capire l’acca

Standard

Ero mosso da una voglia irrefrenabile di chiedere all’impiegato vestito da infermiere che ha registrato i miei dati propedeutici alla somministrazione del vaccino che sport praticasse. Il camice era così teso all’altezza dei suoi bicipiti che non riuscivo a staccare gli occhi di dosso da quelle braccia inutilmente possenti per l’attività di data entry. Mi piacerebbe trascorrere almeno un giorno della mia vita con un fisico così, per vedere cosa si prova. Probabilmente mi divertirei a dare ceffoni a destra e a manca, anzi a destra e basta. Anche se, e immagino di avervi già informato, se fossimo provvisti di questa funzionalità mi reincarnerei per 24 ore in Stefano Bollani e non sprecherei nemmeno un minuto senza suonare al piano tutto quello che mi passa per la testa. Comunque, con l’infermiere, mi sono trattenuto per più di un motivo. 1. Non era il momento. 2. Non volevo che la mia curiosità passasse per broccolaggio, era del sesso sbagliato. 3. Era straniero e già stentava nella traduzione delle mie risposte in un linguaggio adatto alla digitazione finalizzata al completamento del certificato sul programma che stava utilizzando. E, last but non least, sono strasicuro che avesse i capelli tinti di nero. Il colore si diradava in un modo anomalo sulla pelle marrone scuro del suo cranio, fattore che ho interpretato vincolato a un’età non più verde. Io di quelli che hanno il fisico così e hanno più o meno i miei anni non mi fido granché. Quando vedo Lollobrigida tutto compresso nei suoi completi da fratellista d’Italia o l’ex compagno della presidentessa del consiglio gonfio come un bignè, penso a quanto tempo perdono in palestra anziché favorire le arti liberali, che poi la mia è tutta invidia. Quando mi sposto per la scuola con il mio portamento claudicante, curvo, asimmetrico e con gli abiti – sempre quelli – che mi cascano addosso, mi chiedo cosa pensino i miei colleghi. Anzi, lo so e lo leggo negli occhi di Rosina, la bidella, che mi fa notare che quando mi vede ho sempre qualcosa di tecnologico in mano, anche quando porto una ciabatta, nel senso della multipresa, a chi ne ha bisogno. Gli edifici scolastici vecchi come quello in cui lavoro io hanno impianti elettrici molto datati e gli accrocchi tra prese grandi, piccole e schuko sono la risposta concreta ai corsi sulla sicurezza che ci propinano con cadenze ossessivo-compulsive. Non è raro scorgere gruppi scultorei composti da spine di diversa natura che farebbero venire i capelli dritti a qualunque elettricista dotato di buon senso anche se, per ora, chi rischia le conseguenze delle dita nella corrente sono solo i docenti e i bambini educati a casa liberi di fare qualsiasi cosa. Rosina mi è molto simpatica perché è la prima collega che ho conosciuto – si è rifiutata di farmi entrare, il primo giorno, perché non mi aveva mai visto prima – e, al rientro dalle vacanze estive, ci abbracciamo sempre. Se non deve pulire o sbrigare qualche altra faccenda, se ne sta seduta a completare parole crociate o a leggere. La scorsa primavera la vedevo tutta immersa ne “Il minore”, il libro del principe Harry. Ora è circa a metà di una biografia di Frida Kahlo che curiosamente chiama Frida Osho, forse pe la presenza fuori posto, almeno secondo i canoni grammaticali che si imparano in una primaria come la nostra, dell’acca nel cognome. Lunedì scorso ho provveduto a una supplenza in una prima ed è grazie a lei che me la sono cavata con la parte più ardua della didattica, e cioè aiutare i bambini a indossare piumini e annodare sciarpe. Avevo dimenticato questo aspetto collaterale del mio mestiere. I miei alunni – ho una quinta – ormai sono grandi e già non mi stanno più ad ascoltare. Sono già all’ultimo anno del mio primo ciclo, chissà come sarà ripartire da capo.

montascale per il paradiso

Standard

C’è solo una rockstar la cui vecchiaia mi è insopportabile ed è Robert Plant. Non chiedetemi il perché, non sono nemmeno un fan accanito dei Led Zeppelin anche se mi sono sentito in dovere di possedere l’intera discografia in vinile, malgrado i miei gusti siano decisamente meno hard rock. Eppure per i Led Zeppelin nutro una smodata venerazione – insieme ad altri svariati miliardi di persone – che si è sviluppata solo di recente. Negli anni ottanta poche cose erano fuori contesto come la loro musica, poi il grunge ha riappacificato gli animi dei rockettari e dei punkettoni e alla fine ho dovuto ammettere che alcuni dei loro dischi sono davvero eccezionali. Per farvi capire, mi fa più tenerezza Robert Plant da anziano che Robert Smith, per lo meno il primo si concia meno da uno che non ha ancora risolto i problemi con la propria adolescenza, anche se il secondo resta al vertice di ogni mia classifica delle personalità del mondo mondiale. Lo avrete visto tutti con i lucciconi, qualche anno fa ai Kennedy Center Honors, bearsi estasiato per l’ennesima volta dell’eccezionalità della sua vita e della sua musica, e avrete letto della sua performance di beneficenza in occasione del “An evening with Andy and special guest”, la serata organizzata da Andy Taylor dei Duran Duran in collaborazione con il Cancer Awareness Trust dello scorso 21 ottobre. Chi l’avrebbe mai detto che, un giorno, si sarebbero trovati due artisti dalla carriera così lontana a suonare insieme “Stairway To Heaven” che, musicalmente, si trova agli antipodi del New Romantic. Il cantante dei Led Zeppelin ha 75 anni, ovviamente agli acuti dell’ultima strofa non ci arriva più, ma rimane l’insuperabile concentrato di storia della musica che conosciamo.

