laureato ex-musicista con esperienza sui socialini e italiano fluente impartisce lezioni private di vita

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Diciamo che il desiderio di insegnare a vivere agli altri nella gente è superato di poco dal piacere di non farsi i cazzi propri. Oggi poi in cui basta un follower in più per scatenare gli ormoni dell’onnipotenza, noi disinfluencer ce li abbiamo proprio tutti contro. Per disinfluencer intendo ovviamente coloro i quali, giustamente consapevoli di non aver bisogno di pareri di terzi se non quelli della propria moglie che tanto non cambieranno certo opinione alle soglie della terza età, sfuggono alle discussioni anche se un po’ si meravigliano che il resto del mondo non solo abbia convinzioni differenti, ma nemmeno non ascolti le mie, pardon, le proprie o le sue, insomma le idee di quei “coloro i quali” soggetto di questo costrutto in cui mi sono arenato. Il problema è quest’epoca di -ismi di seconda scelta, ché quelli fighi ormai sono già tutti occupati e anche se un po’ retro c’è chi continua a non farne scadere il dominio. Oggi vi dovete accontentare dei movimenti di grillo, dei vegani, dei complottisti e dei testimoni di Geova, giusto per citare quelli dalla fanbase meno scopabile come diceva questo articolo qui. Pensate per esempio alla superiorità morale di chi non pasteggia a salamelle e mortazza. A me fa venire voglia di caricare mucche e maiali sui camion dei viaggi della morte, per esempio, anche se poi mi spiace vedere il panico negli occhi dei miei amici animali e farei volentieri cambio con questi terroristi degli appetiti altrui. Ci sono persino quelli che ti schifano se sprechi l’acqua della pasta e non ci lavi i piatti zozzi dentro. Che vi giuro che ci ho provato, perché a me piace comunque conoscere le usanze di quelli più intelligenti di me, però a me il risultato è venuto inqualificabile e ho dovuto caricare la lavastoviglie e rifare tutto da capo.

Ora, senza tirare in ballo i grandi colossi ideologici del nostro tempo come le religioni monoteiste o l’heavy metal o il filone tatuaggi/fantasy, l’internet come il posto di lavoro ma anche le sale d’attesa del dottore pullulano di insegnanti di ruolo di via, verità, educazione e condotta generica. Mi è capitato persino di leggere un panegirico sul fatto che è giusto dare gli smartcosi in mano ai figli perché così poi possono addirittura intensificare il rapporto con i genitori e scriversi carinerie con uazzap e signora mia che sfigati quelli che leggono ancora i libri di carta, che poi i bambini crescono analfabeti digitali e non cercano di emulare i gesti del touch su ogni superficie liscia sottomano. Avete presente, vero, quegli estremisti del digitale che ti si rivolgono drill-down con il loro verbo zeppo di storpiature anglofone. Che poi uno potrebbe anche pensare male che magari i colossi della telefonia pagano persone così per scriverne e parlarne bene e magari convincere qualcuno che passa di lì per caso o che si incontra al bar che il progresso è tutto grasso che cola, ma sapete meglio di me che è pubblicità anche questa come quei medici sponsorizzati dalla Camel che negli anni 60 e rotti negli USA dichiaravano che le Camel erano meno nocive di altre sigarette. Insomma da una parte penso che non stare ad ascoltare il prossimo sia un po’ da zoticoni campagnoli come quegli anziani che fanno di testa loro fino alla morte. Dall’altra poi quando provo a dare una possibilità alla gente e dico vediamo se ci sono posizioni più convincenti della mia, alla fine rimango sempre deluso. Sì, probabilmente sono uno zoticone campagnolo anche io. Comunque dai prezzi modici, se vi interessano le ripetizioni.

