intervallo

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Sono curioso di sapere chi ha inventato la colonna sonora. Immagino lo stesso che ha pensato che i film muti sarebbero stati pallosi in quel silenzio totale e che quindi assoldare pianisti in grado di conferire valore aggiunto con esecuzioni live alle immagini potesse essere una buona idea. Poi da lì la cosa deve aver preso una deriva incontrollata. Il piano è stato sostituito da intere orchestre sostituite poi a loro volta dai computer dei sound designer.

Il punto è che, nel frattempo, le immagini si sono arricchite dei dialoghi che hanno decretato l’obsolescenza dei cartelli inseriti tra una scena e l’altra con le battute della sceneggiatura, avete presente? Sicuramente hanno un loro nome ma non sono del mestiere quindi stateci. Il risultato? Immagini più voce dei protagonisti più musica uguale botta emotiva senza precedenti e il prodotto finale diversificato tra l’iper-realtà del grande schermo corredata dal sorround per un effetto immersivo mostruosamente coinvolgente, oppure stravaccati sul divano con Netflix acceso sacrificando la maestosità delle immagini macroscopiche alla comodità di non mettere il naso fuori di casa, rinunciare alla puzza dei popcorn e non farsi venire il nervoso per chi chiacchiera durante la proiezione al cinema o chi ogni tanto dà un’occhiatina allo smartphone o, non so dire peggio o meglio dei precedenti, a quelli che si lavano poco.

A questo punto della nostra civiltà vedere foto o riprese video senza un commento musicale sotto ci sembra una cosa completamente innaturale, tanto che, quando succede, ci preoccupiamo subito di controllare se il driver delle casse è da reinstallare o se abbiamo inserito per sbaglio il mute o se siamo diventati all’improvviso sordi o comunque, nel dubbio, spegniamo e riaccendiamo. Ormai siamo talmente abituati che non potremmo fare a meno di avere una colonna sonora di qualsiasi cosa ci venga proposta, anche se poi molto spesso non facciamo nemmeno caso alla musica. Ma vuoi mettere la sicurezza di non provare l’imbarazzo del silenzio assordante del vuoto.

Anzi, a volte, quando guardiamo una slideshow di foto o una storia sui social, i brani scelti con troppa personalità ci disturbano e rimpiangiamo quei bei sottofondi di un tempo composti in serie da esseri umani e oggi dall’intelligenza artificiale.

La best practice più attuale dell’accompagnamento di immagini con canzoni contestuali è il programma “Casa a prima vista”, avete presente? Mentre gli agenti immobiliari mostrano le loro proposte, o meglio le cosiddette “soluzioni”, a ogni descrizione di edifici, di ambienti e di arredo è associata una canzone che riprende il succo di quanto viene detto, se non addirittura parole chiave dei dialoghi in una maniera esageratamente didascalica. Vi faccio un esempio. Qualche sera fa, a proposito di un bagno definito dagli agenti di stile italiano, la descrizione è stata montata su “L’italiano” di Toto Cutugno, ma non crediate che funziona solo con brani triti e ritriti. Una coppia appassionata di due ruote vintage è stata anticipata da una vera chicca del beat nostrano, e mi riferisco alla canzone “La motoretta” degli Scooters.

Questo impeto di ridondanza mi ha fatto così riflettere sull’urgenza di un sound designer universale che scelga per voi canzoni più adatte a ogni frase che pronunciate o ogni spazio in cui vi ritroviate. Detto fatto. Mi sono candidato a questa posizione e, da lunedì scorso, questo è il mio nuovo lavoro. Non avete notato che a ogni cosa che dite c’è un brano sotto che ne aumenta il valore, il senso o la portata persuasiva? Tutto grazie a me e alla piattaforma che ora gestisco dalla mia postazione: una consolle virtuale da cui ho accesso alla banca dati infinita (più infinita di Spotify) delle musiche composte da quando l’uomo ha scoperto l’efficacia di mettere insieme due o più suoni, che ora è interconnessa alla timeline delle vostre vite. E non dovete nemmeno effettuare l’accesso, quindi niente credenziali. Faccio tutto io. Il DJ universale, che poi era da sempre la mia aspirazione totale globale, ricordate?