pelo

Standard

Ho un’amica che compra una qualità di cibo per gatti pensata per i periodi dell’anno in cui il pelo è più arruffato. Sostiene che queste incertezze nei cambi di stagione non siano vissuti al meglio da Scheggia, la sua gatta. L’escursione termica in questo strascico di estate tracimata nell’autunno, aggiunta all’alternarsi di alta e bassa pressione, confonde il naturale adattamento dei felini all’ambiente in cui vivono. Perdono il manto estivo soppiantato da quello dei mesi più freddi, ma ecco che il ritorno di un clima temperato genera scompiglio nei loro processi vitali e così il pelo non capisce più niente e si arruffa. Quest’estate la mia gatta, che ormai è anziana, ha avuto qualche problemino di salute dovuto principalmente alle conseguenze del grande caldo sul suo apparato digerente. In genere l’estate non fa bene ai gatti, mi ha rassicurato il veterinario, che ha sottoposto la mia Doremi a un paio di punturoni e le ha prescritto del cibo di tipo gastrointestinal. Io pensavo si trattasse di una marca, invece ho scoperto trattarsi di un prodotto trasversale commercializzato da quasi tutti i brand di pet food da sottoporre ai gatti con problemi di dissenteria e vomito. Scartabellando tra gli scaffali avevo notato anche scatolette e buste di crocchini adatte per i casi di pelo arruffato e, tra di me, avevo pensato che nessuno se ne sarebbe mai servito. Voglio dire, è già tanto che i gatti non stiano tra di loro all’aperto a cacciare topi e uccellini o abbandonati ai caselli autostradali o, come succedeva ai tempi di mia nonna, a contendersi scarti nella spazzatura delle cascine di campagna. Scherzo eh, ho molti lettori amanti degli animali. Anzi, sono fermamente convinto che tutta questa attenzione a cani e gatti abbia definitivamente avviato un nuovo periodo storico, quello dell’animalesimo, in cui la bestia domestica è il vero fulcro della società. Tutta questa attenzione permetterà la loro evoluzione ed è un bene, per lo meno siamo sicuri di lasciare tutto questo ben di dio a esseri umani con un po’ di buon senso.

The National – Laugh Track

Standard

Il resto delle pagine di Frankenstein non delude le aspettative suscitate dalla pubblicazione delle prime due, solo qualche mese fa. I The National sono autori di trame senza tempo e si confermano i veri grandi classici della musica contemporanea. Ci sarà ancora un capitolo della storia?

Altro che Laugh Track. Non c’è niente da ridere. A certi appuntamenti bisogna arrivarci pronti, per questo io abolirei i dischi a sorpresa. La liturgia di un nuovo album dev’essere rispettata religiosamente. Ci vogliono uno o un paio di singoli con qualche mese di anticipo, i video e le campagne sui social per scaldare i fan. Ci vuole il tempo per prenotare il vinile in anteprima, magari l’edizione limitata, colorata e autografata, o anche banalmente il conto alla rovescia per la sua pubblicazione sulle piattaforme di musica liquida. Senza pensare a cosa abbiamo bisogno noi addetti ai lavori, a partire dalla possibilità di ascoltarlo settimane prima degli altri per preparare una recensione da far uscire a ventiquattr’ore dal lancio ufficiale, manco se il pubblico non aspettasse altro di sapere, noi signori nessuno, cosa ne pensiamo di questo o quell’artista.

E, in questo passaggio di autoreferenzialità passivo-aggressiva, ne approfitto per citare me stesso, quando scrivevo che First Two Pages of Frankenstein fosse il disco migliore dei The National, almeno fino a quello successivo. Perché un secondo album a pochi mesi di distanza da quello precedente non può che costituirne la sublimazione. E la copertina non lascia dubbi: Laugh Track è la versione a colori di First Two Pages of Frankenstein.

D’altronde, se ci pensate bene, era indubbio che in quattro anni ci fosse stato tutto il tempo per mettere insieme qualcosa di più della manciata di (ottime) tracce del primo dei due dischi del ritorno dei The National sulle scene. Non solo: se tutto fosse stato concentrato nella stessa pubblicazione, cioè se First Two Pages of Frankenstein e Laugh Track fossero stati confezionati in un unico album triplo o quadruplo, sarebbe sembrato inutilmente prolisso e ci avrebbe preso più per sfinimento che per amore dei The National, con il rischio di non riservare l’adeguata attenzione a certe perle che, fiaccati dalla sovraesposizione, avremmo ascoltato con un po’ di sufficienza snob.