il quinto dei fantastici quattro

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Ci sono quelli che a sfiorare le persone vanno in trance e vedono il loro passato. Anche io a mio modo sono un sensitivo. Quando sto vicino alle persone percepisco odori che vorrei essere meno sensitivo, da questo punto di vista. Io non so se capita anche a voi, a me succede forse perché ho un naso sovradimensionato e tutta questa superficie di interfaccia con il mondo esterno ne amplifica la percezione. Ma se così fosse, avendo anche le orecchie piuttosto grandi, dovrei sentire a metri di distanza e invece ho perso qualche frequenza, e se così fosse no scherzo, volevo fare una battuta ma non vorrei sembrare troppo grossolano, non più di quello che sono ecco. Comunque sento gli odori credo più degli altri, perché ogni tanto faccio quelle espressioni come se stessi per vomitare dalla nausea e vedo intorno tutti tranquilli che continuano con i loro tic tic su mouse e tastiera come se fosse tutto normale. Esco la mattina di casa e mi inonda il profumo della mia dirimpettaia che un giorno vorrei farvelo sentire, perché è uno di quelli molto di moda e molto particolari, come quando ero ragazzino e c’era il Patchouli e tutte usavano questo Patchouli che non capivo mai come si pronunciasse e dicevo Paciulli anche se sembrava una specie di parolaccia. Quando mi trovo poi in ambienti nuovi con persone che non conosco lì è un grosso problema perché è difficile anche associare odori – piacevoli e non – con persone, tanto che a volte cerco di chiedermi se sono io la causa di una improvvisa manifestazione olfattiva. Provo a snasare la pelle, i vestiti, apro la borsa per vedere se ho dimenticato qualcosa di dubbio dal giorno prima. Dicono che i propri odori non si sentano più tanto siamo abituati, ma credo che quando il nostro corpo ne genera di nuovi quelli ci sorprendano ancora. Magari ti salta un’otturazione e ti meravigli di quello che una bocca – la tua – può causare. Ma in definitiva sono consapevole che questa specie di superpotere non sia un vantaggio, lo sapete che i grandi paragnosti della letteratura e dei fumetti soffrivano molto della loro condizione e avrebbero barattato il costume da ragno o la vista a raggi x con qualcosa di più alla loro portata, come saper cambiare i sacchetti dell’aspirapolvere o cucire i bottoni sulle camicie. Non per vantarmi, ma ho usato due esempi in cui sono un fuoriclasse. Nel mio piccolo, cerco di tenere un qualcosa a portata di mano da mettermi con nonchalance su naso e bocca quando vengo preso alla sprovvista, e cerco di indovinare nel minor tempo possibile la persona da cui stare alla larga e comunque mi allontano. Parto sempre dal presupposto che la causa sia la mia pelle così, se poi è vero, tanto meglio per tutti.

e sentirai la strada far battere il tuo cuore

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Domenica scorsa è andato in onda non ricordo su quale tv un programma su Fabrizio De André, un documentario con tanto di biografia alla visione del quale sono capitato più o meno al momento della comparsa di Dori Ghezzi nella vita del cantautore genovese. Sapete meglio di me che l’uomo del duemila guarda la tv con un dispositivo connesso a Internet a fianco, che in quel frangente è stato utile a mia moglie e a me per precipitarci su youtube a cercare “Un corpo e un’anima”, il cavallo di battaglia del duo di Dori Ghezzi con Wess. Roba del 74, mica paglia. E leggendo il testo che chi ha caricato il video ha sincronizzato in sovrimpressione con le immagini, una versione pseudo-live tratta da Canzonissima, il commento mio e di mia moglie è stato unanime: certo che quello era un altro mondo. D’altronde sono passati quarant’anni, e facendo il solito gioco che faccio io dell’applicare le stesse distanze temporali alle date del passato che ho vissuto ma che non mi sembrano all’apparenza così remote, quarant’anni prima del 1974 era il 1934, che agli occhi di un blogger sembra altro che preistoria.

Ma, tornando al modo di percepire una cosa banale come la musica di precedenti periodi del pop, avevo maturato una riflessione analoga proprio qualche giorno fa scorrendo i versi di “Apapaia”, il conosciutissimo brano dei Litfiba pubblicato nel 1986 in 17re, quindi 27 anni or sono. Pensavo a quanta forza ispirassero quelle parole a me ventenne di allora e a quanto provi imbarazzo il quarantaseienne che vive in me di oggi, sia per il testo pregno di idealismo giustamente adolescenziale che per l’etica e l’estetica dei ventenni della nostra contemporaneità, che di vincere una guerra da soli o in due o di conquistare l’altrui rispetto delle proprie idee non sanno che farsene, principalmente perché non trovano l’icona del “like”.

