quasi dieci minuti di quando quando quando quando di Annalisa

Standard

almeno quattro canzoni per i vostri mash-up con i Santi Francesi

Standard

SANTI FRANCESI – l’amore in bocca

Calcutta – Controtempo

Taylor Swift – Style

Luca Carboni – Luca lo stesso

Fabri Fibra – Stavo Pensando A Te

giorgia

Standard

Il presentatore l’ha annunciata e tutto il pubblico si è alzato in piedi, scandendo a tempo le sillabe del suo nome. Gior-gia, Gior-gia. Gior-gia. Il sangue nelle vene si è gelato quando, dalle quinte che sovrastano la celebre scalinata del palco di Sanremo, è comparsa lei, la presidentessa del consiglio, tutta azzimata in quel suo stile vorrei-essere-percepita-come-la-Merkel-ma-non-posso che le sta da cani. Gradino dopo gradino ha raggiunto il presentatore, mentre l’orchestra e il coro accompagnavano la discesa con l’inno di quel Mameli di cui le patrie tv stanno per mandare in onda la nazifiction e a quel punto, ormai sotto choc, mi sono precipitato a cambiare canale.

La ierofania di cui ieri sera siamo stati involontari (tele)spettatori ha sancito il definitivo strappo, consumando la fase definitiva di uscita dell’Italia dal resto del mondo, almeno sul piano musicale. Per la prima volta nella storia ci siamo totalmente emancipati dal modello stilistico angloamericano raggiungendo la perfetta autarchia armonico-ritmico-melodica. Uno stadio a cui siamo approdati a seguito di un lungo e granulare processo di mutazione perpetrato simultaneamente attraverso i canali che circondano le nostre giornate. La scuola, la cultura, la tv, Internet e i social, quel che resta della carta stampata e della radio, i centri commerciali e i mercati rionali.

Ora siamo finalmente indipendenti, sotto il profilo musicale. La musica tricolore si conferma un genere a sé grazie al quale non abbiamo bisogno di nulla altro. Il pop si è fuso con la melodia tradizionale, il rap si è snaturato in una versione di sé perfetta per la nostra attitudine al melodramma e per la nostra lingua priva di parole tronche, il rock si è piegato all’impeto operettistico e l’indie si è fuso intorno al cantautorato mainstream da quattro soldi, quello che un tempo si ascoltava in playback all’Arena di Verona nella serata finale del Festivalbar. Un trend impossibile da non cogliere, soprattutto se, come me, seguite in modo ossessivo compulsivo quello che succede negli Stati Uniti e in UK, ma anche in posti meno riconducibili alle rockstar come Germania, Belgio, Francia e Australia. Ho scoperto persino una band turca, che fa musica pazzesca.

Oramai tutto questo non serve più. Il processo di isolamento musicale e della non-dipendenza da Bruxelles e, in generale, dai paesi che contano si è compiuto. Ora possiamo fare a meno delle canzoni straniere, avere meno metri di paragone, farci piacere solo quello che ci viene subdolamente imposto e percepire il regime che si è consolidato come il migliore dei mondi possibili. Trap e baby gang, quello che viene fatto passare come il massimo della devianza giovanile, consentono al sistema di incorporare perfettamente il cosplaying della trasgressione più estrema, mentre i loro fratelli di poco maggiori partecipano ai concerti sold-out dei boomer rapper. In quota mainstream, il software-pop riempie stadi e palasport per più sere di fila, malgrado il costo dei biglietti e le difficoltà di accaparrarseli sulle piattaforme di ticketing online. Il monopolio del rock è saldamente nelle mani di Damiano David e dei suoi sodali. Da questa parte del mercato, l’identificazione liquida in questa manciata di categorie stilistiche si fonde in un magma indefinito fatto di streaming, meme, gag su tik tok, talent e retromania acritica.

E comunque, avete ragione. Possiamo considerare il Festival di Sanremo il super bowl di tutto questo, il rito finalmente purificato da ciò che prima contaminava la nostra italianità, la messa di Natale della canzone, dove Amadeus, al quinto mandato, ricopre in modo esemplare il ruolo di sommo sacerdote. Meloni e melodia hanno la stessa radice, d’altronde. Baci e smorfie LGBTQIA+ e ammiccamenti alla pace nel mondo sono inclusi nel pacchetto, una famiglia che si rispetti deve pur avere un figlio un po’ ribelle o impegnato da redimere per mission e verso il quale dimostrare la propria autorevolezza con le sembianze di magnanimità.