Ecco: la sentite la musica sotto? Sono io che l’ho messa, in perfetta linea con quello che state facendo, e se vi mettete in punta di piedi mi potete vedere, laggiù. Sono quello con le cuffie bianche. Spero che il mio approccio sia di vostro gradimento. Scordatevi le scelte banali, scontate e telefonate. Da me solo canzoni di qualità contestuali quanto basta, in modo molto discreto. Per richieste particolari, potete scrivermi anche solo commentando qui sotto.

diego

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Voi che avete inventato le luci di posizione anteriori verticali che quando sono accese, di notte viste nello specchietto retrovisore, danno alle automobili le sembianze di una tigre dai denti a sciabola che vi rincorre e, se siete anziani e avete un Yaris ibrida con la ripresa di uno scooter monomarcia, voi siete la preda, in un mondo in cui la gente è sempre più fuori di testa e utilizza la macchina come transfer per sublimare la propria aggressività, voi che avete inventato le luci di posizione anteriori verticali non avete avuto una grande idea.

alone

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Una cosa che manda in brodo di giuggiole i genitori sono gli insegnanti che fanno ascoltare i Beatles in classe. Non ho abbastanza elementi per dimostrare se si tratti di una best practice pedagogica consolidata o semplicemente di una leggenda metropolitana, tanto quanto l’esposizione a Mozart degli esseri umani sin dalla fase pre-natale che ci renderebbe più intelligenti, men che meno di un metodo di mia invenzione.

Da attempato musicologo trombone posso solo dimostrarvi l’interdisciplinarietà del valore dei Beatles, nella fascia di età della scuola primaria. Sono utili se insegnate inglese, ovviamente, perché vi permettono di coniugare lo sviluppo dell’orecchio alla pronuncia perfetta con un dizionario adatto a qualunque esigenza, per non parlare di ciò che il quartetto di Liverpool rappresenta, ossia un’icona inconfondibile della cultura e della civiltà britannica. Sono utili se insegnate musica, perché rendono superfluo il ricorso alle zecchinate d’oro per l’intrattenimento dei più piccoli e intercettano le derive tamarre, nel migliore dei casi verso la trap di periferia ricca di parolacce, nel medio dei casi verso il pop in quota Annalisa e battiti live vari, nel peggiore dei casi verso i balli di gruppo da oratorio/club vacanze, grazie alla portata di un’alternativa convincente, comunque popolare, decisamente autorevole, poco di nicchia, tutt’altro che superata e di facile ascolto. Sono utili anche se insegnate italiano – i loro testi grondano di citazioni utili a semplificare grandi questioni, una volta tradotti – e perché no storia, in quanto perfettamente ascrivibili a un periodo decisivo per la modernità. Per non parlare del cartone animato di Yellow Submarine, provate a proiettarlo in classe e godetevi le reazioni.

Ma mai avrei immaginato che il mio vezzo di introdurre le lezioni con una sigla, una canzone dei Beatles – siamo partiti con la classica “All Together Now”- da variare ogni mese per catturare al meglio l’attenzione dei bambini, avrebbe generato una così invidiabile sintonia con i genitori della seconda C, la classe in cui insegno solo inglese. Le famiglie sono i principali stakeholder della scuola, metterli al corrente nel corso delle assemblee di classe di quello che facciamo costituisce un insuperabile veicolo di customer satisfaction. Ho presentato il programma nemmeno fossimo all’università – in seconda sono previste due ore la settimana, una in più rispetto alla prima – e senza volerlo ho centrato in pieno le aspettative rispetto all’insegnamento della lingua straniera, oggi secondo solo alle STEM come ossessione didattica della scuola dell’obbligo. Un papà ha detto che proporre i Beatles ai bambini gli sembra un’idea fantastica, tutti gli altri hanno confermato di trovarsi d’accordo, una mamma dichiaratamente metallara mi ha chiesto addirittura che cosa pensavo di far ascoltare nei prossimi anni. Non le ho detto che con i metallari noi dark ci menavamo, anzi i metallari menavano noi, negli anni ottanta, non mi sembrava la sede più adatta. Ma non è questo il punto.

So di deludervi, ma a me l’idea di somministrare una seconda lingua a mocciosi che a malapena si sanno esprimere nella prima non convince per niente, e mettere musica in inglese mi sembra comunque un modo efficace per perdere un po’ di tempo a lezione. Alla fine l’inglese per bambini così piccoli si risolve in una serie di istruzioni e parole tradotti letteralmente da imparare a memoria. Se va bene così, allora non c’è problema anche da parte mia. Un bagaglio a mano linguistico utile a sguinzagliarli da soli ad acquistare gelati in occasione delle prossime vacanze all’estero che farete. Un consiglio però: controllate che sappiano farsi restituire il resto corretto.