E credo che l’effetto sia lo stesso di quando vediamo la domenica in autostrada le automobili d’epoca che i nerd delle quattro ruote sfoggiano guidandole verso i raduni di fanatici come loro. Bianchine e duetti scoperchiati con autisti e passeggeri fieri di essere sferzati dal vento con i loro cappellini da sole e i foulard che svolazzano nel traffico della corsia di destra. Vasi di terracotta costretti a viaggiare tra vasi di ferro, perché a fianco di SUV e cassoni in uso oggi sembra davvero impossibile che un tempo stessimo in spazi così ridotti e tali catorci costituissero la normalità. Un metro di giudizio che vale anche per le tv a tubo catodico, i telefoni con la rotella e quasi tutti gli oggetti della quotidianità di altri tempi.

Ma per i testi delle canzoni è un discorso più complesso, voglio dire subentrano aspetti meno comprensibili come la sensibilità diffusa, il proprio vissuto, persino il lessico domestico e quanto tradizionalismo emotivo – passatemi il termine, non saprei come definirlo diversamente – ci sia nei gruppi famigliari. La morale di questa storia è che manco a farlo apposta l’insegnante di religione di mia figlia ha appena cominciato un’attività in classe con “Strada facendo” di Claudio Baglioni, un brano che mi fa venire oggi come allora la “pecòla”, come si dice da queste parti quando si vogliono evitare volgarità tipo “mi fa cagare”. Non so, è che probabilmente in “Strada facendo” c’è tutto un metasignificato che non ho mai approfondito e forse, per coglierlo e anche per mettermi nel mood con cui mia figlia e i suoi compagni di classe affronteranno il programma di religione del nuovo anno scolastico, dovrei andare a rileggere. Anzi, a leggere perché non mi pare di essermi mai soffermato sul testo.

Ma vi posso assicurare che anche senza sapere quello di cui sto parlando – che poi è la strategia narrativa con cui porto avanti questo blog – sono certo che “Strada facendo” e la mimica di Baglioni di cui ho una reminiscenza dalle copertine del 45 giri che aveva mia cugina, sia una canzone altrettanto superata di una Fiat 850. Però tutta questo meltin pot trans-generazionale mi ha fatto invece venire voglia di rivalutare il duo canoro da cui sono partito per questa riflessione, e sperare che nel secondo quadrimestre il focus di religione sarà basato su un approccio più cartesiano alla materia divina, e che si possa quindi strutturare tutto un percorso proprio su “Un corpo e un’anima” di Wess e Dori Ghezzi.

