Ho fatto il pianista di piano bar, ho dato ripetizioni di latino, e poi ancora il musicista nelle orchestre di liscio, il cameriere, il galoppino di redazione, il musicista a tutti gli effetti, l’insegnante di musica, il turnista in sala di incisione, l’educatore, il programmatore software, il progettista software, il copywriter, l’insegnante di scuola primaria. Ho avuto fortuna, sotto questo punto di vista. Dal secondo anno di università a oggi non ho mai subito un solo giorno il disagio di essere senza lavoro, di non avere un reddito, di non arrivare a fine mese. Certo, ho attraversato momenti di difficoltà – lavoravo in un’agenzia scoppiata insieme alla prima bolla Internet – e c’è stato un periodo in cui ho dovuto barcamenarmi tra tre attività diverse per mettere insieme uno stipendio decente e oggi, a cinquantasei anni suonati, potrei guadagnare un po’ di più, almeno come riconoscimento di anzianità per tutto quello che ho fatto in passato. Ma va bene così. Prima della laurea vedevo la vita come un buco nero. I tempi però erano ancora ricchi di opportunità, tutto sommato. Oggi mi sembra molto più complicato e non saprei da dove iniziare. Per me la festa dei lavoratori è una festa del ringraziamento. Non so a chi, ma grazie per tutto il lavoro che mi è stato concesso.
Petite Noir – MotherFather
StandardPetite Noir ritorna sulle scene dopo cinque anni di assenza con un disco magnifico. “MotherFather” – fusione di maschile e femminile in un solo genere artistico in grado di esprimere tutto – è pervaso da una straordinaria ecletticità stilistica a corredo di una poetica ispirata e una spiritualità profonda.
Se nessuno vi ha ancora introdotto a Petite Noir, potete cominciare recuperando la discografia precedente a questo nuovo disco, tanto si fa in fretta: l’EP The King of Anxiety e il sorprendente esordio sulla lunga durata, l’album La vie est belle/Life Is Beautiful, pubblicati a qualche mese di distanza l’uno dall’altro nel 2015. Due dischi a cui ha fatto seguito il mini-LP La Maison Noir/The Black House, uscito nel 2018.
L’aspetto che colpisce di più è l’attitudine di Petite Noir a mantenere l’originalità compositiva indipendentemente dagli stili a cui le sue canzoni sono riconducibili. Una qualità palindroma, passatemi il termine, nel senso che non si corre il rischio di sbagliare a pensarla al contrario: modelli eterogenei di musica che calzano in perfetta naturalezza con la sua poetica e la sua estetica di gran classe. Per questo, rimasto a digiuno delle sue produzioni per cinque anni, ho avuto tutto il tempo per riflettere sul fatto se si possa considerare (non paragonare, sia chiaro) Yannick Diekeno Ilunga – questo il suo nome completo – a una sorta di David Bowie panafricano. Con MotherFather, la sua ultima produzione, anche Petite Noir si conferma infatti un musicista alternativo non condizionato dalle proprie origini e dal proprio passato, totalmente libero e pienamente consapevole di sfuggire a qualunque categorizzazione.
Di sicuro, è raro trovare una personalità artistica fuori dagli schemi e così marcata da risultare inconfondibile, qualunque accompagnamento abbia sotto. Il fatto è che nella musica di matrice africana (potremmo usare l’aggettivo black se, nell’accezione a cui siamo più esposti, non costituisse quasi una esclusiva della cultura americana) Petite Noir non teme confronti. Ovunque, nel suo repertorio, riconosciamo le radici electro-afrobeat di ultima generazione e un timbro unico, a sostegno di un miscuglio che suona come una specie di r’n’b dagli echi post-punk, con chitarre ai confini con il metal e atmosfere dalle tinte scurissime. Abbinamenti che ci rendono perfettamente il concetto di noirwave, la definizione che Petite Noir ha coniato per dare delle coordinate a quello che fa, in un impeto di lucidissima e più che giustificata autoreferenzialità.
I genitori di Petite Noir hanno origini congolesi, uno dei cinque posti più poveri della Terra con l’aggravante di una società tramortita da un primitivo conservatorismo ultracattolico. Petite Noir però è un privilegiato. Il mestiere del padre gli permette di nascere a Bruxelles. Da lì crescerà in Sudafrica per poi finire col vivere tra Londra e Parigi. Un cittadino del mondo a tutti gli effetti che non può che suonare la musica del mondo, uno stile la cui traduzione letterale – world music – in questo caso può trarre in inganno e risultare riduttiva.