Per questo, al compimento della gestione Amadeus, possiamo finalmente sbrigare la pratica delle pagelle del Festival di Sanremo in pochi caratteri, spazi inclusi. Le canzoni, quest’anno, fanno cagare a spruzzo. Tutte. Anche quelle più raffinate, come i Santi Francesi o Geolier, o quelle più presuntuose, come Mannoia, Ghali e D’amico. Sono tutte uguali, tutte ricordano qualcosa, tutte hanno successioni di accordi standard, accordi tricolore suonati con strumenti tricolore che danno vita a composizioni perfettamente riconducibili alla musica tricolore, come la pasta e la mafia. Un unico specifico che ci siamo scelti perché ci piace essere così, ignoranti, mascalzoni latini e diversi da tutto.

Subsonica – Realtà aumentata

Standard

Avete presente quel giochino del genio della lampada e dei desideri impossibili da esaudire, quello da fare da soli o in compagnia? Anche se si tratta poco più di un innocuo pourparler, io non sprecherei comunque un’opportunità di questa portata con inutili velleità come vincere alla lotteria, sposare la mia attrice preferita, possedere la forza fisica di Superman, beneficiare dell’immortalità o essere investito del superpotere dell’invisibilità per fare i dispetti alle persone a casa loro. Resti tra noi, ma ho sentito persino di gente che opterebbe per un giorno da trascorrere nella Roma dei tempi di Ottaviano Augusto per assistere, dal vivo, a una conversazione in latino.

Per me, con un solo desiderio impossibile a disposizione, nulla di tutto questo. Io chiederei il dono di poter ascoltare di nuovo i Subsonica per la prima volta. Di poterli ascoltare senza averli mai sentiti prima, senza sapere chi sono.

Chiederei al genio della lampada di ricevere di nuovo la telefonata di quel cantante mio amico un po’ strambo, quello nell’entourage degli Africa Unite, che mi lancia l’idea di accompagnarlo al primissimo esordio live del nuovo progetto di Max Casacci, chitarrista appena fuoriuscito dalla band di Madaski e Bunna, e lì scoprire che si tratta della stessa band notata qualche settimana prima in un discobar del ponente ligure, in una formazione non ancora definita, alle prese con un’originale cover di “Impressioni di settembre” della PFM, addirittura con il celebre tema di synth riprodotto con il basso e arrangiata con quel ritmo reggaeggiante che, poco dopo, sarà utilizzato per “Cose che non ho”.

Chiederei al genio della lampada di non aver mai assistito a più concerti dei Subsonica nel periodo d’oro (dall’esordio omonimo fino ad Amorematico) di qualunque altra band o artista nel resto della mia vita fino a oggi e di cancellare dalla mia memoria anche gli svariati aneddoti tratti dal loro diario di bordo (se eravate sull’Internet nel 1998 o 1999 sapete di cosa parlo).

Gli chiederei non di aver mai portato mia figlia a sette anni a un loro concerto al Forum di Assago, da cui poi scappare lei, mia moglie ed io alla prima canzone (pur avendo pagato i biglietti) a causa del volume e conseguente rimbombo dei bassi e della cassa insostenibile, per la sua età. Una reazione piuttosto prevedibile, nonché meritato contrappasso a fronte di un patetico tentativo di ingerenza sui suoi gusti musicali

Mi porrei così al cospetto di Realtà Aumentata dei Subsonica senza conoscere nulla dei Subsonica. Tabula rasa e completamente vergine sui Subsonica ma non nel 1996, bensì oggi, ai tempi delle friggitrici ad aria, della guerra nella striscia di Gaza, di Lollobrigida, di Rondo e Baby Gang, del bonus 110, dei novax, dei video tutorial e del digiuno intermittente.

Il punto è proprio questo: l’ascolto di Realtà Aumentata esaudisce in parte il mio desiderio impossibile. Ascoltare Realtà Aumentata dei Subsonica è un po’ come ascoltare, per la seconda volta, i Subsonica per la prima volta.

Se fosse così, all’uscita di Realtà Aumentata, scoprirei il genere musicale esclusivo dei Subsonica che, al netto dei gusti (può piacere o non piacere) non ha eguali, né dalle nostre parti, né altrove. Nel potere maledettamente evocativo che ha la musica, i Subsonica non ricordano nessuno se non loro stessi e solo loro sanno suonare come i Subsonica.

Il modo in cui Samuel pronuncia le vocali, le parti di synth di Boosta, la sobrietà chitarristica di Casacci, i fill di quel mostro di tecnica che sta dietro ai tamburi e lo stile con cui il basso di Vicio si infiltra dappertutto, tanto per iniziare. Per non parlare delle intrepide e spiazzanti trovate armoniche, del substrato sonoro al limite del kitsch e così denso di mandate da perdere la testa, e quel mix di vissuti musicali con cui è stato costruito il loro sound. Anzi, è incredibile come nessuno, in tutto questo tempo, abbia mai tentato di emularli, a parte qualche goffo approccio alla tenuta del palco da parte del cantante dei Negramaro. È incredibile che non ci sia nessuno, in Italia, di cui si possa dire che suona come i Subsonica, che non sia mai uscito un disco che è “tipo quel disco dei Subsonica”.