la tv che hai sempre

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Il treno che mi porta ogni giorno al lavoro è gremito di gente che lavora a Sky. Lo deduco perché molti di loro indossano il badge appeso al collo anche durante il viaggio ed è probabilmente un modo per distinguersi, quello di mostrare al resto del mondo la propria appartenenza a un network televisivo privato e a pagamento. Non ho ancora trovato il nesso tra la direttrice ferroviaria che passa attraverso la cittadina in cui abito e di cui mi servo e la filiale italiana dell’emittente di Murdoch, ma forse ogni linea di servizi pubblici a quell’ora raccoglie elevate percentuali di dipendenti perché a Sky lavorano un sacco di persone che hanno i miei stessi orari e le sedi – la mia e la loro- sono grosso modo limitrofe. Alcuni sul badge hanno scritto Sky Sport e manco a farlo apposta leggono quotidiani verticali e di settore, altri chiacchierano tra di loro e probabilmente si occupano di informazione generalista, chissà. Così ogni mattina non posso evitare di pensare che svariati anni fa ho fatto un colloquio a Sky, erano gli albori dei social media e la posizione ricercata era quella di Community Manager. Stava nascendo sulle pagine del loro sito web una community rivolta agli utenti Sky e dedicata ai programmi televisivi, con il plus del coinvolgimento di personaggi del piccolo schermo noti ai telespettatori. Facebook non esisteva ancora e l’avere la possibilità di un rapporto virtuale con le celebrità, sentirsi alla pari con queste star di provincia poteva in effetti costituire una formula vincente per motivare gli abbonati a partecipare alle discussioni online. Il colloquio era andato nel peggiore dei modi perché il selezionatore era un giovanottone palesemente frustrato dalla sua impresentabilità fisica tradotta in arroganza che, come di sovente capita, non era affatto competente in materia ma era solo un project manager informatico prestato al marketing digitale. Lo sapete poi che quando un colloquio non va in porto la colpa è sempre dell’azienda e mai del candidato. Ricordo però la meraviglia della reception mentre attendevo di essere ricevuto, un tripudio di schermi a dimensioni innaturali con partite di calcio e simone venture in scala uno a uno posizionate per colpire il visitatore foresto come me. L’addetto alla sicurezza, soggetto a quel bombardamento audiovisivo per gran parte della sua giornata, mi aveva confidato che tutta quella tv senza sosta gli dava poi problemi alla sera, quando a casa moglie e figli lo costringevano sul divano a vedere qualcosa insieme. In quello scambio di battute ho realizzato che, non essendo un fruitore, non so quanto mi sarebbe stato possibile lavorare lì dentro. Non sapevo e non so nulla di Sky, quando l’identificazione con il brand che ti dà da mangiare oggi fa la differenza. Questo spiega i badge sul treno e la Gazzetta per tenersi informato su quello di cui ci si dovrà occupare per le successive otto ore. Poi però ho pensato a chi lavora in Ferrari. Voglio dire, non è che tutti sono possessori di una macchina da formula uno.

comunque che la Arco di Castiglioni fosse una lampada esclusiva lo si vede da qui

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costi quel che costi

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In effetti non sono poi così poche le persone a cui non piace fare i preventivi. Mettere tra gli interessati e l’oggetto del loro interesse un costo non risiede nei temperamenti più comuni perché ci sono ancora in giro molte tracce di quella purezza un po’ romantica secondo cui le cose hanno un loro valore di per sé né identificabile tantomeno oggettivamente monetizzabile. Un po’ per lo sforzo impiegato per mettere a frutto lavoro, fatica e – perché no – creatività, al termine del quale l’idealizzazione del prodotto gioca un ruolo spesso fondamentale. Subentra però una visione assoluta dell’opera finita secondo cui il passaggio da materia prima – tangibile e non – a semilavorato non ha un prezzo e l’unica chance è mettersi a pesare l’uno con altri già valutati, anche appartenenti ad altri settori, e capire se tempo e sudore hanno sistemi di misurazione diversi a seconda della mano o della mente che è intervenuta. Ma questo, come sappiamo, costituisce uno dei fattori principali che regola l’economia credo sin dalla sua comparsa tra i passatempi del genere umano. Nonostante ciò, siamo ancora qui a stupirci di chi a lavoro compiuto – di qualunque tipo – anziché presentarci il conto con relativa fattura – sto chiedendo troppo? – anticipa il destinatario del prodotto volgarmente detto cliente con quel “faccia lei” che è destabilizzante quanto qualunque risposta vaga laddove si ha bisogno di certezza. Il rischio, si sa, in questi frangenti è duplice. Lasciare l’iniziativa di valutazione a chi è investito di un conflitto di interessi grande come una casa può da una parte umiliare l’artefice del servizio con una manciata di spiccioli, di fronte alla quale ci sono pure quelli che, in un impeto di orgoglio, rifiutano la mancia e rilanciano il primato della gratuità rispetto alla propria sottostima. D’altra parte, pagare un’enormità un qualcosa che ne vale come minimo il cinquanta per cento ti fa girare i coglioni perché insomma, non è che a uno i soldi glieli regalano. Resta il fatto che produzione e commercializzazione non sempre risiedono nella stessa indole, dal momento che il denaro puzza e l’ingegno no. Che poi mi dovete ancora spiegare di che cosa puzza, al massimo ti lavi le mani dopo averlo toccato ma se usi la carta di credito il problema non si pone nemmeno. È sull’ingegno, piuttosto, che invece avrei qualcosa da ridire.