I detrattori della più importante band di questo primo quarto di secolo, a fronte di quasi trenta brani costruiti più o meno con la stessa formula (due o quattro battute con il giro di accordi della strofa e poi spazio alla consueta melodia baritonale di Matt) avrebbero sicuramente trovato nuovi proseliti. In quello che, condizionati da abominevoli pregiudizi, alcuni avranno già scaricato illegalmente (la versione fisica esce a novembre) e archiviato nella categoria degli album complementari ad altre cose trite e ritrite, ci sono invece numerosi spunti che conferiscono a Laugh Track lo status di disco a sé (e decisamente superlativo). Questo indipendentemente dal fatto che, al netto del bimbo che gioca a una specie di “indovina chi sono” con la testa di un manichino, un ascolto superficiale potrebbe far supporre che, in comune tra i due dischi, ci sia poco più che l’anno di rilascio.

Se le trame delle tracce di Laugh Track sono palesemente contemporanee alla preparazione del capitolo che l’ha preceduto (credo che i temi ricorrenti dei testi ne costituiscano una prova piuttosto inconfutabile), il consolidamento, la successiva forma definitiva e (presumo) la conseguente registrazione è avvenuta durante il tour di First Two Pages of Frankenstein. Troviamo quindi una maggior coralità nelle soluzioni di arrangiamento, meno escamotage da studio e più passione live (su tutte, la traccia finale “Smoke Detector”, un brano pressoché infinito in cui l’approccio da estasi da palcoscenico risulta fin troppo evidente). Le parti ritmiche, a partire dal modo di accompagnare con la batteria le canzoni che è proprio di Bryan Devendorf, tornano a conferire ai pezzi quella naturalezza e quella fluidità a cui siamo abituati. Uno stile qui più umanizzato e meno da preset di drum machine che si adatta perfettamente alle esigenze delle canzoni.

Il punto è che i The National hanno quel qualcosa per cui li metti sul piatto e non ci pensi più. Ogni tanto ci destiamo dal rapimento a cui ci induce la loro musica e ci chiediamo se non abbiamo già sentito quella soluzione armonica, quell’arpeggio, quel ritornello o quei versi in rima in un’altra canzone dello stesso disco o in uno degli altri duemila che hanno dato alle stampe nei decenni scorsi. Io sono convinto che non si tratti di stanchezza compositiva. Non è colpa loro. Semmai è frutto di un deja-vu o di una di quelle asimmetrie percettive per cui i nostri emisferi cerebrali colgono una sensazione un millesimo di secondo uno prima dell’altro, ve la vendo così, non so nemmeno se sia scientificamente attendibile ma tanto non ne capite un tubo tanto quanto me e poi, nell’era delle fake news, chi ci fa più caso.

E se non vi ho ancora convinto del voto altissimo che merita Laugh Track, senza dubbio tanto quanto quello che ho assegnato a quell’altro perché, appunto, i due dischi alla fine sono reciprocamente propedeutici (potrei dire lo stesso anche rispetto a tutti gli altri dischi e, ci metto la mano sul fuoco, per tutti quelli che verranno in futuro), un dieci dato al decimo ellepi dei The National comporta almeno lo sforzo di stilare una lista di dieci buoni motivi per giustificare il giudizio stellare.

Il primo (1) è la presenza di “Weird Goodbyes”, il brano scritto a quattro mani con l’amico Justin Vernon alias Bon Iver, uscito lo scorso anno e che ci chiedevamo tutti che fine avesse fatto, dopo esser stato estromesso da First Two Pages of Frankenstein. Il secondo (2) è “Space Invader”, il mio brano preferito, un pezzo metà canzone dei The National e nei restanti tre minuti farneticazione rock ad alto tasso di psichedelia, un nuovo pretesto per Matt Berninger per gettarsi tra la folla di padri tristi ai concerti, con il microfono con il cavo più lungo del mondo, a far impazzire fonici, addetti alla sicurezza e backliner.

Aggiungo quindi il ritorno dei giochini con i tempi dispari (3), mai ci fu un incipit di album altrettanto imballabile di “Alphabet City”, sotto questo punto di vista. E poi ancora (4) la full immersion nell’atmosfera così The National che più The National non si può, e mi riferisco a “Turn Off The House”. Il ritorno (5) dell’inconfondibile timbro di Phoebe Bridgers nella title track, che non fa per nulla rimpiangere l’assenza, a questo giro, di Taylor Swift. E, a proposito di guest femminili, ecco l’esordio di Rosanne Cash (6) come controcanto di Matt in “Crumble”, non a caso la traccia più alternative country del disco. Poi la presenza (7) da una parte di quei brani delicati che solo i The National sanno fare, come “Dreaming”, “Tour Manager” e “Hornets”, dall’altra (8) di “Coat On A Hook”, una road-song che sembra senza fine, da ascoltare nei coast to coast con i finestrini giù.