D’altronde i confini del continente africano coincidono con quelli del mondo stesso, se consideriamo la diaspora e la dispersione a cui vecchie e nuove schiavitù hanno costretto i popoli nati laggiù, nel corso della storia. Spostarsi altrove è stato il destino di molti, ma gli africani sono forse gli unici a cui non è stato permesso di colonizzare nulla. L’aver fortemente condizionato la musica degli ultimi due secoli – magra consolazione, lo so – ha comunque favorito il raggiungimento di una meritata e indiscutibile egemonia, quella sonora (e ritmica, va da sé) sul resto del mondo.
Si ritorna così al punto di partenza, e cioè che Petite Noir è una delle cose più interessanti nel panorama artistico attuale, che MotherFather si candida a disco dell’anno e che se, invece, non lo conoscete e dovete cominciare da qui, fatelo con la traccia #7 del nuovo album, “Simple Things”. Un brano che condensa i cardini dell’arte compositiva di Petite Noir: voce piena che si alterna al falsetto; sound che mescola elettronica a jazz, qui grazie alla sezione fiati diretta dal trombettista Theo Croker; successione di accordi che potrà risultare utile a orientarvi con dimestichezza nel resto della sua produzione. E, poco prima, troverete un secondo featuring a impreziosire l’album, la cantante zambiana Sampa The Great, che presta il suo rap a un’altra perla di questo disco, “Blurry”, uscita come singolo un paio di mesi fa e riconoscibilissima per l’intro in chitarra lo-fi.
MotherFather è frutto di un percorso a ritroso che Petite Noir compie lungo le sue esperienze personali con il razzismo, sperimentato sulla propria pelle durante la sua infanzia a Johannesburg, e con il tema della separazione nell’amore. In dieci canzoni il disco esalta il paradosso della musica, un linguaggio sofisticato e intimo per tradurre nella piacevolezza dell’ascolto anche gli stati d’animo più scomodi e controversi. Pensate infatti a che significato possa avere la fusione in un concetto indistinto (MotherFather, appunto) dei due poli ai lati opposti della vita: se c’è un creatore è maschio e femmina e entrambi i genitori allo stesso tempo, altrimenti che senso avrebbe. Fondamentali anche “Numbers” (la mia preferita) e “Finding Paradise”, due momenti a ridosso di un sound e di una poliritmia riconducibile all’afrobeat, mentre la struggente “Love Is War” e l’effimera “Play” riportano il mood del disco alla libertà espressiva a cui l’artista ci ha educati.
Nel suo nuovo lavoro, Petite Noir si inabissa con determinazione verso scomodi e graffianti richiami ai suoni più ruvidi, per poi risalire con disinvoltura e sublimare in rarefatte atmosfere rituali, tra trance e preghiera, liberandosi dai canoni dell’artificiosità per sposare una purezza senza confronti, consolidando il suo approccio trasgressivo e dimostrando che nella musica nata nell’Africa del terzo millennio si può trovare di tutto perché tutto, davvero, proviene da lì.
perché la bambina?
StandardElio Vittorini, “Uomini e no”.
lombroso
StandardA scuola è successa una cosa che ha dell’incredibile. Qualcuno ha rubato una fotocamera 360 per la realtà immersiva dall’attrezzatura pronta per essere collocata nel laboratorio stem. Siamo riusciti finalmente a organizzare la formazione per i colleghi, la scorsa settimana. Per allestire il set della parte pratica del corso, ho messo in carica i visori e quando ho aperto la scatola della fotocamera dentro era vuota. La scuola è un porto di mare, purtroppo. Quest’estate hanno cablato tutti i plessi del mio comprensivo e a novembre hanno sostituito otto vecchie LIM con altrettanti modernissimi schermi touch. Se ho ricondotto il furto a questi due episodi è perché il dispositivo è talmente anonimo e da addetti ai lavori che solo uno del settore poteva rubarlo. Con tutta la tecnologia consumer che abbiamo a scuola – a partire da tablet e pc – più facilmente rivendibile, la sparizione di apparecchiature specifica restringe i sospetti sulle uniche persone in grado di riconoscere che il contenuto della scatola dalla sagoma di un telecomando non era, appunto, un telecomando. Se poi volete un parere personale, i tecnici che si sono occupati degli interventi nella mia scuola avevano qualcosa di losco ma, come potete immaginare, potrei anche essere stato io. Di certo non i miei colleghi – poco avvezzi alla realtà virtuale e mista – per non parlare dei bambini della scuola, la fotocamera non assomiglia né a un iPhone e tantomeno a un pallone. Mi sono improvvisamente ricordato di chi potrebbe essere il colpevole – uno di quelli che portava su per le scale i proiettori smontati per ammassarli nell’aula ripostiglio dove riponiamo tutto quello che non serve all’istante – proprio ieri pomeriggio, e unicamente perché a Milano esiste Via Lombroso e non so se si tratti proprio di quel Lombroso che matchava facce a tendenze criminali. Ma la vergogna per il rigurgito di pregiudizio che mi è fuoriuscito dai pensieri è stato sovrastato all’istante dal fastidio di ritrovarsi in mezzo alle migliaia di persone convenute nello stesso posto in cui mi trovavo io e per lo stesso motivo. Gli ex-macelli di Via Lombroso erano una delle principali mete delle iniziative del Fuori Salone, aspetto che si evinceva dalla coda all’ingresso che non aveva nulla da invidiare da quella da più di un’ora che avevo dovuto sopportare pazientemente qualche settimana fa fuori dai cancelli dell’Allianz Cloud per la partita di coppa tra Vakifbank e Vero Volley Monza. A Milano siamo in tanti e abbiamo tutti le stesse idee simultaneamente. Posso quindi confermare di esser stato al Fuori Salone non più di dieci minuti. Mi sono allontanato dalla folla, ho mangiato un gelato spaziale alla Gelateria Marchetti e ho trovato rifugio al Coin, dove sono tornate di moda le sedie con le strisce di plastica colorata e persino la gente che non era nata quando c’erano le sedie con le strisce di plastica colorata sorridevano toccando le sedie con le strisce di plastica colorata.