Ed è sorprendente che il pop italiano di adesso non abbia nulla a che vedere con i Subsonica (che comunque un po’ pop i Subsonica lo sono), ma nemmeno l’indie o le sperimentazioni elettroniche (che comunque un po’ indie ed elettronici i Subsonica lo sono), tantomeno i derivati della trap (no, per fortuna con la trap non c’entrano un tubo). È inspiegabile come i Subsonica siano, da sempre, al di sopra del tempo.

Eppure, se il mio desiderio venisse davvero esaudito, non potrei non ammettere la modernità di quello che sento, non appurarne la sintonia con i tempi cupi che corrono, non cogliere la maturità nella lettura della realtà e la sua efficace trasposizione in liriche per canzoni. Persino, in alcuni passaggi, ravvisare la mezza età di chi suona (Casacci è del 1963) e la sensibilità assai più credibile sia rispetto agli artisti cinquantenni super-giovani ancora in attività, sia rispetto a quelli sessanta-settantenni in andropausa artistica, pur professando, i Subsonica, un genere musicale fortemente electro-qualcosa che, da sempre, è il genere musicale giovane per eccellenza.

Tutto questo senza la necessità di fare un check, brano per brano, con la lista dei rispettivi titoli da una parte e dall’altra, tra questo e un disco perfetto come Microchip Emozionale, per calcolare la differenza di peso e di valore in qualità come facciamo sempre con i nuovi dischi dei Subsonica.

Allora, lasciatemi un paio di considerazioni. Realtà Aumentata è il disco più da Subsonica dei Subsonica dai tempi di allora, il quarto meritato successo ufficiale in ordine cronologico dopo SubsonicaMicrochip Emozionale e Amorematico, e paradossalmente il primo vero disco dei Subsonica in cui la band non si guarda indietro con lo sterile tentativo di bissare gli antichi fasti ma esprime una personalità rivolta al futuro, più autorevoli che mai.

Nessuno, degli album dei Subsonica pubblicati dopo quella stagione, può vantare la totale assenza di passi falsi tra le tracklist e di ritmi dispari come questo. “Cani Umani”, “Mattino di Luce”, “Pugno di Sabbia”, “Universo”, “Nessuna Colpa” (con la voce di Samuel modificata con il pitch nella strofa a renderlo irriconoscibile), sono un’esplosione dietro l’altra. Si tira il fiato paradossalmente solo con “Missili e Droni” e, subito dopo, con “Scoppia la Bolla”, per farsi nuovamente risucchiare nell’iperspazio di “Africa su Marte”, fino a “Grandine”, “Vitiligine” e l’addio di “Adagio”, una colonna sonora che ammicca a certe atmosfere strumentali di Low di Bowie, perfette per dei titoli di coda che ci lasceranno, probabilmente, al buio per un po’ e da soli, con il ronzio nelle orecchie.

Probabilmente il miglior disco di una band italiana riconducibile alla musica per adulti degli ultimi decenni, Realtà Aumentata esce nella stessa settimana in cui, su uno di quei canali inutili della tv digitale, sono iniziate le repliche della prima stagione di ER e (per puro caso) ho assistito alla proiezione di Perfect Days di Wim Wenders, anche questo un link (analogico come le cassette protagoniste del film) con un periodo storico in cui il presente era perfetto. Il nuovo anno inizia con un colpo di scena. Il genio della lampada, trentenne come me nel 1997, mi sta inviando dei segnali. Allora chiudo gli occhi e conto fino a tre, magari è la volta buona che un desiderio impossibile si avvera.

ci siamo fatti così

Standard

Ci sono cose che hanno del miracoloso, tra le prime che mi vengono in mente c’è questa qui che ho davanti, per la quale schiaccio dei tasti di plastica con delle lettere stampate sopra e miracolosamente la stessa lettera si manifesta su uno schermo, ma anche certe funzionalità del corpo umano, ne parlavo qualche giorno fa introducendo l’argomento che iniziamo ora in scienze. Cellule, tessuti, organi, apparati e sistemi. “Ma ci pensate?” è la domanda retorica che ho posto ai miei bambini. Loro mi hanno guardato come sempre, come quando stanno per chiedermi se possono andare a fare la pipì proprio mentre io sono al momento cruciale del mio TED sul senso della vita. “Maestro posso andare in bagno?” e io, in risposta “Ma ti perdi una parte importante di spiegazione. È urgente?”. Inutile che vi dica come va a finire, le bambine sono già alle prese con il ciclo e non sai mai perché vogliono assentarsi, e allora devi mandare anche i bambini perché non sarebbe corretto e poi, se non li mandi, comunque i genitori si infuriano.