Il problema sono semmai le foto in bianco e nero, dei Beatles. Com’è possibile che siano esistiti giovani negli anni 60?, sembrano chiedere i bambini. Com’è possibile che delle canzonette pop siano state composte quando i nostri nonni erano appena nati? Quanti anni hanno, ora, quei capelloni?

Io sono uno che non indora certo la pillola, faccio eccezione solo per Babbo Natale ma non ho nessun problema a dire tutte le altre verità. Paul ha 82 anni, Ringo 84, George è morto a causa di un tumore e John è stato addirittura freddato da un folle mitomane a 40 anni, davanti a casa sua. Spoilero immediatamente come stanno le cose per evitare il susseguirsi di domande morbose su argomenti che interessano tantissimo i bambini di quella fascia di età e tagliare corto.

Questa volta però c’è stato un plot twist che devo assolutamente raccontarvi. Ginevra, quella che siede nel secondo banco, è piena di tic perché a 4 anni è stata dimenticata sullo scuolabus che la portava alla scuola materna. Ha trascorso tutta la mattina chiusa nel deposito fino a quando qualcuno è riuscito a ricostruire la catena degli avvenimenti, l’ha riportata a casa e sono state avviate tutte le procedure del caso per attribuire la scala delle responsabilità. La mia è una scuola di un comune di quattro gatti, e questa notizia ha fortunatamente fatto passare in secondo piano quella – decisamente più sconveniente per l’istituzione che rappresento – del nonno che ha sbagliato a ritirare il nipote giusto. Ha preso un bambino e, sulla via di casa, qualcuno che lo ha rincorso gli ha fatto notare il qui pro quo.

Dicevo che Ginevra, tra un tic e l’altro, scesa l’attenzione sulla morte dei Beatles, mi ha chiesto se i musicisti quando diventano vecchi vanno in pensione. Volevo dirle che sarebbe una cosa fantastica perché significherebbe che quello del musicista è un lavoro, che i musicisti arrivano a un certo punto della loro vita senza morire di overdose o suicidarsi a ventisette anni e che, a quel punto della vita, sono riconosciuti da un sistema previdenziale che tiene i conti anche alla loro attività e che fa anche per i musicisti i calcoli per capire quando è il momento di fermarsi. Che poi sarebbe un bene che i musicisti, a quel certo punto della loro vita, si fermassero. Volevo dire a Ginevra che avevo la risposta, o meglio che le avrei risposto solo dopo aver ascoltato il nuovo disco dei Cure che sta per uscire, tra qualche settimana. Avrò le idee più chiare sul fatto che i musicisti sanno riconoscere davvero quando è il momento giusto per andare in pensione.

lettera testamento

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Se posso sostenere – e mi è già capitato più volte – di svolgere finalmente un mestiere in cui esiste gente che va in pensione, al contrario la scuola non è certo il primo ambiente professionale in cui compiango colleghi che ci lasciano, più o meno all’improvviso. Il che è paradossale perché dal mondo della comunicazione in cui operavo prima, popolato per lo più da giovani che lavorano in agenzie in sedi fighissime del centro, non ti aspetteresti mai di rientrare in ufficio un lunedì, di essere convocato dal tuo responsabile per essere messo al corrente della tragica fine del tuo grafico web poco più che ventenne a causa di un fuoripista in snowboard – e in acido – sulla neve nel finesettimana, e di doverlo comunicare al resto del team. La morte di un collega è piuttosto una trama che l’immaginario comune ambienta più comodamente tra le grigie aule di edilizia scolastica anni settanta di un istituto comprensivo di provincia con squallidi pavimenti di piastrelle di graniglia, veneziane rotte su finestre dalle maniglie difettose, muri scrostati e costellati da fori che nessuno tapperà mai da cui spuntano tasselli inutilizzati che nessuno rimuoverà mai, infiltrazioni dal soffitto e lampade al neon che sfarfallano durante le grigie lezioni invernali delle prime ore della mattina.

Il flusso della comunicazione top down non cambia, però. Alla vigilia del primo ponte dell’anno scolastico (al paesello in cui insegno il primo lunedì di ottobre è festa patronale) sono stato incaricato dalla mia dirigente di riportare agli altri docenti la notizia del lutto inaspettato che ha colpito la nostra comunità scolastica. E se è possibile individuare una nota positiva in un funerale alle tre del pomeriggio di un sabato di ottobre con il sole è l’offerta di spunti di riflessione, a partire dall’età della vittima (la collega è mancata poco più che cinquantenne, una vera tragedia).