Infine (9) c’è la compattezza e l’organicità di questo album, forse paradossalmente uno di quelli con maggior identità da cima a fondo della band, un’impressione esemplificata perfettamente dalle vibrazioni che ci dà un brano come “Deep End” e che ci porta inevitabilmente alla decima (10) delle reason-why. Malgrado la mezza età, il tempo passato a calcare i palcoscenici, l’inesauribile vena creativa, la volontà di restare sempre i The National e il non bisogno di cercare altro, la band dei doppi fratelli più un crooner un po’ depresso è tutt’altro che invecchiata e superata. A giudicare da come è andata la scorsa volta, se entro dicembre uscirà un terzo disco sarà un successo senza precedenti, ve lo assicuro.

i cinquant’anni di Selling England By The Pound

Standard

La prima volta in cui ho ascoltato Selling England By The Pound dei Genesis, l’album che in questi giorni compie mezzo secolo, era la primavera dell’83. Lo so perché ricordo perfettamente quel momento. Facevo la seconda liceo e stavamo andando in gita. Ero seduto sul pullman dietro ad Alessandra, una compagna di classe per cui nutrivo una profondissima devozione che mi spingeva a starle sempre nei pressi, un impulso interrotto poche settimane più tardi, quando si presentò a scuola con una permanente che non le donava per niente. Ma in quell’uscita didattica portava ancora i capelli lunghi e lisci. Fu lei a prestarmi il suo walkman Sony con la cassetta che stava ascoltando dentro senza che nemmeno glielo chiedessi, un gadget da famiglia benestante di cui, come quasi il resto dei compagni, viaggiavo sprovvisto. Indossai con la massima cautela le cuffie, la cui spugna protettiva grigia era intrisa del profumo da teenager che usava lei – poteva essere qualcosa tipicamente anni ottanta come Baruffa o, agli antipodi socioculturali, un retaggio degli anni settanta come il Patchouli. Premetti il pulsante play e una voce nuda, su una melodia priva di un sottofondo musicale, così diversa rispetto al modo in cui la conoscevo io e che era il timbro di “Shock The Monkey” o di “Games Without Frontiers”, mi chiese a bruciapelo se sapessi dirgli dove fosse il suo paese. Poi la canzone continuò, e dopo la sorpresa di quell’attacco mi rilassai, abbandonandomi nell’ascolto sul sedile del pullman. Ecco, se potessi scegliere un superpotere, vorrei poter riascoltare per la prima volta certi dischi, a partire da Selling England By The Pound, e bearmi dell’effetto che fa.

Ma torniamo alla gita. Spostai lo sguardo fuori dal finestrino, intorno a me scorreva una natura approssimativa ma non saprei dire dove stessimo transitando, né rammento quale fosse la meta di quel viaggio. Intercettando alcuni tratti del mio viso riflessi nel vetro, forse in quell’istante maturai gli effetti dell’amore impossibile a cui anelavo e la certezza che quel disco, i cui dettagli scoprii solo in seguito, mi avrebbe accompagnato per il resto della vita anche se, di lì a poco, i miei gusti musicali si sarebbero radicalmente allontanati da quelle sonorità. Qualche mese dopo uscì Construction Time Again dei Depeche Mode, rimasi folgorato e, da allora, anche se i Genesis (con Peter Gabriel) sarebbero rimasti per sempre al vertice della lista delle sensazioni più belle mai provate, la mia estetica musicale non tornò mai più indietro.

Il fatto è che la percezione del tempo che scorre è inversamente proporzionale a quanta vita abbiamo già vissuto, su questo non ci piove. Uno dei pensieri che mi dà così tanta ebbrezza da farmi perdere l’equilibrio – una cosa banale, eh, niente di che, abbassate pure le vostre aspettative – è che l’anno in cui sono nato dista dalla fine della seconda guerra mondiale lo stesso tempo che intercorre dal momento in cui sto scrivendo questa cosa che leggete a quello in cui i Massive Attack pubblicarono Mezzanine, un disco che, per come suona e per la frequenza con cui se ne sente parlare quotidianamente da chiunque, potrebbe essere uscito ieri.

Quei dieci anni – dal 73, anno di uscita di Selling England By The Pound, all’83, la gita con il walkman di Alessandra e la sua cassetta dei Genesis, corrispondono allo stesso arco temporale che intercorre tra l’oggi e, per fare un titolo a caso del 2013, Trouble Will Find Me dei The National, un disco di musica attualissima. Tutta colpa dell’eterno presente che va avanti dall’inizio del duemila e che ha ridotto quasi un quarto di secolo a poche indistinguibili stagioni.

