nessun amaro in particolare

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Due certezze ho portato con me dalle incantevoli vacanze che ho trascorso quest’estate in Calabria: che la musica dello spot dell’Amaro del Capo è stata composta davvero da N.A.I.P., e che l’anarchia alimentare è l’anticamera della stetaosi epatica, vulgo fegato grasso. Con l’aggravante che il mio fegato, oltre a essere grasso, si è anche ingrossato. Oltre il danno, la beffa. Ma quello di aver assaporato ogni tipo di amaro prodotto laggiù, lungo le tre settimane trascorse su entrambi i versanti marini della Sila – e la Sila stessa – come causa di una situazione “non grave ma seria”, questa è la diagnosi del mio medico, è solo un alibi.

Faccio risalire a un altro alibi, quello del lockdown di ormai cinque anni fa, un decisivo aumento dei consumi domestici di cibo e, soprattutto, di vino e birra. Anni di ricette in tv e di programmi su ristoranti in tutti gli angoli del mondo mi hanno acceso la passione dei fornelli, e un approccio ignorante e da autodidatta come il mio conduce all’utilizzo di ingredienti e procedure tutt’altro che salubri. E da quando ho iniziato a giustificare con l’età una crescente attitudine ad accompagnare il tutto con bottiglie di un certo spessore culturale sotto il profilo enogastronomico e a compensare, con il piacere di un bicchiere in più a tavola e con le tradizionali bollicine all’ora dell’aperitivo, certi vuoti non sempre facili da colmare (la figlia ormai grande, la routine del lavoro, la povertà dell’ambiente professionale) ho oltrepassato il confine tra l’essere uno a cui piace bere, virando a spron battuto verso l’alcolismo militante.

Quello che forse posso imputare all’abitudine di terminare i pasti con gli amari artigianali che ogni posto in grado di rifocillarvi in Calabria è pronto ad offrire (nel senso che raramente mi è stato aggiunto nel conto) è solo un colpo di grazia. Già durante i mille e passa km del viaggio di ritorno, seduto al posto del conducente della mia auto, ho percepito un inequivocabile fastidio al fianco destro e il verdetto dell’ecografia addominale, corredato dalle analisi del sangue, al quale mi sono sottoposto immediatamente è stato implacabile. Ora sono uno di quelli che potreste vedere nei film americani dire “Ciao, sono Roberto e non bevo da trenta giorni” e credetemi, non voglio assolutamente banalizzare un problema grave o sminuire la sofferenza si chi ne è affetto. Naturalmente seguo anche una dieta mirata e mi sono rimesso a correre con una certa assiduità, nonostante faccia ancora un caldo porco. La mia erborista di fiducia mi ha consigliato un beverone al cardo con cui cominciare ogni giornata a stomaco vuoto e, naturalmente, al momento pratico l’astemia totale. Mangio poco e superleggero e questo mi sazia. Quello che mi manca sono gli extra, le porcatine con cui accompagnavo la birretta con cui credevo di rilassarmi dopo una giornata difficile. Mia moglie sostiene che è tutta colpa del fatto che mi manca il senso della misura, e come sempre ha ragione. L’approccio tendente all’esagerazione, quando si parla di sostanze dannose, è meglio evitarlo, e io, soprattutto con la birra, anzi con le birre, non mi sono mai tirato indietro, se non portarmi avanti.

Non sono mai stato invece un cultore dei superalcolici, che del fegato sono la morte sua. Ma, poco prima di partire per la Calabria, un mio amico mi ha convinto sull’urgenza di provare un certo amaro Jefferson, il top degli amari calabresi. Mi sono mosso così dal Tirreno allo Ionio alla ricerca dell’amaro Jefferson, ma nelle trattorie calabresi che mi hanno visto avventore dell’amaro Jefferson non c’era nemmeno l’ombra. Si poteva scegliere tra l’amaro della casa, quello onnipresente del Capo, il Silano, ma nessuno serviva il Jefferson.