Le cause del decesso sono al limite dell’incredibile, e non è certo questo il luogo più adatto a parlarne. Posso solo raccontarvi il finale della cerimonia, il momento in cui un genitore della sua ex quinta (la collega aveva terminato come me il ciclo, lo scorso anno) è salito sul pulpito e ha fatto partire dal suo smartphone, avvicinato al microfono da cui il prete aveva da poco terminato un’omelia comprensiva di una toccante poesia di Gianni Rodari alternata a sacrosante riflessioni sulla considerazione in cui lo stato che trattiene metà dello stipendio lordo ai lavoratori della pubblica amministrazione tiene i docenti e gli operatori dell’istruzione (e del merito), dicevo quando un un genitore della sua ex quinta è salito sul pulpito (sempre che si chiami così la postazione da cui i preti officiano la messa) e ha fatto partire dallo smartphone una commovente lettera dedicata ai suoi bambini, registrata nell’auditorium del nostro istituto al termine dello spettacolo di fine anno, lo scorso giugno. Ogni quinta ha aderito a un laboratorio teatrale che ha previsto la messa in scena di una recita conclusiva, l’ultima settimana di scuola, che è stata l’occasione anche per un momento di commiato dopo i cinque anni trascorsi insieme.

L’impianto di amplificazione ha diffuso così lungo tutta la chiesa gremita di parenti, ex alunni, personale scolastico, famiglie e conoscenti, la voce della collega scomparsa. La cosa che mi ha colpito è stata la musica che si percepiva sotto la lettura. Già il fatto di aver scelto un background sonoro a corollario della declamazione di un saluto finale (e ripetuto durante il funerale, quindi doppiamente conclusivo) ne ha potenziato enormemente la portata emotiva. Un modesto e medio docente di scuola primaria avrebbe letto al pubblico e basta, in silenzio, senza il valore aggiunto della musica dai toni perfettamente adatti al contesto. Ed è proprio questo, il punto. Bastava prestare attenzione alla canzone sotto, lasciando scorrere il significato delle parole sopra, per cogliere nel brano scelto un plagio – tipico della musica copyright free che, ai tempi dell’intelligenza artificiale, è facilissimo trovare nel web – di “Fake Plastic Trees” dei Radiohead.

Rientrando a casa in macchina mi sono convinto però che non poteva essere come pensavo, e che per forza di cose doveva trattarsi di una falsa percezione, da parte mia. In una chiesa della periferia milanese, una di quelle costruzioni moderne solo cemento di edilizia sacra che tutto richiamano fuorché la religiosità, nel corso di una cerimonia funebre di una maestra ancora giovane ma già consumata da decenni di lavoro nella scuola, un lavoro svilito e malpagato, a sottolineare un involontario testamento all’ecosistema di cui faceva parte, per un caso fortuito – probabilmente forzato da chi ha effettuato in sua vece la ricerca in Internet di una canzone strumentale dai toni struggenti e evocativi – è stato riprodotto un evidente richiamo all’inno universale della finzione e della disperazione. Mi sono così affrettato a chiedere la riproduzione su Spotify di “Fake Plastic Trees” dei Radiohead utilizzando l’assistente Google – stavo guidando – ma, al posto della versione originale presente in The Bends, è partita la deludente versione live tratta da “2 Meter Sessions”.

black out

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Sono pochi i mestieri come il mio che, tra i rischi, comprendono la possibilità che un moccioso di sei anni ti vomiti sulle Camper scamosciate. Il fatto è che, per la prima volta da quando insegno, ho un bambino cinese con cui instaurare un rapporto normale, e per normale intendo che io parlo e lui mi risponde, oppure lui parla, io capisco e posso rispondergli. Mi spiace se avete intercettato una venatura di ottuso razzismo in quello che ho scritto, ma vi posso assicurare che le mie ragioni sono motivate e la provenienza (che poi sono tutti bambini italiani nati qui, fatti e finiti, ma lo sarebbero anche se non fossero nati qui, non vedo problemi) non c’entra un tubo. Due cicli fa c’era una ragazzina che praticava il mutismo selettivo, e io rientravo a pieno merito nella sua blacklist appartenendo alla categoria degli adulti non di famiglia con l’aggravante dell’autorità precostituita. Il ciclo scorso è stato quindi il turno di un bimbo ipoacusico, un po’ Asperger e tutto accartocciato nel suo mondo di numeri e forme geometriche. Mi manca molto, e sono sicuro che qualcosa delle nostre conversazioni strampalate e senza capo né coda sia rimasto anche a lui.