Comunque, tornando alla domanda retorica “Ma ci pensate?”, chiaro che non ci pensano, che non si pongono il problema del miracolo dei mitocondri o del sistema nervoso o dei globuli rossi e tutto lo sbattimento che fanno, non so se avete mai visto i cartoni animati sul corpo umano che, ancora oggi, costituiscono l’approccio pedagogico alle stem più autorevole e diffuso. Si accendono le luci nelle loro teste solo quando si parla di femmine e di maschi e di quello che combinano con i loro apparati riproduttori, per il resto è un tirare ai due intervalli e all’uscita. Non c’è apotema o funzione ricorsiva o progressione armonica che mi trasmetta da parte loro, mi accontenterei anche solo di un impercettibile sollevamento delle sopracciglia, una qualsiasi espressione di “cazzo che bella storia imparare le cose che ci spieghi, maestro, dimmi di più su Kind Of Blue e il jazz modale”.

Non li biasimo. C’era anche la puntata sul ciclo della vita, e probabilmente alla cattedra devo fare lo stesso effetto che fa a me vedere Augias alla tv, i capelli e la parlata un po’ biascicata si somigliano abbastanza, d’altronde anagraficamente sono molto più vicino a lui che a loro. Che poi, alla cattedra, chi ci sta più? La mia collega prefe si siede in cerchio sul pavimento con i bambini ogni inizio settimana e li fa parlare di quello che sentono dentro, per dire. Quando assisto a questi metodi, più efficaci e coinvolgenti dei miei (praticamente tutti) mi ripeto che, quando si presenterà l’occasione ci proverò anch’io, sempre che riesca poi a rialzarmi da terra. Ho un collega che ha qualche anno più di me e che a me dà l’effetto di mio nonno ma sono di parte, sicuramente nessuno, osservandoci dall’esterno, coglie la differenza. Indossa felpe e sneakers colorate che trovo in contrasto con gli spazi vuoti dei molari che gli mancano e i capelli radi e lunghi che porta pettinati all’indietro. Ci siamo scambiati qualche impressione su un nuovo modo di insegnare la matematica ma, mentre mi parlava, non riuscivo a staccargli gli occhi di dosso e, da allora, ho ripreso a indossare la camicia, perché il collo, quando inizia ad ammorbidirsi – diciamo così – è meglio occultarlo.

L’unico aspetto che mi lega alle nuove generazioni è, paradossalmente, la cosa che so fare meglio nella scuola, cioè risolvere i problemi dei computer, di quello che non funziona dentro e quello che gli sta attaccato. Saremo soppiantati insieme, quelli come me e quei ferrivecchi con cui stiamo affrontando la transizione digitale. Verremo ridotti in briciole come a Ercolano e Pompei, e gli archeologi del futuro ricaveranno i calchi con il gesso di noi nello spazio che lasceranno i nostri corpi sorpresi, con il cacciavite in mano, nell’atto di sostituire le lampade bruciate dei proiettori delle LIM.

sturdy

Standard

Allora siamo d’accordo. L’appuntamento è per martedì prossimo alle 14.30, prima ora dopo la mensa. Andiamo in terza B a insegnare lo sturdy a quei mocciosi di otto anni. Tutto perché ci siamo incontrati per una supplenza e ho notato un paio di nanetti arroganti che, nel solito gioco del jukebox, hanno accennato due mosse di breakdance. Si tratta di quello con la coda che – paradossalmente – quando è stato il suo turno di scegliere ha richiesto il “Pescatore” di De André, e il suo compare con i capelli rossi e il ciuffo, quel piccoletto che sembra uscito dalle vignette della Settimana Enigmistica, avete capito, quello dell’ultima fila che interviene sempre senza alzare la mano. Le femmine no, loro sono ancora nella fase dei balli di gruppo che è diventata una vera e propria disciplina a sé all’oratorio che è una cosa che non ho mai capito, quella di insegnare le mosse di “Danza Kuduro” e di “Bomba” ai bambini, con l’aggravante degli ammiccamenti sexy in un luogo frequentato da preti, insomma ci siamo capiti. Ha ballato persino una specie di reggaeton anche la bimba cingalese, per un corto circuito di integrazione e inclusione che non ha eguali. È una tipetta fortissima, ogni volta che la incrocio nei corridoi o in fila all’uscita le chiedo di pronunciarmi tutto d’un fiato il suo cognome da record: 18 caratteri spazi esclusi in un’unica parola. Lei obbedisce sorridendo, sa che mi diverte di brutto e devo esserle simpatico.