il popolo unito non sarà mai vinto, ma a pensarci bene anche un pareggio è sufficiente

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Chiudiamo gli occhi e dimentichiamoci per qualche istante del congresso, della segreteria, delle larghe intese, di Renzi, ma poi riapriamoli perché altrimenti leggere questo post risulterebbe piuttosto difficoltoso. Ebbene, in quegli istanti di buio e di oblio restano i pillar, come si dice nel marketing, del nostro essere persone di sinistra, i valori e le battaglie e tutto il resto che oggi è ancora più preistorico e di minore interesse dei cartoni degli anni 80 e del biondino degli 883. Sotto sotto, anche il più bieco dei rottamatori al terzo bicchiere di lambrusco si ravvede a ritroso fino all’amnistia di Togliatti. Il lato positivo è che tra le cose che ci fanno sentire degli alieni mentre percorriamo una volta o due le strade del centro in numero sempre inferiore e con sempre meno bandiere rosse, mi riferisco ai cortei in onore della Resistenza, degli articoli della costituzione italiana, dell’impedire raduni organizzati e apologie di fascismo che nessuno tanto conosce nemmeno il significato del termine apologia, tra tutto questo – i partigiani sono fuori concorso – quello che mi fa ancora battere il cuore di rivalsa oggi come allora è la sfortunata storia di Salvador Allende, del popolo cileno nel 73 e del golpe organizzato dalla CIA (non lo dico solo io ma anche Henry Kissinger), a maggior ragione che 40 anni dopo la questione mica è risolta. Parliamo noi, mi direte, che a 70 anni dalla guerra civile siamo ancora qui a non nascondere simpatie per il perfido traditore mascellone giustamente appeso a testa in giù. Comunque come molti di voi ho preso a cuore il colpo di stato di Pinochet anche grazie agli Inti Illimani, che con i loro canti intrisi di dignità muovevano gli animi dei comunisti europei, almeno quelli, a sposare la causa della loro gente che poi era la gente tutta, la stessa che oggi fa pazzie per le sigarette elettroniche, vota Grillo e non riesce a rinunciare ai pacchetti completi delle tv a pagamento. Poi è successo che anni fa ho avuto finalmente l’occasione di vedere gli Inti Illimani dal vivo. Non ho pensato due volte ad acquistare il biglietto del loro concerto, pronto insieme a un paio di amici a levare il pugno per cantare tutti insieme con la pelle d’oca l’imbattibilità del popolo unito, ma quella sera di fine estate, dopo appena qualche canzone, una specie di uragano ha interrotto il concerto impedendone il seguito e lasciando il mio desiderio di ribellione ai soprusi nazifascisti irrisolto. Un pezzo come quello in questione era senz’altro previsto come ultimo bis, l’apoteosi del romanticismo socialista. Me ne sono andato con una voglia di rivalsa corale insoddisfatta, con la magra consolazione che della formazione originaria del gruppo di esiliati cileni era ormai rimasto poco, e che comunque avrei trovato una connessione ADSL flat a casa ad aspettarmi. Il concerto l’hanno poi ripetuto l’anno dopo, alla successiva edizione della stessa rassegna di musica sudamericana. Lo ha visto l’amico con cui mi ero recato l’anno prima che ringrazio per aver aspettato fino alla fine e per aver levato il pugno in aria anche per me, con voce da gigante e gridando adelante.