Invece, in quei dieci anni che separavano il mio primo ascolto di Selling England By The Pound dalla sua pubblicazione, era trascorsa un’era geologica. Gli anni ottanta, con uno spoils system culturale mai visto prima, avevano mandato in pensione i capelli lunghi, l’organo hammond, le zampe di elefante, le suite rock con i brani lunghi un’intera facciata e le radio libere, mettendo in pratica un processo di semplificazione culturale a beneficio del pop. Ritmi pari, sintetizzatori, radio edit, poca tecnica e network commerciali con ballerine in costumi striminziti.

Non so dirvi quando acquistai la copia che possiedo tutt’ora di Selling England By The Pound, ma mi piace pensare che, a ridosso della mia svolta dark new wave, il mio me stesso di allora abbia investito la sua paghetta mensile in un disco che sono sicuro di conoscere meglio di qualunque altra cosa al mondo. Posso anticipare qualunque passaggio della sua tracklist, dall’incipit di Dancing with the Moonlit Knight al fade out di Aisle of Plenty. Sapevo addirittura accennare al piano l’intro di Firth of Fifth.

Non vi sto a fare la storia e l’analisi brano per brano di uno dei più importanti prodotti della creatività del genere umano che, come credo, conoscerete tutti a menadito e sono sicuro che sapreste descrivere meglio di me. Vi dico solo che spero che qualcuno mi avvisi quando sto per morire almeno 5 minuti e 19 secondi prima, giusto il tempo per ascoltare, per l’ultima volta, il finale strumentale di The Cinema Show e portarlo con me nell’eternità, o qualsiasi cosa ci sia.

la bandiera del mondo

Standard

Il modo da divano più efficace per schierarsi tra l’una o l’altra fazione delle svariate guerre che funestano ormai irrimediabilmente la quotidianità è quello di sfoggiare la bandiera del cuore (Ucraina o Russia, Palestina o Israele) a corredo del proprio profilo social. Un vero e proprio biglietto da visita pensato affinché i beniamini della parte avversa sappiano già in partenza che è meglio evitare certe discussioni e i cosiddetti leoni da tastiera non corrano il rischio di esporre sotto il fuoco amico i proprio compagni di branco. Ho letto da qualche parte qualcuno che si chiedeva quale fosse la bandiera del mondo, al netto di quella delle Nazioni Unite così tanto vituperata, l’unico vessillo in grado di superare qualunque dualismo (a meno di un’invasione aliena a seguito della quale, sono certo, ci divideremmo di nuovo).

Nell’attuale corsa ai nazionalismi e a chi ce l’ha più sovranista anche noi ci siamo scoperti primatisti europei soprattutto grazie ai meloniani e ai fratellisti d’italia che hanno gettato sul fuoco della nostra deprivazione culturale il combustibile più efficace per rinvigorire la fiamma tricolore dell’italianità. A me tutta questa agiografia del made in Italy mi dà così fastidio da rendermi invise persino le nostre nazionali di pallavolo, unico sport che suscita il mio interesse. Si è appena conclusa una per noi fortunatamente fallimentare stagione di competizioni continentali e mondiali che ho seguito a stento a causa della retorica dei commentatori televisivi. Meno male che abbiamo perso tutto quello che c’era da perdere. Non mi interessa il calcio o, peggio, il rugby, ma sono certo che, malgrado anche da quelle parti siamo scarsi come la merda, sia tutto un elogio della nostra resilienza che, a onor del vero, ha rotto ampiamente il cazzo. Io vorrei essere così tanto ricco da pagare gli organismi internazionali per abolire tutti i tipi di competizioni sportive in cui gli atleti rappresentano una bandiera, con ammende salatissime per i campioni che suggellano i loro successi circondando con un close-up tra pollici e indici a formare un cuore i colori che rappresentano. Sono certo che sarebbe già un passo in avanti. Basta haka, basta inni stonati a inizio partita, basta hooligan da una parte e dall’altra.

Un terreno altrettanto fertile per la narrazione del paese più bello del mondo è la comunicazione pubblicitaria. Il marketing italiano, approfittando della recente recrudescenza del trittico dio-patria-famiglia, ci dà dentro per propinarci i peggiori messaggi motivazionali sul posto in cui cui viviamo. Il risultato è che le centinaia di programmi televisivi sui nostri borghi più suggestivi al mondo o sulla nostra cucina migliore al mondo o sulla nostra forza lavoro più infaticabile al mondo o sul nostro genio più geniale al mondo o sulla nostra sregolatezza più sregolata al mondo sono interrotti da spot sui prodotti realizzati in Italia, paese dalla qualità suprema. Come se noi italiani non fossimo in grado di osservare, assaggiare, leggere, valutare e riflettere. Lo so, è vero, sicuramente sempre meno. E l’aspetto ridicolo è che tutti i popoli del mondo raccontano di essere i più bravi, i più belli, i più forti, i più intelligenti, alla fine anche il più idiota dei marziani si renderebbe conto che c’è qualcosa che non va. Poi, voglio dire, con quale faccia tosta ci paragoniamo a francesi, inglesi e tedeschi, tanto per citare i primi che mi vengono in mente? Ne abbiamo anche per gli svizzeri, che non so se avete mai varcato il confine.