Allora ho colto la palla al balzo e ho condiviso l’idea con la loro docente che poi è la collega con cui ci lanciamo in questi esperimenti di classe fuori dalla classe. Lei ha accettato con entusiasmo, non è facile trovare idee fresche per organizzare attività di musica ai bimbi se non hai una formazione didattica apposita, cosa che non ho nemmeno io, sia chiaro. I miei alunni, ormai da un paio di mesi, si sono dati anima e corpo allo sturdy. Marco, che non avrei mai detto in prima che avesse la stoffa della leadership, ha contagiato il suo gruppetto più stretto con la sua passione e poi, grazie allo spirito di emulazione dei pari proprio dell’età, la pratica dello sturdy si è estesa a quasi tutti, a parte le ragazzine più recidive, compresa quella a cui i genitori, estremisti cattolici novax, impediscono persino di festeggiare halloween come tutti gli altri. Nell’intervallo corto e in quello lungo, quando non scendiamo in giardino perché fa freddo o c’è brutto tempo, si mettono in cerchio nello spazio antistante la Lim, scelgono su Youtube le canzoni più adeguate e poi, a turno, vanno in mezzo e si esibiscono con i passi standard di quella specie di Kazačok, il ballo dei cosacchi, o come diciamo noi in Italia dai tempi del Cantagiro e di Dori Ghezzi, Casatschok. Mi soffermo spesso a osservarli, ognuno con il suo stile. Chi è più atletico ma fa sembrare la danza una disciplina della ginnastica. Chi è più goffo. Chi ha meno forza nelle gambe, quindi con i risultati peggiori. Chi invece ha più stile, che poi è solo Marco, ma non glielo dico perché non voglio che i suoi compagni restino delusi. La danza è una questione di personalità ed è bello sentire di potersi muovere liberamente, fuori da ogni categoria.

Il problema è che la musica che fa da base allo sturdy fa cagare a spruzzo a livelli stratosferici e poi il repertorio a loro disposizione è piuttosto limitato. Quindi, alla terza o quarta riproduzione in loop dei successi di Rondo o di “Manzi in Romania”, chiedo a Marco e alla sua crew di eseguire i loro balletti a memoria, senza canzoni di sottofondo. Mi verrebbe da mettere “Roots Bloody Roots” o i Carcass a manetta ma so già che, con l’approccio genuino dei preadolescenti alla contrapposizione con gli adulti, riuscirebbero a deridere anche le cose più estreme che conosco. È impossibile estinguere le emancipazioni culturali devianti delle nuove generazioni, l’unica cosa che possiamo fare è intercettarle per sminuirne la portata trasgressiva, declassarle a componenti strutturali della società per far sentire i giovani non così fuori di testa come gli competerebbe. Nessun alternativo cresciuto nel sessantotto o nel settantasette o negli anni ottanta o nei rave party sopporta di avere qualcuno che lo sorpassa a sinistra con qualche trovata più estrema della sua e certa trap, sturdy compresa, è oggettivamente la cosa più folle mai vista e sentita da sempre.

Ho proposto alla crew dello sturdy della mia classe di far vedere di che pasta sono fatti, trasferendo a quelli di terza B le tecniche delle acrobazie che ostentano nelle loro esibizioni e mettere a frutto il loro talento. La strategia è chiara: diventare insegnanti di qualcosa significa mettersi in una posizione di autorevolezza e non c’è nulla di più antitetico all’autorevolezza come chi pratica la cultura della strada e dei parchetti e delle canne e delle gang della trap, che poi è cultura inconsapevole, nel senso che chi la professa non sa che sta professando una cultura ma pensa di fare delle cose a cazzo. Che infatti sono cose a cazzo ma, in qualche modo, le famiglie e la scuola e gli adulti in genere devono fare qualcosa, altrimenti, le nuove generazioni, le perdiamo definitivamente. Andremo a insegnare lo sturdy in terza B, e i miei alunni sono già gasatissimi.

bollino rosso

Standard

Alla primaria, almeno da me, non ci sono grossi problemi nel caso in cui un bambino accumuli troppe assenze. So che alla secondaria esiste un limite oltre il quale viene precluso il passaggio alla classe successiva in quanto i gap didattici impediscono l’applicazione dei criteri di valutazione. Con i più piccoli invece si cerca di trovare un compromesso con la famiglia perché le cause delle presenze a singhiozzo possono essere molteplici, soprattutto in questi anni di epidemie e influenze molto aggressive. Noi docenti, per esimerci da ogni responsabilità, segnaliamo in tempi utili al dirigente e in segreteria quando i giorni di assenza iniziano a essere di impiccio allo svolgimento delle nostre attività. Accudendo i nostri alunni quotidianamente abbiamo il polso della situazione, comunque da qualche anno ci viene in aiuto il registro elettronico che visualizza un bollino rosso come sfondo sotto al numero dei giorni di assenza – quando iniziano a essere troppi – e di relativa percentuale sul totale delle lezioni.