Quello di quest’anno è invece simpaticissimo e dolcissimo, anche se un po’ timido. Lui mi parla, io gli parlo, e insomma ci capiamo. Ieri, durante la merenda di metà mattinata, mi ha detto di accusare un po’ di mal di pancia, dopo pranzo. Gli ho proposto di chiamare a casa, ma ha preferito resistere. L’ho rassicurato chiedendogli di avvisarmi, nel caso il fastidio perdurasse. E così è stato. Pochi minuti dopo mi si è avvicinato – eravamo al centro della classe – ha biascicato qualcosa di cui, purtroppo, non ho colto granché.

Un’incomprensione che si è rivelata fatale. Ha riaperto bocca ma, questa volta, non per parlare. Ho fatto un balzo all’indietro ma non è stato sufficiente. Il vomito – poca roba, per lo più acqua, non so perché ma i bambini da quando si portano le borracce ecologiche a scuola bevono come dei cammelli, e la merendina appena consumata – si è distribuito democraticamente tra il suo zaino, il pavimento e le mie scarpe.

La procedura, quando un bimbo sta male, è quella di avvisare in segreteria in modo che la segreteria chiami uno dei genitori. Da più di una settimana, però, i telefoni degli uffici amministrativi sono guasti, come dicono loro. Chiami e ti dà sempre occupato. Non saprei dirvi se sia una cosa da nulla, una di quelle che si risolvono spegnendo e accendendo qualcosa, se qualcuno non ha pagato una bolletta o se il problema è invece serio. Il punto però è che in nessun’altra organizzazione, di qualunque settore o dimensione, sarebbe ammissibile un black-out dei telefoni di questa portata. Più di una settimana in cui un servizio (acquistato da un servizio pubblico) non funziona e nessuno è venuto a sistemarlo, sempre che qualcuno abbia chiamato l’assistenza.

giudizi in acrilico

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Ho un collega che non si ferma ad auspicare buon lavoro e buona serata in calce alle email. Per i destinatari della sue missive si espone direttamente a favore di un ottimo lavoro e di un’ottima serata. D’altronde sognare non costa nulla, e allora perché non farlo in grande? Perché non sperare il massimo per quelli come me? Mi è venuto il dubbio che, in conseguenza dell’ennesimo palla al centro dell’ennesimo ministro dell’istruzione, la restaurazione dei giudizi sintetici sia stata recepita con eccesso di zelo da parte del personale scolastico. Così mi sono chiesto se l’andamento del giorno in arrivo possa essere augurato lungo una scala che comprenda anche i valori da distinto in giù fino a gravemente insufficiente, livello a causa del quale l’oggetto di tale conferimento si veda costretto a ripetere la giornata da capo. Una bocciatura che ti fa rimanere in una sorta di loop da giorno della marmotta, fino a un giudizio migliore.

Ma a essere retrogradi, nella scuola, non c’è proprio gusto. Il terreno è fertile per i reazionari. Penso ai docenti che, per il diritto alla disconnessione, chiedono che non si mandino email al di fuori dell’orario di servizio. Che poi, quando sei in classe, le email mica puoi leggerle, quindi a pensarci troppo a come risolvere la questione finisce che il cervello ti va in corto circuito. So di colleghi che hanno scritto al presidente della Repubblica, a Zuckerberg e persino a Dio in persona per chiedergli di spegnere l’Internet durante il weekend per non essere disturbati e mischiare lavoro e vita privata, quindi in caso di black out della rete a partire da venerdì sera prossimo sapete con chi dovete prendervela. E i genitori non sono da meno. Lo scorso anno una mamma ha provato a mobilitare altre famiglie per imporre alla scuola in cui insegno di rimuovere gli access point dagli edifici scolastici. Non c’è da stupirsi se ora gli esponenti del pensiero unico, votati dagli elettori del pensiero unico, sostengono che lo smartphone, a scuola, sia da vietare. Privi degli access point e senza smartphone, sfrutteremo la funzione hotspot della fotocopiatrice di plesso o dei crocifissi.