E, a proposito, la pubblicità del cioccolato Novi ha un copy in cui le parole Italia e italiano si ripetono cinque volte in trenta secondi: “L’Italia è il paese più bello del mondo? Probabilmente si. Ma sicuramente è il paese più Novi che c’è. Perché Novi è il cioccolato che gli italiani amano. La poesia italiana del cioccolato. Il trionfo delle nocciole italiane del nocciolato. I raffinati abbinamenti di Novi nero nero. E anche chi non è italiano impara presto ad amarlo. Svizzero? No! Novi.” Che poi, voglio dire, Novi Ligure è un posto veramente di merda – attenzione a non confonderla con il cioccolato – e non è nemmeno in Liguria.

un’insensata voglia di equilibrio

Standard

Chi l’avrebbe mai detto che un giorno ci saremmo dovuti arrendere all’avverarsi di una profezia di un gruppo di mezze calzette come i Negramaro, quando cantavano – con voce tremante – il segno di un’estate che avrebbero sperato non finire mai, peraltro con un frontman che per farsi notare ha giocato a lungo a fare il cosplayer di Samuel dei Subsonica. Anche a scuola non si capisce più niente. Le cornicette sui fogli a quadretti con le castagne, le ghiande, le foglie morte e gli scoiattoli e le tinte tipiche di questa stagione attendono ancora il cambio degli armadi, consapevoli che si passerà direttamente dai ghiaccioli ai bastoni canditi delle strenne natalizie senza passare dalle mezze stagioni. E, oltre all’autunno, abbiamo anche bambini non pervenuti. Famiglie che – legittimamente – rientrano al loro paese di origine durante la pausa estiva e che tornano in Italia rispettando un calendario tutto loro. Non vedo problemi, ma almeno si dovrebbe avvisare i diretti interessati. Qui c’è la scuola dell’obbligo e se procrastini di un mese il primo giorno è sempre meglio comunicarlo, anche solo per evitare il rischio che si avvii la penosa trafila della notifica ai servizi sociali. Abbiamo una lista lunga quanto un foglio A4 di chi li ha visti? e che va dall’infanzia alla secondaria di primo grado. Le lezioni da noi sono cominciate il 12 e una mia alunna, dagli zii in Egitto, si è presentata due settimane dopo. Sarò ossessionato, ma io mandavo mia figlia a scuola anche con la febbre, prima che il Covid cambiasse il significato stesso di indisposizione. Un caso che fa il paio con quell’altra i cui genitori hanno una scansione del tempo tutta particolare. Spesso in ritardo a ritirare la bambina all’uscita, qualche giorno fa per un malinteso di coppia siamo stati costretti ad attendere quasi un’ora, resistendo alla tentazione di avvisare – come imporrebbe la procedura – le forze dell’ordine per abbandono di minore dopo trenta minuti. Il prolungamento della bella stagione influisce anche sull’esperienza di socialità negli intervalli. I bambini rientrano in classe dopo l’ora di gioco successiva alla mensa sudati marci e puzzolenti e vanno avanti e indietro dal bagno a riempire la borraccia per le rimanenti due ore di scuola. Io non mi faccio intimidire perché sono in quinta e vado avanti con quello che mi sono preparato per la lezione. Il nuovo anno ci ha addirittura fatto trovare un favo di vespe in giardino. Un nido in una buca profonda almeno mezzo metro che ha richiesto l’intervento dei volontari locali dei vigili del fuoco. Come vedete, non ci si annoia mai a fare il mio lavoro e se aggiungete il toner della fotocopiatrice che il nostro fornitore non ci ha ancora consegnato e Leonardo, un tipetto occhialuto della terza accanto alla mia classe che urla e scappa dall’aula per motivi ancora ignoti, con le colleghe costrette a inseguimenti che manco agli europei di atletica, il cerchio si chiude. Questo per dire che, come cantava coso lì dei Negramaro, restiamo sul filo del rasoio ad asciugare parole qui, tanto con il caldo che fa non c’è nemmeno il rischio che si bagni il computer.

Deeper – Careful!

Standard

È sufficiente un qualsiasi Bignami della musica degli anni ottanta a confermare quanto i compromessi di certi gruppi post-punk di allora, al terzo o quarto disco, abbiano permesso un’appendice insperata alla loro fortuna. Gli incesti con reggae, pop, funk, industrial e persino l’italo-disco oltre il tempo limite ne hanno abilitato la sopravvivenza (o per lo meno un dignitoso strascico) al di fuori dei paradigmi claustrofobici tipici di un genere diventato temporaneamente fuori moda. Non dobbiamo sorprenderci, quindi, delle recenti virate delle band omologhe del nuovo millennio verso altri stili. Negli ultimi mesi abbiamo incensato credibili omaggi degli Squid e compagnia bella al math-prog, al punk più sbraitato e persino alle derive cantautorali.