le basi
StandardA quelli della mia generazione che hanno solo la terza media – oggi non sarebbe più ammissibile – invidio il fatto di non avere gli strumenti per provare la sensazione degli incubi sugli anni del liceo e sull’esame di maturità. La mia esperienza più recente risale a un paio di notti fa. Nonostante fossi piombato in classe da un’altra scuola – se non da un’altra vita – la prof di matematica pretendeva, già a partire dal primo giorno, che fossi allineato sul programma (alla faccia dell’inclusione) mettendomi alla prova con un astruso problema di geometria. C’era quel triangolino rettangolo che fuoriesce come uno scampolo di stoffa ai lati del trapezio isoscele, avete presente? Io sapevo benissimo come calcolare la misura della base ma il punto non era quello perché il teorema di Pitagora negli incubi e con la realtà sottosopra non dimostrava un bel niente. C’erano altre cose di cui tener conto che a scuola, almeno in quella che conosco io, nessuno te le insegna. Occorreva infatti tirare in balli vari i fattori economici e sociali per trovare una soluzione e la cosa mi ha mandato in confusione, proprio come accadeva allora. Il mio compagno preferito era invece in carne e ossa, o almeno quello che mi ricordo di lui, tutto vestito di rosso come il pesce che sfoggia nella foto del suo profilo Facebook, ma nessuno – tantomeno lui – sembrava in grado di potermi aiutare. In classe, nel nostro banco vero o onirico che sia, siamo tutti soli al cospetto della valutazione. Poco prima avevo addirittura trascorso un’intera ora angosciato del fatto di non aver studiato anche se, quando ti trasferisci ed è il primo giorno, i docenti sono tenuti a essere più indulgenti. Il senso del tempo, a scuola, è distorto, ma questo anche nella vita vera. Per i docenti vola in un attimo, per i ragazzi dev’essere un incubo. Le ore di matematica non finiscono mai.
Daughter – Stereo Mind Game
StandardIl ritorno dei Daughter è la colonna sonora dell’equivoco di fondo dei tempi che corrono: viviamo a distanza nella speranza di rincontrarci ma ci facciamo bastare l’idea di farlo. Ci appaga di più e ci protegge dalla paura di rimanere delusi.
Potrebbe essere la trama di una di quelle serie tv in cui ci piace affogare compulsivamente il nostro senso di inadeguatezza alla vita contemporanea. In un presente distopico la musica è materia a tutti gli effetti, ma in forme che non riusciamo a cogliere. Si trova in quello che mangiamo, nell’aria che respiriamo, nelle cose che vediamo. Le persone più sensibili hanno qualche effimera reminiscenza o poco altro. “Io ti ho già visto da qualche parte”, si dicono quando si incontrano, e si allontanano fischiettando il solo di “Smells Like Teen Spirit”. “Dove ho già percepito questo odore?”, pensano con il naso per aria, senza però mettere a fuoco nulla di concreto, ma che c’entra qualcosa con i Massive Attack. Osservano il panorama sfuggente dal finestrino di un treno in corsa, provano una sensazione di già sentito ma non riescono a isolarla a fondo, forse un video dei Chemical Brothers. Solo un gruppo di nerd, una specie di setta ai margini dell’economia, riesce a separare sottobanco la musica dal resto e a organizzarla in canzoni attraverso dispositivi (a corde, a fiato, a tastiera) di cui solo loro si tramandano la tecnica. Conoscono anche il segreto di fermarla e fissarla su un supporto ed ecco che la musica può essere divulgata e compresa dalla gente comune. Il senso è che le canzoni sono sempre esistite, da qualche parte e in qualche tempo. Semplicemente non siamo abbastanza evoluti da accorgercene. Fine.