in bocca al lupo

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Ok e adesso voi mi dite che cazzo avete da sorridere stamattina. A partire da te che ti sei messa in casa un compromesso ingombrante come un armadio in legno massello, che almeno potevi prima dare un’occhiata al catalogo Ikea e cercare una soluzione più moderna, a basso costo, su misura e soprattutto da assemblare in autonomia con le solite brugole che, non so voi, ma in casa mia ormai ne ho un cassetto pieno. Invece hai abbandonato i tuoi avi per una cittadinanza acquisita con tanto di anello nuziale e tessera sanitaria con chip integrato, che oggi ci puoi caricare sopra pure l’abbonamento ferroviario da mostrare al controllore che non riesce a togliere gli occhi di dosso dalla fantasia post-comunista del tuo abito da ufficio, dopo averti interrotto dalla piacevole conversazione in cirillico filtrata attraverso un dispositivo che costa quanto una mia mensilità o giù di lì. E tu, attempato impiegato che sonnecchi con gli auricolari sproporzionati rispetto alla canizie tipiche della tua età che mi ha fatto riflettere, mentre ti beavi lungo un ritmo e una melodia a me invisibile, su quale musica potrò mai ascoltare tra quindici o vent’anni, sempre che ronzii e acufene a corollario non prendano il sopravvento trasformando il mio apparato uditivo in un inutile e obsoleto impianto hifi di quelli che non butti via perché gli sei affezionato, ma finiscono in cantina a ospitare ragni e altri piccoli insetti amanti delle esperienze umide nei seminterrati. Io non ho dubbi se non che cosa utilizzerò come dispositivo. Ma mi sembrate tutti così soddisfatti da farmi rimpiangere quei giorni in cui ci sembra che ci guardino tutti e allora rimandiamo le nostre ansie allo specchio delle brame da passeggio, ubicato nei finestrini fumé delle auto da camorrista quanto nelle vetrine dei parrucchieri cinesi, che sono loro i primi a rivolgersi a parrucchieri cinesi considerando le zazzere da j-rock. Con una formula di cui a malapena ricordiamo il codice PIN, evochiamo un interlocutore soprannaturale che ci dica perché invece noi non ridiamo più, non ci alziamo con il piede giusto per collocarci nel modo più conforme possibile all’interno dello spazio che la società ci paga per occupare e dal quale pagheremmo per allontanarci di gran carriera, ventiquattr’ore alla mano e fiduciosi il meno possibile nel domani, proprio come diceva quel tizio che in un’antica quanto celebre ode sosteneva di vivere alla giornata.

la coda per i posti chiave, ma almeno questa volta mi sono svegliato in tempo

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Ritorno sull’argomento solo per ricordarvi che questo eccesso di rilassatezza non è degno di noi che sin dagli anni remoti della nostra comparsa abbiamo iniziato a dominare il mondo e costruito civiltà eterne, fino a evolverci a un ritmo senza precedenti per poi non essere in grado nemmeno di far funzionare correttamente un sito su Internet Explorer 8. Come ci comporteremmo di fronte a una mandria di animali preistorici infoiatissimi per la carne cruda umana noi che di mestiere ci occupiamo di social media e storytelling aziendale? Ma senza andare agli albori della nostra storia, che cosa faremmo a pochi metri dalle trincee nemiche con una baionetta montata su un fucile di fabbricazione americana noi che siamo abituati a riavviare le cose per risolvere i problemi più contingenti? C’è troppa gente che fa queste cose per noi e nelle cui mani mettiamo la nostra vita. Neurochirurghi, elettrauto, psicologi, personal trainer e responsabili di palinsesto hanno la nostra salute e il nostro equilibrio in pugno e noi ci fidiamo perché non potremmo fare altrimenti. Se siamo fabbri del nostro destino, non potremmo essere anche idraulici delle nostre emozioni o carrozzieri del nostro benessere fisico? Pensate se un giorno chi tira le fila del nostro progresso decidesse di ritirarsi in pensione e aprire un chiosco a Puerto Escondido, che poi quanti cazzo di chioschi gestiti da europei frustrati ci sono in Messico, a dar retta agli status di Facebook almeno un italiano su dieci è pronto a far armi e bagagli e partire. Pensate se chi ci prescrive le pillole per l’ipertensione chiudesse bottega e tanti saluti, come l’officina dove portiamo l’auto per la revisione. O se dopo gli scioperi degli impiegati di banca, che poi che avranno da scioperare, i piloti degli aerei di linea si scoprissero tutti sofferenti da vertigine e addio voli internazionali. Noi che non contiamo nulla e non apparteniamo a nemmeno mezzo ordine professionale perché in soldoni non siamo in grado di produrre niente saremmo spacciati. Prova tu a cambiare lo spinotto di un paio di cuffie. Ce l’hai un saldatore? Sei capace a usarlo? Ecco. Se fossi investito della responsabilità di garantire un domani ai miei e ai vostri figli perché tutto ciò che diamo per scontato non lo è più, be’ ragazzi non saprei proprio da dove cominciare. La mia utilità in questo sistema di cose su cui siamo saliti in fretta e in furia è pari a zero. Il mio ruolo di imboscato come certi impiegati dal lavoro garantito prima o poi verrà smascherato. E c’è poco da ridere, so benissimo di non essere il solo e anzi, tutti voi che mi date corda dovreste saperlo. Quindi facciamo che ci reggiamo a vicenda il gioco ancora per un po’, almeno fino a quando ci sarà permesso e qualcuno di qualche stanza dei bottoni reale o virtuale ci scoprirà e ci chiederà un report di quello che abbiamo combinato in tutto questo tempo. Quanto a me, potrò sempre dire di essere un tipo simpatico, di saper scrivere in un italiano più o meno decente, di saper strimpellare la pianola, di essere in grado di tirare su bambini almeno fino ai nove o dieci anni, di badare ad animali domestici purché non esotici, di conoscere molta della musica degli ultimi quarant’anni, di sapere a memoria il testo di Fight da Faida di Frankie Hi-nrg MC e, se costretto, di saper sostituire i lampadari. Mi basta una scala e il cacciavite quello più piccolo, quello adatto alle viti per collegare i fili elettrici. Previo distacco della corrente, ovvio. A voi la palla, vediamo chi ci sta a costruire il nuovo ordine mondiale a partire da domani e con quali mansioni.