zucchero filato

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Io che sono medaglia d’oro in gentilezza, avrete sicuramente seguito la mia avvincente finale alle olimpiadi di Parigi lo scorso agosto – proprio oggi sono stato ricevuto dal Presidente insieme agli altri azzurri, dicevo che io che sono medaglia d’oro in gentilezza ogni tanto mi prendo tre o quattro giorni di fila di cattivo umore. Faccio lo sgarbato e mi viene da litigare con tutti per certi motivi che dopo, quando riprendo gli allenamenti in vista del nuovo torneo di cordialità, giusto per usare un sinonimo suggerito dalla Treccani, non ricordo nemmeno più. Tempo fa una persona che rispetto molto per la sua determinazione ha pubblicato su un social una foto di sé mentre beve un drink e, nella didascalia, scriveva che ogni tanto le piace prendersi una pausa da se stessa. Ecco, non mi viene una battuta che descriva meglio quello che mi succede in momenti come questo. Anche a me piace cambiare registro, per un po’, anche solo per vedere l’effetto che fa. Ho persino sbottato con mia mamma novantenne perché sostiene che Milano sia una città piena di pericoli. Il fatto è che mica ci vive. Piuttosto, con lei la narrazione mainstream dei tg della Rai di questo periodo di pensiero unicista funziona alla grande. Mi sono indispettito perché non riuscivo a convincerla del contrario. Le dicevo che deve fidarsi di me che sono suo figlio e ci abito, e non di quello che passano in tv. Alla fine ha fatto finta di essersi convinta, ma ho capito benissimo che lo faceva per fare la pace. Poi mi ha guardato mentre si preparava il necessario per l’iniezione di insulina e ha persino detto che non vorrebbe mai essere interrogata da me. Allora ho riflettuto se è mai capitato che quei tre o quattro giorni di fila di cattivo umore che mi prendo ogni tanto siano mai coincisi con dei giorni di scuola, perché in genere sono di cattivo umore quando vado a trovarla ma non perché è lei, piuttosto perché quel posto lì, quello in cui abita e dove sono nato, quella casa sommersa di cose vecchie, malfunzionanti e superflue mi rende intrattabile. Il punto è che quel posto lì lo percepisce e fa di tutto per farmi capire che si è offeso. Interrompe autostrade quando mi metto in viaggio per raggiungerlo, crea code al casello al di là di ogni immaginazione, chiude per lavori il mio panettiere preferito e addirittura, era la vigilia di pasqua, mi ha bucato una gomma contro un marciapiede. Giuro. Va be’, lo ammetto, sono giorni che sono scontroso anche con i miei bambini, per questo lo scrivo qui, sperando di risalire alla causa di questa irrequietezza e tornare al momento prima per evitarlo, come è bene comportarsi. Oggi a malapena ho trattenuto un’espressione di disgusto perché una mia alunna ha portato a scuola i libri appena ritirati dalla cartoleria con le copertine di plastica tutte appiccicose e dall’inconfondibile odore di zucchero filato. Non capisco come sia possibile: i volumi di prima primaria di matematica, stampato e corsivo, persino le letture, scienze e storia. Tutti con la stessa fortissima puzza di dolciumi da luna park, per di più senza le etichette che così ho dovuto metterle io e scrivere il suo nome perché non è ancora capace. Cos’hanno fatto, a casa? Li hanno disposti in fila sul tavolo e poi ci hanno fatto merenda sopra? Quell’odore di zucchero filato è passato sulle mie mani e anche i libri dei compagni, a contatto con il suo nell’armadio di classe, domani non saranno da meno. Ma poi è finita che ho pensato che è una bambina, che ha genitori un po’ disattenti, che non è certo colpa sua che ha sei anni e che, anzi, forse a lei che ha appena cominciato la scuola primaria è un profumo che dà sicurezza. A suo modo una madeleine. Ed è un peccato che non sappiano ancora scrivere, a quell’età, davvero, perché ne uscirebbero storie mica male.

glutine

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Ci sono due o tre cose che dovete sapere della scuola in cui insegno. La prima è che la nuova coordinatrice di plesso abita nella casa che ha l’ingresso di fronte al cancello principale, ride sempre quando le chiedo se ha trovato coda per recarsi al lavoro e sono certo che apprezzi la boutade da vecchio rincoglionito boomer anche se non fossi il vicepreside, non sono uno di quei tipi con la tempra del capo che bisogna ingraziarseli con il consenso. Semmai con il cibo. Oggi era il primo giorno di scuola e ci ha fatto trovare una torta spaziale in sala docenti, già tagliata a quadrotti e accompagnata da un augurio di buon inizio, scritto a mano. Sotto il messaggio si è premurata di aggiungere persino gli ingredienti e, se non ho letto male, ha seguito una ricetta inclusiva per i colleghi affetti dalle più comuni allergie alimentari.