Anzi, no. Prendete il nuovo album dei Daughter. Le tracce di cui è composto ci sono sempre state. Le abbiamo ascoltate più volte, negli ultimi trent’anni. Ma solo ora che sono state definite con un inizio e una fine e codificate in una forma da noi decodificabile, ci viene chiesto di ascoltarle per la prima volta, ed ecco che ci viene da dire che no, non è vero. Stereo Mind Game fa parte della nostra collezione di dischi da sempre. Ma come fare a provarlo?
Possiamo procedere per tentativi. Il fatto che la band sia riconducibile a un genere che si chiama dream-pop non vale. Sarebbe riduttivo banalizzare un gesto di così profondo valore artistico alla sola dimensione onirica. A mettere in discussione le leggi della fisica nei sogni siamo capaci tutti. Lasciamo stare anche il gioco delle somiglianze a tizio o a caio. Ok, anche nei Portishead e nei Cocteau Twins ci sono gli archi, un incedere rallentato e una voce femminile, ma da voi pretendo di più. E il fatto che i Daughter si prestino alla sonorizzazione di videogiochi può essere rilevante, ve lo concedo. Ma non è solo questo.
Senza contare che i Daughter sono cintura nera di malinconia. Campioni del mondo di spleen. Eppure, non sono io a dirlo, rispetto a due titoli-manifesto dell’assenza come If You Leave e Not To Disappear qui c’è una vaghezza di ottimismo/realismo. Anni dopo l’ultima pubblicazione, Elena Tonra, Igor Haefeli e Remi Aguilella lavorano a distanza per scelta sul nuovo materiale. Poi la pandemia sovverte (a loro come a tutti noi) le priorità, ed ecco che mantenere i contatti in isolamento si consolida in metodo.
La musica d’insieme, che è un amalgama di voci, quando si ferma a mera somma delle parti si snatura, e non necessariamente con un’accezione negativa. La sfida è mantenere il controllo, rendere il risultato organico per quanto possibile. Ed ecco che, laddove non può esserci l’effetto che solo l’ascolto reciproco in tempo reale con gli strumenti in mano può conferire a un pezzo, il parziale sovvertimento dei canoni compositivi tradizionali ci apre le porte di un nuovo genere. Questo processo in cui si applicano in modo asincrono strati di cose l’uno sopra l’altro somiglia molto alla composizione di musica per film. E forse è questo che ci rende così famigliare Stereo Mind Game. Uno scherzo che ci gioca la nostra mente, facendoci credere che qui, in questo disco, ci siamo già stati. Non abbiamo traccia di quando, ma siamo sicuri di esser stati noi i protagonisti.
Il risultato è che in Stereo Mind Game il tema della separazione, dell’assenza e del desiderio di ritrovarsi è reso ovunque e in modo efficace. L’album ci accoglie con i bicordi di chitarra trattati con il delay di “Be On Your Way”, un approccio che mette l’ascoltatore nelle migliori condizioni per assumere la forma più adatta a quello che sta per accadere. Il pattern di batteria, un vero cliché del genere con tutti quei colpi in più di rullante che inducono alla sicurezza che il benessere che stiamo provando non ci lasci alla misura successiva, conferisce quel senso appagante di ciclicità e ipnotica ricorsività che poi è l’aspetto che più di ogni altro ci illude di far parte del ritmo a cui ci viene chiesto di abbandonarci, come in quei giochi in cui chiudiamo gli occhi e ci lasciamo cadere all’indietro consapevoli che qualcuno ci sorreggerà. Una tecnica sagace, ripresa magistralmente nella straordinaria “Swim Back” e, in maniera più sommessa ma altrettanto convincente nelle conclusive “To Rage” e, su tutte, “Wish I Could Cross The Sea”.
Ci sono poi tracce in cui i Daughter si propongono invece in un’anomala linearità ritmica che si riflette in una forma-canzone più scorrevole ma altrettanto angosciante, a iniziare da “Party”, da un verso della quale è tratto il titolo dell’album, fino ai turbamenti di “Junkmail” e alle domande senza risposta di “Future Lover”: come è il futuro? C’è abbastanza tempo? C’è spazio anche per brani riconducibili al folk etereo che abbiamo apprezzato nei dischi precedenti, come “Neptune”, il cui coro finale rasenta la perfezione, la quasi totalmente acustica “Isolation” e “Dandelion”, capace di accelerare i battiti e confermare che in velocità si riesce ad essere più sfuggenti nel modo di suonare e cantare musica indie-folk.