un banale post di bentornato in ufficio

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La differenza più eclatante consiste nel fatto che quando sei in vacanza non senti le persone intorno a te elaborare e mettere in pratica quelle piccole tecniche di sopravvivenza esistenziale che poi, il giorno del rientro in ufficio, ti rendi conto che non ti sono mancate per nulla, soprattutto le tue che eri riuscito a stemperare lungo i tempi senza capo né coda della permanenza nella località di villeggiatura prescelta. Dev’essere questo il substrato di nevrosi che ci fa vivere così male, escrescenze invisibili a occhio nudo che calpestiamo camminando fiaccandoci i piedi e, conseguentemente l’umore. Acari voraci che abitano i nostri materassi e i nostri guanciali che inducono i pruriti che ci svegliano di colpo nel cuore della notte. Viviamo con un asset di microstrategie a cui ricorriamo in continuazione e di cui ci vergogniamo proprio quando siamo al mare con i nostri cari, o lungo i sentieri di montagna, o quando ci beiamo di un’opera d’arte vista fino ad allora solo nelle foto su Internet. Ci imbarazzano quando non servono perché siamo nudi quanto il prossimo, o in quattro gatti in spazi immensi, o immersi in una babele di lingue in mezzo a gente di tutto il mondo e il nostro blaterare neolatino è meno che incomprensibile. Così quando ricomponiamo i pezzi delle nostre vite e rientriamo nei nostri ruoli, vicino a chi non è ancora andato in ferie o è tornato già da un po’ ci rendiamo conto delle stranezze del genere umano, dell’impegno sovradimensionato proprio perché costante per ovviare a minuscole ansie da scansare come cacche di piccione. Cose di cui siamo riusciti a fare a meno perché se ne può fare a meno. Cose pratiche, superstizioni, atteggiamenti, parole, gesti e finzioni che siamo certi essere necessari per non lasciarci travolgere da quelle altrui. Oggi ne ho già rimesse in sesto un paio. Ottimizzare i tempi per non perdere il treno, evitare il barista ottimista in eccesso – è il suo lavoro – che sotto sotto mi induce il senso di colpa di non consumare cappuccio e brioche nel suo locale, resistere ai racconti di inutili viaggi a Las Vegas, concentrarmi su un romanzo radicalmente triste, camminare in strade prive di lavori pubblici per non provare sollievo di fronte a mestieri davvero faticosi, quando ho bisogno di pensare che il mio sia un calice amaro e che c’è tutto un anno davanti per mandarlo giù a piccoli sorsi.