Io ho due alunni che sono marchiati con il bollino rosso già nel primo quadrimestre e si tratta di due casi completamente diversi. A fronte di assenze ripetute verrebbe da pensare che non frequentare sia una conseguenza di prove tecniche di abbandono scolastico o perché i genitori non si svegliano in tempo per la campanella perché la sera prima sono rientrati alle tre ubriachi come nelle serie tv americane o altri generi di trascuratezze, invece purtroppo si tratta del problema opposto. Troppa ingerenza nell’educazione dei figli – e in generale nella loro vita – induce le famiglie a vere e proprie psicosi. Nel primo caso dei due c’è una madre (fuori di melone) il cui obiettivo è tenere il bambino al riparo dai problemi di salute che una vita sociale e comunitaria può comportare, con il risultato che il figlio non è capace nemmeno a salire e scendere le scale. Nel secondo, una mamma altrettanto poco registrata non ha voluto rassegnarsi al risultato dello screening che confermava i disturbi specifici dell’apprendimento della bambina e, anziché avviare il percorso della certificazione e della conseguente pianificazione didattica specifica in collaborazione con la scuola, ha optato per una parziale istruzione domestica più o meno in autonomia. La figlia è tale e quale a prima, ma noi abbiamo gettato la spugna anche se non si dovrebbe.

Come vedete, anche il 2024 sembra promettere bene e, al momento, a scuola non si riscontra alcuna discontinuità quindi meglio così. Il mio alunno che parla a un tono impercettibile di voce e che quindi mi costringe ad avvicinarmi alla sua bocca esponendomi al suo alito micidiale non ha migliorato per nulla la sua igiene orale. Claudia, una delle mie colleghe prefe (come dicono i giovani d’oggi) ha in classe il fratellino del mio alunno-cloaca e mi ha confermato trattarsi di un problema generalizzato. I genitori hanno responsabilizzato in eccesso i figli in routine come quella dello spazzolino e loro se ne sono giustamente approfittati, con l’aggravante delle schifezze che devono mangiare per ridursi così. Gli alunni, a scuola, portano una parte del loro mondo e la mettono in condivisione con gli altri ed è li che le cose si mescolano e che si forma la vera società di domani. Da me ci sono un paio di ragazzine che non si fermano in mensa ma tornano a casa per pranzo. Il punto è che oltre a perdersi quell’importante momento di convivialità con i compagni, al rientro a scuola saturano la classe degli odori delle cucine in cui hanno consumato il pasto. Si siedono al loro posto e curry e aglio e fieno greco li vedi espandersi nell’aria per posarsi sulle cose come banchi di nebbia in autostrada.

L’ultima cosa che vi voglio raccontare riguarda Miles Davis. Quando mi serve un brano jazz che risponda a tutti i luoghi comuni del jazz in modo che sia perfettamente riconoscibile da chi non mastica il jazz – quindi anche dei bambini – metto “So What” e chiunque – quindi anche dei bambini – se gli chiedi di che genere si tratta, risponde “è jazz!”, senza pensarci troppo su. Una delle mie alunne prefe (come dicono i giovani d’oggi), di cui già so che ha il papà che suona un po’ di tutto, quando ho fatto ascoltare “So What” in un’attività di abbinamento immagini a colonna sonora, ha riconosciuto il brano – anzi lo aveva già riconosciuto dal titolo – e ha raccontato che il papà mette spesso il cd che lo contiene. Le ho chiesto allora di portare a suo papà i miei complimenti per i gusti musicali, e di risposta ha avuto un guizzo improvviso. Si è ricordata di getto che suo padre ha registrato un cd. Suona il sax, prevalentemente, così ho pensato che l’associazione tra “So What” e il sax di suo papà sul cd fosse il fatto che si tratta di un cd di jazz, così – altrettanto di getto – le ho chiesto di farmi ascoltare il cd, sempre che il padre fosse d’accordo. La mattina dopo il cd era sulla mia cattedra. Ho ringraziato la mia alunna e, dopo aver dato un’occhiata alla copertina, alla tracklist e al booklet, dopo aver verificato che si trattasse di una pubblicazione amatoriale e che lasciasse invariato il mio primato che mi vede tutt’ora in vetta tra le persone che conosco – non musicisti professionisti, ça va sans dire – come l’unico ad aver pubblicato un cd con una major, mi sono sovvenute alcune perplessità. Si tratta infatti di un’opera realizzata per beneficenza, e fin qui nulla di male, proposta durante la messa, e fin qui nulla di male, contenente musiche religiose, e fin qui nulla male. Il punto è che dovrò ascoltarla, cosa che farò appena pubblicato questo post, e dare un feedback alla mia alunna, una delle mie prefe (come dicono i giovani d’oggi), perché per lei è importante.

