Due certezze ho portato con me dalle incantevoli vacanze che ho trascorso quest’estate in Calabria: che la musica dello spot dell’Amaro del Capo è stata composta davvero da N.A.I.P., e che l’anarchia alimentare è l’anticamera della stetaosi epatica, vulgo fegato grasso. Con l’aggravante che il mio fegato, oltre a essere grasso, si è anche ingrossato. Oltre il danno, la beffa. Ma quello di aver assaporato ogni tipo di amaro prodotto laggiù, lungo le tre settimane trascorse su entrambi i versanti marini della Sila – e la Sila stessa – come causa di una situazione “non grave ma seria”, questa è la diagnosi del mio medico, è solo un alibi.
Faccio risalire a un altro alibi, quello del lockdown di ormai cinque anni fa, un decisivo aumento dei consumi domestici di cibo e, soprattutto, di vino e birra. Anni di ricette in tv e di programmi su ristoranti in tutti gli angoli del mondo mi hanno acceso la passione dei fornelli, e un approccio ignorante e da autodidatta come il mio conduce all’utilizzo di ingredienti e procedure tutt’altro che salubri. E da quando ho iniziato a giustificare con l’età una crescente attitudine ad accompagnare il tutto con bottiglie di un certo spessore culturale sotto il profilo enogastronomico e a compensare, con il piacere di un bicchiere in più a tavola e con le tradizionali bollicine all’ora dell’aperitivo, certi vuoti non sempre facili da colmare (la figlia ormai grande, la routine del lavoro, la povertà dell’ambiente professionale) ho oltrepassato il confine tra l’essere uno a cui piace bere, virando a spron battuto verso l’alcolismo militante.
Quello che forse posso imputare all’abitudine di terminare i pasti con gli amari artigianali che ogni posto in grado di rifocillarvi in Calabria è pronto ad offrire (nel senso che raramente mi è stato aggiunto nel conto) è solo un colpo di grazia. Già durante i mille e passa km del viaggio di ritorno, seduto al posto del conducente della mia auto, ho percepito un inequivocabile fastidio al fianco destro e il verdetto dell’ecografia addominale, corredato dalle analisi del sangue, al quale mi sono sottoposto immediatamente è stato implacabile. Ora sono uno di quelli che potreste vedere nei film americani dire “Ciao, sono Roberto e non bevo da trenta giorni” e credetemi, non voglio assolutamente banalizzare un problema grave o sminuire la sofferenza si chi ne è affetto. Naturalmente seguo anche una dieta mirata e mi sono rimesso a correre con una certa assiduità, nonostante faccia ancora un caldo porco. La mia erborista di fiducia mi ha consigliato un beverone al cardo con cui cominciare ogni giornata a stomaco vuoto e, naturalmente, al momento pratico l’astemia totale. Mangio poco e superleggero e questo mi sazia. Quello che mi manca sono gli extra, le porcatine con cui accompagnavo la birretta con cui credevo di rilassarmi dopo una giornata difficile. Mia moglie sostiene che è tutta colpa del fatto che mi manca il senso della misura, e come sempre ha ragione. L’approccio tendente all’esagerazione, quando si parla di sostanze dannose, è meglio evitarlo, e io, soprattutto con la birra, anzi con le birre, non mi sono mai tirato indietro, se non portarmi avanti.
Non sono mai stato invece un cultore dei superalcolici, che del fegato sono la morte sua. Ma, poco prima di partire per la Calabria, un mio amico mi ha convinto sull’urgenza di provare un certo amaro Jefferson, il top degli amari calabresi. Mi sono mosso così dal Tirreno allo Ionio alla ricerca dell’amaro Jefferson, ma nelle trattorie calabresi che mi hanno visto avventore dell’amaro Jefferson non c’era nemmeno l’ombra. Si poteva scegliere tra l’amaro della casa, quello onnipresente del Capo, il Silano, ma nessuno serviva il Jefferson.
Così mi sono avventurato in qualche bottiglieria sul posto e nei reparti di alcolici dei supermercati. Al dettaglio, l’amaro Jefferson costava in media 34 euro, mentre nei punti vendita della GDO circa 30 euro. Non nutro alcun dubbio sulla qualità del prodotto in questione, ma essendo poco più che un turista dei riti di fine pasto, investire così tanto per una bottiglia mi è sembrato fuori luogo. Rientrato a casa, però, alla prima spesa della mia nuova vita da salutista ho notato una fila di amari Jefferson sugli scaffali dell’Esselunga, ordinati uno dietro l’altro, a 28 euro. In tempi più spensierati mi sarei ripromesso di approfittarne in occasione di un’offerta al 20 o 30%, ma nel frattempo le condizioni di salute hanno cambiato radicalmente tutti i miei piani. Ora mi posso permettere solo verdura, legumi, frutta, carne bianca e acqua. L’amaro no, grazie, dopo il caffè sono a posto così.