Giunti al terzo album, i Deeper invece ottengono il badge di fedelissimi alla linea e lo fanno in un modo tutto sommato convincente. D’altronde non c’è scritto da nessuna parte che sia necessario creare brecce nella propria comfort zone per raggiungere una illusoria scomodità solo per la fama o perché ci si sente stufi di fare sempre la stessa cosa, e ve lo dice uno che è stato azzurro di routinaggio estremo.

La sicurezza di ciò che si conosce bene probabilmente si è profilata come la via più percorribile per l’autoconservazione. La band di Chicago aveva infatti attraversato una crisi esistenziale nel corso della lavorazione del secondo album Auto-Pain, uscito nel 2020. Il chitarrista Mike Clawson aveva tristemente rinunciato prima al suo ruolo nel gruppo e, pochi mesi dopo, ancora più tristemente, alla sua vita. Sappiamo cosa succede, nel mondo della musica, quando un membro di una band si suicida, e a volte possiamo dedurre anche il perché. A questo aggiungeteci la fase storica, in quei mesi di lockdown e post-pandemia, aggravanti che hanno messo a dura prova la creatività in ogni settore artistico a fronte dei punti interrogativi del futuro.

Questo per dire che, sostanzialmente, il terzo disco dei Deeper è un ottimo terzo disco dei Deeper, freschi di approdo alla scuderia Sub Pop. Nic Gohl, il cantante e chitarrista, si conferma una delle voci migliori della nuova generazione post-punk, uno che non si lascia andare volentieri alla tentazione dello spoken-word e, quando lo sentiamo slegare le sue melodie dai solchi dell’intonazione, non lo fa solo per aggiungere una nota di trasgressione gratuita all’approccio della band. Insomma, siamo sempre dalle parti dei Wire ma in una variante che soddisfa anche i palati più tecnici. Il resto della band (Drew McBride alla chitarra, Shiraz Bhatti alla batteria e Kevin Fairbairn al basso) marciano come treni ad alta velocità e con adeguato rigore nei loro binari. Ad aggiungere valore, qualche trovata di sintetizzatori e tappeti di strings qua e là, in grado di ribadire l’auspicata algidità alle canzoni.

I brani di Careful! sono un vero compendio delle trovate compositive del genere. Riff ricavati da spigolose rincorse monodiche tra chitarre pulite che non si sottraggono al gioco di fare il verso alla linea vocale. Cassa e basso in ottavi coordinati. Dinamiche con su e giù e stop and go a dare i giusti sussulti anti-noia. Sobrietà esecutiva e ampia varietà sotto-stilistica (vi sorprenderà scoprire quante combinazioni si possono ottenere nella zona di confine tra il post-punk e la new wave più accondiscendente).

In linea con i due lavori precedenti, i Deeper si confermano il più british dei gruppi post-punk americani, e se ascoltate brani come “Bild”, “Glare” e “Build A Bridge” avrete capito che cosa intendo. Un sottoinsieme da cui si discostano lievemente “Dualbass”, tutta colpa di qualche inciampo nel blues, e “Sub”, con quel crescendo di rabbia nel finale che ci lascia di stucco, d’altronde è raro vedere i Deeper scomporsi.

Ci sono anche episodi più sperimentali riconducibili alla drum machine di “Tele”, ai richiami ai New Order (complice l’elementare riff di chitarra che si svela nel finale e che ci riporta a “Age of Consent”) e a certi guizzi alla Devo di “Fame”, il brano in cui più di tutti Gohl vena il suo timbro degli armonici vocali di Robert Smith. “Everynight” probabilmente è la canzone più riuscita di tutta la tracklist, un pezzo in cui le tastiere si impadroniscono della scena lasciando libere le chitarre di perdere il controllo.

L’album si conclude con la canonica traccia tutta su tre note, una tentazione a cui nessuna band post-punk che si rispetti difficilmente sa resistere. Ma “Pressure” non è solo questo. Nascoste dalla linearità espressiva ci sono le parole d’amore nei versi dedicati da Nic Gohl alla moglie. Il che suona strano nel post-punk di maniera dei Deeper, rigoroso e a tratti persino filologico. L’angoscia che pervade il disco non cambia di una virgola, alla fine dell’ascolto, ma si percepisce una evidente apertura della band al mondo che li circonda, come se avessero imparato la lezione, dopo quello che gli è successo. Una sorta di maturità artistica, per capirci. Malgrado le ferree regole del club musicale a cui appartengono, i Deeper di Careful! ci tendono una mano, si avvicinano per sussurrare qualcosa di bello che non saprebbero dire altrimenti. E, fidatevi, per riuscirci con il post-punk ci vuole davvero della stoffa.