rumore bianco

Standard

Qualche sera fa è andata in onda, su Warner TV, la puntata pilota della madre di tutte le serie televisive che è “ER – Medici in prima linea”. Sapete tutti come funziona una puntata pilota, vero? Si cerca di concentrare in un unico prototipo tutto quello che caratterizzerà un prodotto dell’intelletto per verificare se può piacere e se quindi ha senso investire tempo e risorse per portarlo avanti. Nel numero zero di “ER”, visto a posteriori, un posteriori peraltro che accade a quasi trent’anni suonati dalla sua prima messa in onda, c’è già un accenno a tutti gli elementi che poi ricordiamo come specifici del primo vero e proprio medical drama della storia, a partire dalle personalità dei protagonisti – tracciate perfettamente, può piacere o non piacere ma si tratta di una serie che vanta una sceneggiatura da manuale – e dalle dinamiche delle relazioni e delle singole storie umane che si combinano su uno sfondo – quello di un ambiente dedicato al primo soccorso – ricco di paradossi e opposti che si dipanano tra gli estremi della dicotomia principale, la vita e la morte, per evidenziare tutte le sfumature intermedie che solo la chirurgia (l’intervento umano) può definire, e tutte le emozioni dello spettatore che ne possono derivare.

Non avete notato nulla? Ci sono cascato un’altra volta. Vi ho sottoposto una spiegazione non richiesta, peraltro probabilmente campata in aria, come se non conosceste il senso di “ER”. Come a tutti voi, anche a me quando qualcuno mi spiega una cosa che so mi viene l’orticaria, e non so mai se è colpa della mia presunzione di conoscere tutto, o della presunzione di chi mi spiega la cosa di conoscere tutto, o un mix di entrambi. In genere il mio approccio (a questa come a tutte le interazioni con il prossimo) è passivo aggressivo, quindi faccio finta di provare piacere nel ricevere l’ennesima lezione e, a quasi sessant’anni, credo di aver imparato altrettanto bene a dissimulare il disagio e il conseguente nervosismo.

Mi piacerebbe avviare un podcast in cui spiegare le cose che mi spiegano gli altri, cose di tematiche varie che vanno dal come dovrei sistemare la sedia della scrivania – quella su cui sono seduto proprio ora mentre sto scrivendo e che ha una gamba che prima o poi si stacca dalla seduta – a come si mette l’orzo in polvere prima di versare il latte, in modo che si attivi una soluzione preliminare all’intervento agitatorio e decisivo del cucchiaino. Gli spiegoni fanno il paio con l’aver fatto le cose prima degli altri, averle fatte quando non le faceva ancora nessuno, e il rilancio con una cosa più figa di quella che vi è stata appena raccontata, tutti tratti riconducibili al celholunghismo, che comunque è una variante del mansplaining. Obietterete che, se tutti smettiamo di spiegare le cose, non ci sarebbe più nessuna forma di comunicazione, a partire da questo blog. Vorrei spiegarvi che avete ragione, ma allora saremmo punto e a capo.

Mi limiterò a confrontarmi con voi allora sul fatto che trovo la trovata dell’episodio pilota in generale, cioè l’escamotage del numero zero, un approccio che sarebbe fantastico per il genere umano nel modo in auge di condurre le nostre esistenze. Voglio solo dire che la vita può essere un susseguirsi di puntate di prova di qualcosa da lasciare nel dimenticatoio se vediamo che questo qualcosa non funziona. La vita come un palinsesto di numeri zero di esperienze all’interno di un solo e lungo (speriamo anzi il più lungo possibile) e irripetibile spettacolo senza repliche. Il mio obiettivo è di migliorare il mondo smettendo di spiegare le cose al prossimo, quindi eviterò di condurvi lungo la comprensione di questa metafora.

Mi limiterò a un solo spunto, giusto per indirizzarvi a coglierne il meglio. Ho pensato che il progetto da abbandonare a cui mi dedicherò quest’anno sarà un podcast in cui registrerò queste cose che scrivo per vedere l’effetto che fanno sotto forma di voce narrante, qualcuno che le racconta, per farvi capire. Ho già registrato il numero zero, la puntata pilota, e l’ho pubblicata su Spotify, sapete – vero? – che ha una piattaforma di podcast molto semplice da usare, e se non lo sapete non vi spiegherò come funziona, ormai sono in questo mood e nulla mi farà desistere. Il titolo del podcast è “Rumore bianco” e l’ho scelto per due motivi. Intanto è riconducibile a una delle storie più avvincenti mai lette e a uno dei film più deludenti mai visti, ma anche al fatto che definisco rumore bianco – anche se poi non si tratta in sé di rumore bianco – il substrato di bordone composto dai ronzii degli elettrodomestici unito alla costante della tangenziale che scorre a un paio di km da qui moltiplicato per la moltitudine di fischi di varia intonazione che percepiscono le mie orecchie nel silenzio, quando sono in casa da solo. Si tratta di materia tangibile a tutti gli effetti perché, se chiudo gli occhi, la posso vedere e coglierne lo spessore. Rumore bianco, quindi. O forse è davvero meglio il podcast in cui spiegare le cose che mi spiegano gli altri, a partire da come ho sistemato la sedia che, resti tra noi, mica ho ancora aggiustato.