Il fiore pressato nella foto della copertina di Stereo Mind Game, una pratica per sognatori d’altri tempi, anni luce dai sospiri digitali che affidiamo agli algoritmi e alle intelligenze artificiali, incarna perfettamente l’anima di questo disco e degli anni controversi che ci stanno consumando. Noi, esseri umani lasciati soffocare come una pianta tra le pagine di un libro. Ciò che resta è solo la nostra forma priva dell’essenza a beneficio di chi lo sfoglierà o, peggio, come natura priva di vita, scelta a corredo di un erbario qualsiasi. A una decade esatta dal loro disco d’esordio, i Daughter ripropongono la loro poetica con una visione più matura, giustamente disincantata, ma ancora in grado di farci trovare rifugio in un altrove volutamente distante da qui.
venti
StandardDa ieri in classe siamo in venti, cifra tonda. Fino a due giorni fa eravamo in 19, un inutile numero primo, e non potete capire quante occasioni mancate, per uno che insegna matematica. Nessun esempio a portata di mano per multipli e divisori. E invece avete presente quante possibilità ci sono per imparare le frazioni o formare gruppi di diversa composizione? “Dividetevi in cinque squadre!”, potrò dire d’ora in poi in palestra. Certo, fino alla metà della seconda eravamo in 18 ed era ancora meglio, per via della presenza del 3, e un po’ mi rammarico del fatto che non ci sia nessuna possibilità di arrivare a 24 – il non plus ultra: si divide per due, tre, quattro, sei, otto e dodici – entro il prossimo anno in quinta, anche se il flusso migratorio, che cresce in via esponenziale malgrado le farneticazioni propagandistiche dei fasciofratellistiditalia, potrebbe riservarci delle sorprese. Ne hanno parlato proprio ieri sera al telegiornale.
Comunque vi presento il mio NAI, acronimo che sta per Neo Arrivati in Italia, un ragazzino di quasi 11 anni che ha raggiunto la sua mamma due settimane fa dal Perù. La collega della commissione stranieri me l’ha ufficializzato in corridoio allo stesso modo in cui si chiede in prestito la chiavetta per la macchinetta del caffè. Io credevo che per certe cose ci volesse un minimo di confronto ma poi ho pensato ai chirurghi del pronto soccorso che, in quanto a imprevisti, battono tutti. Era l’ultimo giorno prima delle vacanze, mentre l’inserimento sarebbe avvenuto subito al rientro. Al ritorno dalla mensa c’era già il banco e la sedia in più grazie allo zelo delle collaboratrici che hanno reso finalmente simmetrica la disposizione delle file in aula. I miei alunni mi hanno chiesto dettagli, ma io ne sapevo quanto loro. Fino a ieri, quando NAI è stato accompagnato nella mia quarta dalla bidella.
Il pomeriggio precedente, mentre mi documentavo per allestire una poco credibile slide di benvenuto da proiettare alla LIM, mi è venuto da giocare al gioco del lancio dell’omino giallo di Google Streetview a caso questa volta su Lima che, ho scoperto, è un gioco che non si dovrebbe mai fare con i posti più poveri di quello in cui si vive. Ho viaggiato virtualmente tra le strade sterrate della povertà e l’attesa di conoscere NAI si è trasformata in ansia allo stato puro. Al terrore di comunicare con lui senza capirci – parla solo spagnolo e combinazione la mia fobia più grande è quella delle lingue straniere, cioè vivere una situazione in cui nessuno si sforza di farmi capire cosa dice – si è aggiunto il fattore accoglienza nei confronti di un immigrato a tutti gli effetti. Non solo. Una delle tre informazioni che mi hanno passato è che sembra essere piuttosto chiuso e timido. Le altre due sono che la mamma è qui da un lustro a fare la badante e che l’offerta comprende un fratellino – un po’ più sorridente – che approda alla prima.
Il primo giorno di scuola di NAI non poteva andare peggio, a partire da me da solo che alternavo la presenza in classe con il ruolo di collaboratore tecnico per le prove invalsi della secondaria nel nostro laboratorio di informatica (la rete alla secondaria non regge). In più, l’attività che avevo previsto per rompere il ghiaccio con NAI si è rivelata un vero e proprio fiasco. Delle tre parole in spagnolo sottovoce che ha pronunciato (senza nemmeno togliersi il cappuccio del piumino dalla testa) ho afferrato che gli piace la matematica, così l’ho messo subito sotto con calcoli e problemi (senza testo ma con il disegno) in modo da non forzare con il gap linguistico e consentirli un po’ di tregua con quella specie di esperanto che sono i numeri. Quando l’ho accompagnato all’uscita tra le braccia della mamma prima della mensa – inizierà il tempo pieno solo la settimana prossima – mi ha concesso un mezzo sorriso. Mentre scendevamo le scale gli ho tradotto sul mio smartphone la domanda se si sentisse stanco, dopo quella mattinata nella nuova scuola. Mi ha risposto di sì.