Così mi sono avventurato in qualche bottiglieria sul posto e nei reparti di alcolici dei supermercati. Al dettaglio, l’amaro Jefferson costava in media 34 euro, mentre nei punti vendita della GDO circa 30 euro. Non nutro alcun dubbio sulla qualità del prodotto in questione, ma essendo poco più che un turista dei riti di fine pasto, investire così tanto per una bottiglia mi è sembrato fuori luogo. Rientrato a casa, però, alla prima spesa della mia nuova vita da salutista ho notato una fila di amari Jefferson sugli scaffali dell’Esselunga, ordinati uno dietro l’altro, a 28 euro. In tempi più spensierati mi sarei ripromesso di approfittarne in occasione di un’offerta al 20 o 30%, ma nel frattempo le condizioni di salute hanno cambiato radicalmente tutti i miei piani. Ora mi posso permettere solo verdura, legumi, frutta, carne bianca e acqua. L’amaro no, grazie, dopo il caffè sono a posto così.

ex

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Anche noi della primaria abbiamo ex pupilli a cui restiamo nel cuore e che tornano a farci visita alla fine del percorso scolastico, ancora imbevuti dello strascico delle emanazioni della nostra saggezza. Certo, gli alunni dei prof dell’attimo fuggente – o dalle nostre parti gli emuli di Alessandro Gassman in versione filosofo – una volta archiviata la maturità sono adulti fatti e finiti e possono incontrare i loro capitani scalatori di banchi al bar e tracannare birre insieme. Succede anche tra la secondaria di primo grado e quella di secondo (in questo frangente forse la birra non è il caso), nonostante la permanenza dei vostri figli nell’ordine di mezzo (la vera cenerentola della scuola italiana) sia ai limiti dell’inconsistenza e ci sia un turn-over di colleghi precari che fa perdere l’orientamento anche ai ragazzini più disponibili all’empatia e sensibili al fascino dei loro docenti.

La primaria invece è quel posto dove in prima accogli bambini che si cagano addosso, non sanno salire e scendere le scale, rovesciano l’acqua in mensa e ti vomitano sulle scarpe nuove (oggi più che mai: un seienne del 2025 ha la maturità emotiva e la percezione del proprio corpo di un duenne di trent’anni fa, o banalmente non apprezza i tuoi gusti in fatto di calzature) e li lasci cinque anni dopo con il ciclo – principalmente le femmine – e i baffetti sulle labbra – principalmente i maschi ma talvolta anche le femmine, e da esperienza personale so che può anche capitare che le scale le facciano ancora aggrappandosi ai corrimano. Poi se ne vanno e tempo qualche mese li trovi su tik tok, sempre che tu abbia tik tok (in realtà c’erano anche prima ma ai fini della narrazione è più efficace) e di base restano quei patatoni adorabili rompicazzo che ti hanno mitragliato a ripetizione di domande assurde, senza nemmeno alzare la mano prima, fino al giugno precedente, solo che in tempesta ormonale e con le tette.

Te li ritrovi tra le scatole fin dai primi giorni della prima del ciclo successivo mentre sei alle prese con lo svezzamento dell’ennesima batteria di mocciosi. Ti vengono a salutare all’uscita perché hanno sorelline e fratellini ancora alla primaria e ti mettono in imbarazzo rovesciandoti addosso aneddoti sui colleghi delle medie a conferma dei pregiudizi che avevi maturato conoscendoli dietro le quinte della didattica e consentendoti, grazie alla testimonianza diretta di utenti finali più che attendibili, di giungere alla conclusione che capita spesso che i prof delle medie non siano del tutto registrati (colleghi professori delle medie sto scherzando, eh).