Una nota di merito anche per il giovane maestro a cui scrocco le sigarette nei momenti di tensione ed è per questo che ho appena comprato due pacchetti per non sentirmi in colpa, di cui gli farò dono domattina. Non sono un fumatore, lo sono stato, ma ogni tanto sento il bisogno di fare due tiri perché mi rilassa. Questa mattina, per dire, ho accolto la mia nuova prima, un nuovo primo giorno di scuola che mi ha ispirato una considerazione. Converrete con me che la vita è un susseguirsi di momenti che affrontiamo da soli o accompagnati e/o circondati da persone che abbiamo o non abbiamo scelto noi. Avete capito cosa intendo. Non possiamo scegliere i genitori e le sorelle perché qualcuno o qualcosa, ad un certo punto dei miliardi di miliardi di anni lungo i quali si protrae la storia dell’universo, decide di proiettarci in un nucleo famigliare a cui, fino a una certa età, diamo per scontato di appartenere, fino a quando diventa lecito mettere in dubbio l’opportunità (che non è proprio il termine che intendo ma al momento è il più vicino al concetto che voglio passarvi) di sentirsene membro. Ci sono poi le situazioni di cui siamo responsabili a partire dalla propria, di famiglia, anche se per i figli vale in parte lo stesso discorso di prima, a cui si aggiungono una moltitudine di agglomerati umani provvisori, passatemi il termine, di cui in qualche modo e almeno in piccola parte costituiamo una componente strutturale, altrimenti ce ne saremmo già liberati senza pensarci tanto su. Infine, ecco la maggior parte dei casi in cui siamo costretti tra gente che non abbiamo potuto scegliere. Pensate al condominio, ai lunghi viaggi sui mezzi pubblici, ai colleghi in ufficio e, per chi lavora nella scuola primaria, alle classi a cui veniamo abbinati a ogni inizio di ciclo.

Le schede di raccordo che ci sottopongono le colleghe della scuola dell’infanzia non sono di aiuto. Io le ho lette e rilette decine di volte, nei pochi giorni di preparazione al nuovo inizio, ma oggi, al cospetto dei bambini che vi sono descritti e che vedrò quotidianamente per i prossimi cinque anni, tutte le informazioni puf, si sono volatilizzate come un control-c e un blackout prima di un control-v qualunque in un pc senza batteria, poco dopo il primo intervallo.

Le classi difficili costituiscono le vere sfide per gli insegnanti quelli veri, ed è forse per questo che la prima cosa che ho detto, quando all’uscita il mio collega mi ha offerto l’ennesima sigaretta, è stata “richiesta di trasferimento”. Ho trascorso la seconda metà della mattina a mettere in piedi un moccioso che ha continuato a manifestare il suo dissenso alla scuola borghese e gentiliana gettandosi sul pavimento per poi, una volta costretto alla posizione riconducibile a quella eretta, precipitarsi fuori dall’aula.

A un’altra, stiamo parlando di nanetti di sei anni, la mamma ha riempito lo zaino di tutto il materiale necessario per i prossimi mesi di tutte le materie – otto quaderni, due astucci, la cartelletta per i disegni – ma senza lasciarle la merenda. Fortunatamente nessuno della classe ha pianto ma, per esperienza, so che il vero choc da distacco si presenza dopo una decina giorni, quando risulta inconfutabile che la scuola, quella vera, quella in cui non si gioca e non si fa il pisolino dopo pranzo, è cominciata e si protrarrà fino a quando quello che si getta in terra e quella che è costretta a portare venti kg di materiale scolastico per disattenzione dei genitori sulla schiena, non prenderanno la patente di guida. Buon lavoro, lo auguro a me stesso e a tutti i colleghi che iniziano un nuovo ciclo. Buon lavoro.

la uno

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Ora ditemi se la sigla di Propaganda Live non sta meglio in 1/4.

la due

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Ora ditemi se la sigla di Propaganda Live non sta meglio in 2/4.