Algiers – Shook
StandardNon dovremmo riflettere sul nostro peccato originale – quello di essere bianchi in un sistema economico, politico e sociale bianco – solo quando esce un nuovo disco degli Algiers. Il punto è che blues/rap e punk industriale, combinati insieme, li percepiamo ancora come una forzatura e ascoltiamo le loro canzoni permeati dal senso di colpa di non riuscire a considerarlo un genere a sé.
Siamo già al quarto disco ma, da quello che si legge in giro, si fa ancora fatica a non considerare ostico l’attrito provocato dalle graffianti melodie soul/black di Franklin James Fisher nell’istante in cui entrano in collisione con le basi così maledettamente noise/punk degli Algiers. Un approccio beffardamente recidivo che induce a una sola interpretazione: l’intento è far provare disagio all’ascoltatore. Mettere la gente in allarme. Farci evacuare dalla comfort-zone della trasgressione ordinaria.
Il punto è che anche il prodotto della musica più estrema, quando nella fase di confezionamento si mettono insieme cose differenti, risulta una sorta di miscuglio omogeneo, una soluzione in cui le sostanze sonore di partenza non si riescono più a distinguere. Per gli Algiers la cosa si fa più complicata perché siamo invece nell’ambito delle emulsioni: uno strato resta ben visibile in superficie e anche quando lo bevi – aggiungerei “soprattutto”, quando lo bevi – si distinguono perfettamente sul palato persino le quantità di gospel, di rap, di jazz, di R&B e i cubetti di spoken word. Non ci sono dubbi, da questo punto di vista. Nella discografia degli Algiers, “Shook” è probabilmente il più dissonante dei quattro, una scossa che fa tremare le ginocchia.
Non so a voi, ma per me questo non costituisce affatto un problema, anzi. L’apparente dicotomia tra bianco e nero è incisa a chiare lettere nel manifesto della band di Atlanta sin dall’omonimo disco d’esordio e se, a quasi dieci anni di distanza, siamo ancora a parlarne in questi termini, sarà per questa ragione che la loro musica, al momento, non teme concorrenza. Come loro, ci sono solo loro.
Smarchiamo subito gli onori di casa. “Shook” è un disco pieno di featuring così riuscite da far passare ai neofiti più sprovveduti gli Algiers come un collettivo, più che un quartetto. In ordine di apparizione c’è l’outro a parole di “Everybody Shatter” recitate da Big Rube, artista che poi ritorna a declamare il minuto e rotti di “As It Resounds”. Un paio di strofe e il rinforzo del ritornello di “Irreversible Damage” a cura di Zack de la Rocha. I contributi rap di Billy Woods e Backxwash ad aggiungere valore al capolavoro di “Bite Back”. I cori di Samuel T. Herring dei Future Islands e il rantolo di Jae Matthews dei Boy Harsher in “I Can’t Stand It”. I versi di LaToya Kent (una delle vocalist del collettivo Mourning [A] BLKstar) in “Born”. Il bridge in egiziano di Nadah El Shazly in “Cold World”. Il sax di Patrick Shiroishi e la voce di DeForrest Brown Jr. in “An Echophonic Soul”. La coda della traccia di chiusura “Momentary”, affidata ai versi di Lee Bains. Presenze così protagoniste da condividere la parte centrale della cover, insieme al titolo.
Ed è anche grazie a questo assembramento militante che “Shook” risulta un cupo progetto permeato di rabbia e di riscatto, di rivalsa ai soprusi. Non sorprende, se già sono gli Algiers in sé a essere un concept, prima che una band, con un nome che incarna la ribellione al colonialismo e il sacrificio per l’emancipazione. Percepirli al netto di questa dichiarazione d’intenti/fondante pregiudizio ne diminuirebbe la portata deflagrante. Dell’ottimo quarto lavoro colpiscono l’elettronica a tinte industrial, la chitarra sferzante e lo spazio che giustamente viene lasciato al gusto e alla tecnica di Matt Tong, batterista fuori dal comune cresciuto nei Bloc Party di “Silent Alarm”. E poi l’anima di Franklin James Fisher, la sua voce e le sue parole, il suo essere Algiers senza soluzione di continuità, le sue melodie profondamente soul.
La struttura delle canzoni è fuori da ogni convenzione. Prendete la ritmica e i cluster di pure onde sinusoidali su “Irreversible Damage”, la drum’n’bass de-costruita e pronta a compattarsi in velocissimo post-punk di “73%”, il rigore di “Cold World”, la trap tutta arpeggiatori e synth di “Bite Back” e il suo ritornello motown, il punk di “A Good Man” e quella promessa di muro di suono che viene mantenuta solo troppo tardi, il dub scombinato di “Something Wrong” con quel gioco di pitch che vira verso il basso e quel modo di suonare fuori tempo che mette alla prova anche i temperamenti più pazienti, i mille volti di “I Can’t Stand IT” e l’ossessività della proposta dei cori gospel che si sprigionano un po’ ovunque per sublimare negli accordi jazz di “Green Iris”, un brano con un finale che toglie il fiato, e in “Momentary”, la traccia conclusiva che ci fa ripartire da capo, dalle radici della tragedia della comunità afroamericana da dove tutto, Algiers compresi, è iniziato.