tutto pieno

Standard

Se i primi giorni del nuovo anno accusate un po’ di disillusione rispetto alle aspettative di disruption, come dicono quelli del marketing, è solo perché fino al termine delle feste bisogna consumare per forza di cose gli avanzi dell’anno precedente, comprese le giornate stesse. Quindi, fino a lunedì, niente cambiamenti degni di nota perché si vive ancora incapsulati in questi rimasugli di 2023. Sarebbe inutile allestire un ambiente nuovo di pacca con il rischio di sporcarlo di monconi di petardi, briciole di zucchero a velo e gelatina contaminata dal paté. Se non ci credete, leggete dietro l’etichetta di questa settimana e vi toglierete ogni dubbio. Meglio così. Lunedì mattina sentiremo quel profumo di plastica nuova che ha il 2024, almeno per chi lo ha scelto di questa fragranza. Per me è importante perché mi ricorda lo stereo nuovo che aveva portato a casa mio papà quando facevo prima media. Ho ancora un po’ di quell’aria che è sprigionata dal vano delle cassette, quando lo ho aperto la prima volta. Sono stato molto lungimirante a metterne un po’ da parte, così quando ho bisogno di dare riferimenti a qualcuno su quello che mi occorre per viaggiare nel tempo mi basta fargli dare una snasata. Ho diverse boccette con essenze di questo tipo. La più preziosa è la cute di mia figlia quando è nata, ma quella è come il barolo del 64, la stappo solo per le grandi occasioni. Conosco invece persone che hanno preferito, rispetto all’anno nuovo, un usato sicuro, magari a km zero. Io non ne sono molto convinto, credo che comunque sia bene guardare oltre e puntare al futuro, ma capisco che ci siano persone che preferiscono accontentarsi come nei giochi che trasmettono alla tele, quelli presentati da Amadeus, uno che è bravo a rendere complesse dinamiche che, prive della sua narrazione, sarebbero così fragili da esaurirsi in una manciata di secondi. So solo che vi partecipano concorrenti che devono solamente tentare la sorte e subirne le conseguenze, nel bene e nel male. Ma se tutto ciò vi sembra disastroso, consolatevi col fatto che, già a pochi secondi dalla mezzanotte di capodanno, eravamo già abbondantemente più di otto miliardi di persone. Un dato incontrovertibile che ho provato sulla mia pelle nell’istante in cui, in un impeto di disarmante sprovvedutezza, l’ultimo dell’anno vecchio, ho avuto la presunzione di pensare di trascorrere la sera del 31 al cinema Anteo di Milano senza aver prenotato i posti con adeguato anticipo. Il carico di insensatezza del mio tentativo ha servito alla cassiera al botteghino di uno dei cinema più esclusivi della metropoli ai margini della quale vivo l’inaspettato assist per dare sfogo al livore di dover lavorare la sera di capodanno, aumentato in scala esponenziale dalla frustrazione di esercitare uno dei pochi mestieri umili ai margini di un settore a elevata visibilità come quello dello spettacolo (per di più nella capitale dell’entertainment nazionale), attraverso una reazione (probabilmente in lei latente da secoli, considerata la prontezza con cui la risposta è stata estratta e il carico di stizza impiegato per la deflagrazione letale) volta ad annientare il candore del mio approccio da autodidatta al sistema comunemente definito come “saper stare al mondo”. Era tutto pieno, e se abbiamo toccato quota 8 miliardi lo sarà sempre più frequentemente. In così tanti, poi, lasciatemi pensare a chissà quanta musica nuova inventeremo. Qualcuno sostiene che, a differenza delle probabilità dei pacchi di “Affari Tuoi”, le combinazioni tra le note, gli accordi e i ritmi non sono infinite, che non c’è più spazio per nulla, che l’entusiasmo per le nuove uscite discografiche non ha senso di esistere perché viviamo in un perpetuo riproporsi di sonorità evocative del momento migliore di tutti, quello in cui il tempo si è fermato, quello che ci ha reso immortali.

cosplayer

Standard

Quando mi sento in colpa per essere diventato un ascoltatore ossessivo compulsivo di musica e uno sperperatore collezionista di dischi, penso che poteva andarmi peggio. Ci sono adulti che dipingono elfi e soldatini per i giochi di ruolo, gente che a cinquant’anni si veste da personaggi dei fumetti, o appassionati di modellismo.