della cameretta avessimo avuto a disposizione gratuitamente e comodamente sdraiati sui nostri letti tutto quello a cui oggi siamo esposti. Non so, forse avere cose proibite così a portata di mano le solleva dal fascino della peccaminosità, ma avremo maggiori informazioni sulle conseguenze tra qualche anno, quando i primi tecnodipendenti saranno adulti. Ci accorgeremo se c’è stato un abuso, se abuso o meno ci sono state conseguenze, se c’è ancora margine per correre ai ripari, se nessuno farà più caso a cosa e lecito o cos’è morale o se comunque è più costruttivo avere tutto alla portata di tutti, questo a ogni livello, perché magari è proprio quella la vera democrazia e gli squilibri sociali si sono sempre manifestati proprio a causa di omissioni, diritti negati, attività nascoste. Ma nel frattempo noi “esodati” che siamo a metà tra Ifix Tcen Tcen e Youporn come dobbiamo comportarci? Non sapendo come andrà a finire, nel dubbio ci muoviamo applicando i valori del passato. E per farlo correttamente, oggi, occorre essere davvero preparatissimi sulle nuove tecnologie. Sapere fin dove i nostri figli possono spingersi autonomamente, se subentrano gli approcci con cui il marketing digitale attira l’attenzione e la curiosità dei giovani, se il sentito dire che oggi si dipana a velocità vertiginosa sui social media arriva prima degli interventi dei grandi diretti interessati. O magari noi stiamo qui a preoccuparci ma intanto i nostri figli sono già oltre, usi a un sistema pornografico di per sé che va ben oltre il Lando che si poteva consultare dal barbiere o le vetrine dei giornalai stipate di letteratura a luci rosse. Sembra infatti che il sesso sia ovunque, nei racconti privati e nelle foto che la gente posta su Facebook tanto quanto nei link correlati dei motori di ricerca, per non parlare delle persone in carne ed ossa. Sta a noi prepararci a dare la lettura più appropriata a ciò che accade e a fornire le risposte alle domande che ci verranno poste. Che nell’insieme delle complessità, questa che riguarda la più privata delle sfere private non ha precedenti. Non so, magari saremo chiamati davvero a rivedere tutto dal principio, ma la sfiga è trovarsi proprio qui nel mezzo.