“Shook” è, ancora una volta, un disco pensato per risultare impegnato e impegnativo. È un tentativo di dare voce a un mondo abitato da oppressi che nessuno di noi, da questa parte del pianeta e attratto da questo genere di ascolti, è in grado di comprendere appieno. Rispetto alla nostra realtà, nei suoni e nelle parole, gli Algiers si confermano degli alieni. Io li adoro, ma riesco ad andare poco oltre la dimensione musicale. Se riuscite a goderveli così a fondo da lasciarvi condurre nella perfetta sintonia che i loro brani richiedono, sappiate che vi invidio moltissimo.
sopracciglia
StandardL’architetto che dirige i lavori di ristrutturazione del palazzo in cui si trova il mio appartamento – interventi esterni e interni legati al cosiddetto bonus 110% – ha spedito una e-mail a noi condomini con la quale non mi trovo per nulla in accordo. Siamo in ballo dal giugno scorso ma ancora ci troviamo in alto mare. Nel frattempo è successo di tutto: si sono allagati due appartamenti al quarto piano a causa della negligenza delle maestranze; la ditta che sta sostituendo l’ascensore ha toppato in eccesso l’ampiezza delle porte ai piani e hanno dovuto provvedere a ricostruire i muri; siamo già alla terza impresa incaricata di operai egiziani; il capo cantiere ha dato le dimissioni e anche il geometra; l’amministratrice non si è rivelata all’altezza della gestione di questa sequenza di complessità e ora, sapendo che vogliamo la sua testa, latita con gli aggiornamenti.
Così un mio vicino di casa ha sollecitato all’architetto un cronoprogramma ma la sua risposta – in sintesi – è l’ennesima riproposta di una narrazione che non sta né in cielo né in terra. Secondo lui dovremmo essere già contenti del fatto che si facciano dei lavori che rimoderneranno il nostro palazzo senza cacciare una lira e quindi, come direbbero i Maneskin, dovremmo stare zitti e buoni. Che poi non è vero, perché alla fine qualche migliaio di euro a famiglia l’abbiamo sborsato. Ma, detto fra noi, i soldi del bonus qualcuno glieli dovrà restituire a quelli che ce li hanno prestati, giusto? Intendo i miliardi di euro con cui abbiamo trasformato l’Italia in un cantiere, non è che ce li hanno regalati.
Li pagherà per noi anche mia figlia, che ha deciso di cambiare. Dopo vent’anni di capelli lunghi portati a cazzo si è fatta fare una frangetta prendendo, come esempio, Alice. La cantante, esatto. Quella di “Per Elisa”. L’importante, ha sottolineato quando mi ha messo al corrente del suo nuovo progetto di vita, era che le sopracciglia le restassero visibili perché le ritiene un dettaglio fondamentale per la sua personalità. Nel suo stato di agitazione con cui si accingeva a dare il via al nuovo corso (e se poi non sto bene?, mi ha chiesto sino allo sfinimento prima di uscire) mi ha ricordato i bambini della mia classe quando abbiamo annunciato loro che, da dopo le vacanze di pasqua, avranno un nuovo compagno.
Mi hanno stremato per ottenere maggiori dettagli ma io, ed è vero, non ne sapevo più di loro. La commissione che si occupa dei NAI non va tanto per il sottile e impone gli inserimenti senza chiederci nemmeno un parere. So solo che il nuovo bimbo, anzi, ragazzino, considerato che va per gli 11, viene dal Perù, ha appena raggiunto la mamma che lavora qui da quattro anni come badante, e non conosce una parola di italiano. Ma il meno pronto di tutti sono io, perché non so proprio da che parte incominciare, e meno male che insegno matematica. Spero che Google Translate sia efficace, ma a dirla tutta confido di più sui miei alunni anche se non tutti sono così inclusivi e accomodanti. Ne ho una che è problematica ma ha origini centramericane, quindi potrebbe tornarmi utile come mediatrice linguistica e forse, affidandole un ruolo così delicato, potrei prendere due piccioni con una fava.
Il nuovo alunno dovrò accoglierlo mercoledì prossimo alle 9 e anche questo è un problema perché, pur essendo in servizio, dovrò presidiare il laboratorio di informatica dove si svolgono le prove Invalsi della secondaria, in qualità di collaboratore tecnico. Ho già seguito due giornate di attività e avere a che fare con ragazze e ragazzi di terza media mi ha fatto impressione, visti simultaneamente dal basso della mia quarta primaria e dall’alto di genitore di una ragazza ormai quasi adulta e, ora, con la frangetta che le lambisce le sopracciglia.