Uno dei miei ex alunni preferiti è un ex bimbo, ora adolescente quasi alto come me, di origine cinese e che raccoglie una quantità eterogenea di disagi che non vi sto a raccontare, anche perché non potrei per ovvi motivi di privacy. Escluso da tutti, mi è stato addosso durante gli intervalli in giardino per cinque anni e ogni tentativo di inclusione con i compagni è finito con un buco nell’acqua, sicuramente per colpa mia, ma vi posso assicurare che anche lui ci ha messo del suo. Non riuscivo a togliermelo di mezzo in nessun modo, ho passato ore e ore in giardino a intrattenerlo con passatempi basati sulla matematica estemporanea (numeri e forme sono la sua passione) e il bello è che ora, da quando ha terminato la quinta, oramai due anni fa, si vergogna persino a salutarmi, una reazione oltremodo comprensibile. Darei qualunque cosa – compreso il mio orgoglio – per la sua emancipazione, il nostro rapporto precedente ed esclusivo su tutto. Come se non bastasse, ha un fratellino che fa la quinta – sembrano gemelli – e che è altrettanto impenetrabile quanto lui.

La dinamica con i rampolli di quella famiglia però quest’anno è stata scardinata dalla terza sorellina che è arrivata da noi in prima e che è una specie di diavolo della Tasmania di esuberanza e simpatia. Si precipita allontanandosi da ogni fila per abbracciarmi quando mi vede nei corridoi e mi saluta urlando il mio nome con un entusiasmo che non saprei descrivere. Ieri mi si è abbarbicata alle gambe con un sorriso ai limiti delle sue possibilità maxillo-facciali. Piacevolmente sorpreso, ho fatto altrettanto e mi sono permesso di chiederle di portare i miei saluti al fratello maggiore, che da quando non è più mio alunno avrò visto si e no tre volte.

Immediatamente ha messo su una maschera di perplessità, si è staccata da me e mi ha ammonito che no, non me lo avrebbe certo salutato perché “è cattivo e mi picchia ogni giorno”, per di più in combutta con il fratello di mezzo. Le ho chiesto così se avesse fatto cenno ai genitori delle modalità di messa in pratica sul campo di questo rapporto diversamente fraterno. E, da quanto mi ha riportato, sembra che la mamma e il papà l’abbiano persino sgridata, sottolineando di non avere il tempo per badare a queste cosucce. Conoscendoli, dopo cinque anni di GLO e di colloqui, non è stata certo una sorpresa. Una coppia apparentemente molto presente e attenta, ma nell’intimità domestica – stando ai racconti stessi dei bimbi e dell’educatrice che assiste il mio ex alunno – a dir poco originale. Io ho preso le prime lo scorso anno ed è un peccato aver mancato la sorellina per un soffio. Chissà come sarebbe andata, tra noi due.

le ultime parole

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Quest’anno le prime settimane di settembre sono volate. Un po’ mi spiace di aver dilapidato questo patrimonio di tempo – il mio periodo preferito – ricco di emozioni pre-autunnali e che non teme confronti, ma ho un alibi.

Se fate il mio stesso lavoro, è inutile scendere nei particolari di ciò che la ripresa dell’anno scolastico, prima della ripartenza di quello che costituisce il core business del mestiere dell’insegnante – stare in classe con i mocciosi, comporti. Dal primo collegio docenti alla prima campanella si manifesta un’orgia di incombenze fatali per la tenuta di noi docenti, fuori allenamento dopo gli innumerevoli mesi di ferie (uno e rotti per gli addetti ai lavori, quattro pieni per la questura) che ci sono concessi, tanto che già dal primo giorno effettivo di lezioni ci ritroviamo a sfogliare il calendario appeso in classe – il mio è di una marca di caffè prodotto nella mia città natale che compro a lotti di dieci confezioni da 250 grammi per volta ma, da quello che vedo nelle aule della scuola in cui insegno, non supera nessun altro esemplare in quanto a trasgressione o impegno civile, tanto meno quello dell’Erbolario appeso in 4A – e tentare una stima dello iato rispetto alla pausa natalizia, a maggior ragione in anni come questi in cui i ponti smorzano oltremodo qualunque anelito di pelandronaggine.