frutta di stagione

Standard

Il nonno Gigetto è il parente prossimo che mi sono goduto di meno perché è morto quando avevo cinque anni. Nonostante questo conservo alcuni ricordi sorprendentemente nitidi del poco tempo passato con lui. Vivevamo tutti insieme nella stessa casa, ci dava dentro con il vino – era un contadino poi riciclatosi dopo la guerra carpentiere di città per sfuggire alla povertà della campagna – e a cena me ne versava un goccio nell’acqua effervescente fatta con le bustine dell’idrolitina, che in famiglia ci arrogavamo immeritatamente il diritto di chiamare, in modo pretenzioso, acqua di vichy. Ho una vaga reminiscenza anche di quella volta in cui accontentò un mio capriccio comprandomi al mercato un gioco che poi, mezzo secolo dopo, ho adocchiato a un prezzo esorbitante sulla bancarella di un rigattiere: era una pista a forma di otto su una base metallica rettangolare, un nastro a cui bisognava dare la corda e che trasportava automobiline e camioncini lungo una strada fuori e dentro una galleria, dove per me resta tutt’ora un mistero cosa succedesse là sotto dove le due direttrici del percorso si incrociavano. Su tutti, però, lo vedo ancora oggi gustare l’uva con il pane, a fine pasto, abitudine che poi ho fatto mia da adulto, con grande soddisfazione. Ma vivevamo in Liguria, c’erano i besagnini sotto casa – per non parlare degli alberi e dell’orto della nostra cascina in campagna – e frutta e verdura non erano certo un problema. Anzi. Mia nonna ci sfiniva con tanta di quella marmellata di pesche, albicocche, ciliegie e mele che le mie sorelle ed io gettavamo i panini della merenda alle galline, a fine estate, tanto eravamo stufi di mangiare sempre la stessa cosa.

Non so poi cosa sia successo, probabilmente il cambiamento climatico o lo stesso processo per cui l’acidità degli yogurt della mia infanzia è stata soppiantata dalla panna per conquistare nuovi target, fatto sta che qui a Milano e dintorni la frutta costituisce un problema. I negozi dei fruttivendoli sono secondi solo alle gioiellerie e la frutta dei supermercati è insapore (e nemmeno così abbordabile). Nel migliore dei casi sa di acqua e zucchero. Quest’anno, poi, è stato particolarmente nefasto per l’agricoltura e, negazionisti meloniani a parte, tutti dicono che sarà sempre peggio.

Noi comunque ci riforniamo dal Marco. Il Marco è un marcantonio che si sposta con un camioncino tra i paesi dell’hinterland – con tutte le licenze necessarie – e si parcheggia a vendere i suoi prodotti. Prezzi e qualità sono a metà tra grande distribuzione e botteghe bio, tutto sommato un buon compromesso e lo ha ammesso anche lui che quest’estate la frutta non è stata niente di che. Nonostante l’agglomerato di periferia in cui vivo abbia tre o quattro punti di sosta fissi dove noi clienti lo raggiungiamo e ce ne sia uno praticamente sotto casa mia, io mi servo di lui ogni martedì alle 18 nel cortile del quartiere di case a proprietà indivisa in cui abita mia suocera ultranovantenne, perché per me risulta l’orario più comodo. Prendo la bici, faccio la spesa, metto le sportine nel cestino e, facendo attenzione alle uova, torno a casa.

Mi risulta che il Marco non si sia mai sposato. Me lo ha confermato la scorsa settimana, pochi giorni prima che uscisse lo spot dell’Esselunga con la pesca e i genitori divorziati. Mi prende sempre in giro perché nell’immaginario popolare gli uomini che si occupano della spesa sono telecomandati dalle mogli e mi fa le battute, ogni volta, invitandomi ad acquistare la frutta non di stagione o le primizie a prezzi esorbitanti e le conseguenze che possono generare nella vita di coppia. Però mi avvisa se le pesche sono troppo care, o non sanno di niente, o se è meglio prendere le prugne perché oramai la stagione delle albicocche è finita. Non ha nemmeno figli, quindi la cosa finisce lì e, a differenza della frutta dei supermercati, non c’è il rischio di polemizzare su nulla. Canzona amorevolmente tutti: le vecchine, compresa mia suocera ultranovantenne, i vedovi che comprano lo stretto necessario. Per le giovani mamme con i bimbi nel passeggino ha un tono diverso, com’è facile immaginare.

Mi piace anche il fatto che si rivolga a me in milanese quando io, savonese con trascorsi genovesi, il dialetto di qui non lo capisco. Credo sia anche più giovane di me ma appartiene a quel mondo di paese senza tempo, dove gli anziani sembrano anziani da sempre, quando invece un ottantenne del 2023 ha avuto quarant’anni nel 1983 e deve aver per forza ascoltato i Depeche Mode come me, ma invece sembrano tutti usciti da una balera di liscio come gli ottantenni del 1983, spero di essermi spiegato. Il Marco è un marelot, come dicono quelli come lui a proposito di quelli come lui, e me lo immagino alla sera con gli amici al bar a giocare a biliardo o la domenica mattina a bere bianchi macchiati in attesa di ascoltare “Tutto il calcio minuto per minuto”. Quando mi vede mi dice “ciao bagai”, ma lo dice a tutti, e così mi fa sentire un po’ uno di qui.

A PIEDI NUDI NEL BAGNO/2

Standard

Anche nello spot Ambipur bagno c’è una tizia che entra in bagno con le scarpe e cammina sul tappeto, proprio come la sua amica del Viakal.