Insomma, oggi sono rientrato a casa con tutto questo spleen addosso e mi sono ritrovato per l’ennesima volta intrappolato nei tubi innocenti intorno a quello che dovrebbe essere il posto più bello del mondo e il morale mi è sceso ancora più giù. Si sentono colpi di martello da ogni dove e quel poco di piacevolezza visiva che dà il mio balcone risulta tutt’ora privata dai ponteggi e dai teli anti-intrusione. Non passo più volentieri il mio tempo libero in casa. Anche tutti i miei dischi, nei quali trovo da sempre rifugio, giacciono sparsi sugli scaffali perché ormai il posto in cui conservarli è esaurito. Forse ne ho acquistati un po’ troppi, ultimamente. Io sono il primo a consigliare di non privarsi mai della musica che non si ascolta più perché, prima o poi, il desiderio si ripropone ed è facile pentirsi di aver dato via un pezzo della propria collezione. Ma lo spazio è quello che è. E anche il tempo, a pensarci bene.
caduta libera
StandardSe avete presente il momento in cui la natura pesta a tavoletta l’acceleratore per far tagliare ai vostri figli il temuto traguardo della prepubertà con il miglior parziale possibile, potete immaginare cos’è un’intera classe intorno ai 10 anni e cosa comporta avere venti bombe ormonali a orologeria da disinnescare per evitare il peggio stipate nello stesso luogo. La primavera della quarta la riconosci dal fuggi fuggi generale di tutte le qualità sulle quali l’insegnante ha costruito l’equilibrio di un insieme eterogeneo di cuori e teste, strappando mocciosi ancora caldi di latte e biscotti Plasmon dalle braccia delle educatrici dell’infanzia e coltivandone talenti e attitudini fino a quel punto. Oggi gliel’ho detto: siete irriconoscibili. Sentono tutti la primavera e in un momento in cui sono estremamente sensibili alla primavera. Ho detto loro che probabilmente sono tutti innamorati, e dai risolini che sono scaturiti, ho supposto di aver colto nel segno.
Quelli bravi sono regrediti di un semestre. Quelli con lo spleen si mettono a piangere per un nonnulla. Quelli che avevano mal di pancia nei giorni di verifica stanno a casa. Quelli permalosi passano all’attacco e spezzano direttamente le matite in segno di ritorsione. I più distratti hanno preso il volo con destinazione iperuranio a cavallo di un unicorno. Chi chiedeva permesso dà gli spintoni. Quelli che in condizioni normali sfoggiavano la memoria di un protista vanno direttamente in trance dopo la prima campanella e non li riprendi più. I più simpatici ti viene voglia di chiuderli in bagno. I meno simpatici pure ma poi gettare via la chiave.
Per una fortunatissima coincidenza ho praticamente detto tutto quello che c’era da dire sugli argomenti del programma e, visto che potremmo salutarci qui e riparlarne a settembre (considerate che la scuola è già di per sé così, aprile e maggio sono poco più che due circoli ricreativi) posso permettermi di puntare sulle attività laboratoriali e tutti quegli approcci dall’altisonante nome in inglese di cui ogni insegnante si riempie la bocca per darsi un tono nelle conversazioni con chi svolge un lavoro normale. Questo, ripeto, è un lusso, perché posso fermarmi per stemperare i costanti impeti di sperimentazione privata e sociale, sdrammatizzare le reazioni fuori controllo o, agli opposti, tentare la rianimazione di un encefalogramma piatto al cospetto di prove che, solo prima di Natale, costituivano una abbordabilissima prassi. Il prossimo anno sarà peggio perché, come guscio di stati d’animo tormentati, al posto facce e corpi da bambini ci saranno entità aliene di difficile classificazione.
Per spaventarli un po’, stamattina gli ho ricordato che a settembre 2024, quindi tra poco più di un anno e mezzo, si troveranno alla secondaria. Mi hanno guardato con la stessa espressione che mi sono sentito in faccia mentre leggevo, qualche giorno fa, un articolo sui 50 anni di The Dark Side Of The Moon. Il pezzo era su una webzine di costume. Ho terminato la lettura e ho osservato sul frigo una vecchia foto in bianco e nero dei miei genitori poco più che ventenni negli anni cinquanta. A fianco c’è quella mia e di mia moglie quando ci siamo conosciuti. Ho pensato che sono entrambe foto storiche, anche se la mia è a colori, e che cinquanta anni corrispondono a mezzo secolo, e a mettere insieme anche solo una trentina di mezzi secoli si arriva quasi alla caduta dell’impero romano di occidente. Più o meno eh, era per darvi una data certa, il 476 dopo Cristo, avrete capito che non è questo il punto.