Ma questa volta è stato diverso. In questa dozzina di giorni precedenti l’ora zero mi è stata affidata una ragazzina di prima secondaria, alle soglie della seconda, per una serie di incontri individuali finalizzati al supporto allo studio e all’orientamento al metodo all’interno di un progetto – reso possibile grazie ai finanziamenti del PNRR – a cui è stato dato un nome che richiama lo sforzo di colmare proprio la voragine di fiducia reciproca che i disturbi dell’apprendimento rischiano di scavare tra la scuola e gli studenti.

Il percorso che ho pensato, da articolare lungo dieci ore totali distribuite lungo otto incontri, alcuni di un’ora e altri di novanta minuti, l’ho intitolato con un altisonante “Italiano al PC” e ha risposto alla richiesta arrivata dai suoi docenti di allenarla a scrivere, prendere appunti e realizzare schemi attraverso i software a disposizione. Alla base di questa scelta ci sono le difficoltà con cui si trova a combattere quotidianamente, un mix tra disgrafia e dislessia che le impedisce di mettere a frutto la sua forte volontà e un’intelligenza decisamente sopra la norma.

Almeno, questo è quello che ho percepito io di lei al termine dell’esperienza. Per i colleghi che l’hanno abbinata a me contava solo l’impatto performativo del suo chiamiamolo disturbo, un fattore che ha alimentato in me un pregiudizio che per fortuna è stato smentito lezione dopo lezione. Potrei sbagliarmi, certo. I suoi docenti l’hanno avuta in classe per un anno scolastico intero, al contrario per me è stato meno di una conoscenza superficiale. Ci siamo messi vicino, lei ed io, e insieme abbiamo scritto, riassunto, realizzato mappe, sistemato presentazioni. Arrivava nel primo pomeriggio, direttamente dall’oratorio, stanca, accaldata e con le mani sporche e le unghie piene di terra. Nonostante questo, non ha mai chiesto di fermarsi un attimo, malgrado le ricordassi che, nel caso, non ci sarebbe stato nessun problema.

Ma poi è successa una cosa che ha dell’incredibile. La penultima lezione le ho proposto un lavoro per il quale avrebbe dovuto scegliere, come argomento su cui cimentarsi, o il suo film o il suo libro preferito. Non ci ha pensato su più di tanto e ha indicato senza esitazioni il romanzo per ragazzi “Paolo sono” di Alex Corlazzoli. A fronte della mia curiosità su una scelta così spiazzante, per un adulto, ha immediatamente e irrevocabilmente confessato e condiviso il suo smisurato e appassionato interesse per la mafia, non solo in letteratura o cinema ma anche nella cronaca.

Nell’incontro successivo, quello conclusivo, ha portato apposta per me uno zaino ricolmo della sua collezione di libri sull’argomento che custodisce nella sua cameretta, un gesto che non poteva passare inosservato e una richiesta di confronto che non potevo certo lasciare cadere. Mi ha steso non solo con dettagli su fatti noti e con una capacità di fare collegamenti – Falcone e Borsellino, Giuseppe Di Matteo e il suo cavallo – ma anche con aneddoti personali. Trascorre parte dell’estate a Palermo dai nonni, con i quali visita i luoghi importanti legati alla storia della criminalità organizzata e agli avvenimenti più cruenti che si sono verificati in città. Mi ha persino raccontato della prozia vicina di casa di Brusca, che sosteneva che sembrasse una persona normale, uno che salutava sempre, e non ha dubbi sul voler fare il magistrato da grande.

Non ho resistito, rientrato a casa dopo l’ultima lezione e ancora prima di firmare la presenza sulla piattaforma dedicata, dall’inviare una e-mail alla madre per confidarle quanto sia stata arricchente per me quell’esperienza. Si è trattato di un vero e proprio corso di recupero. Credo di aver recuperato, in tempo per la prima campanella, il senso della scuola.

Water From Your Eyes – It’s A Beautiful Place

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(questo articolo è uscito su Loudd.it)

A parte qualche rara eccezione, l’art rock dei newyorkesi Water From Your Eyes da sempre si caratterizza per una totale dedizione a una sperimentazione pura e militante ma tutt’altro che di maniera e fine a se stessa.

A scartabellare tra la loro già corposa produzione, tre ellepi ufficiali a cui si aggiunge un ricco catalogo precedente popolato da raccolte autoprodotte, raramente si trovano composizioni rassicuranti dalla prima all’ultima nota e, all’interno delle tracce, i punti di riferimento a cui normalmente ci si aggrappa per individuare l’ingresso e l’uscita degli ascolti, o almeno una corsia di emergenza in cui accostare per riprendere fiato. Paradossalmente, è solo l’incipit del loro album d’esordio (Structure, pubblicato nel 2021), quella rassicurante ballad dal titolo “When You’re Around” che con il suo milione e rotti di streaming ha alimentato verso il duo composto da Rachel Brown, voce, e Nate Amos, tutto il resto, non poche aspettative nel circuito indie-pop tradizionale.

Per il resto, l’impressione più ricorrente che si trae dalla loro musica è quella di trovarsi al cospetto (sono parole loro) di remix di canzoni che non esistono. Un non-genere e un’efficace formula che ha reso i Water From Your Eyes una delle band più originali del momento, con una proposta che, al netto di qualche piccola ingenuità volta a elevare costantemente il più in alto possibile la smania di ricerca, li mette al riparo da qualsiasi tentativo di imitazione.

Ancora una volta, le canzoni di It’s A Beautiful Place suonano come brani completamente destrutturati privati del senso proprio (scarnificati cioè da ogni parvenza di consuetudine pop) e lasciati in balia di un senso traslato che li permea di valore modificato e riconducibile ad altro ordine. Anche le intro e gli interludi che, nel disco, si alternano alle tracce vere e proprie riflettono la curiosità con cui la band si insinua nelle dimensioni parallele della musica come la conosciamo. Un’indole radicalmente alternative che però ha assicurato a Brown e Amos un ruolo di tutto rispetto nelle scuderie della Matador Records e una ormai consolidata vicinanza artistica a pezzi da novanta come gli Interpol, band di cui sono stati supporter in tour. Gira voce che abbiano persino suonato al matrimonio di Paul Banks.

Il nuovo disco conferma che lo spirito di fondo dei Water From Your Eyes sia un sincero “queste sono le chiavi, fate quello che volete”, un potere assoluto esercitato con originale fantasia senza lasciare spazio ad abusi e sconfinamenti nel cattivo gusto. Ne risulta un’opera sorprendentemente raffinata, complice la sua brevità, poco più di venti minuti al netto dei riempitivi strumentali, ma incredibilmente traboccante di idee.

L’ossatura di It’s A Beautiful Place è composta sostanzialmente da sei brani in cui la band mette a frutto la migliore arte decostruttivista. In “Life Signs” (a cavallo tra Killing Joke e Stereolab, “Nights In Arbor”) vero compendio di asimmetricità, e “Born 2”, una versione in plastica di una hit nu-metal post-grunge depotenziata di testosterone e caratterizzata da un finale con cassa in sedicesimi, è la chitarra a essere la vera protagonista, l’espressione del versante più alternative rock della band.

Con “Spaceship” il duo rientra in una parvenza di ordine, nonostante le parti capovolte di batteria e la pura follia espressa dai rumori digitali e dai sussulti elettrici, mentre “Playing Classics” adotta i cliché della musica da dancefloor (cassa dritta, basso in levare, piano cheap, sequenze di synth e un’efficace taglia e cuci nell’alternarsi delle parti) per dare vita a un sofisticato tormentone pop, smentito dalla title track a cui è collegato, appena cinquanta secondi di un impulsivo hard rock melodico.

Fino a “Blood On The Dollar”, l’ultima traccia dalla parvenza di canzone, il fraintendimento di un brano country rock americano. Come se qualcuno avesse descritto a parole e versi a un’entità aliena una traccia di Neil Young e l’entità aliena, solo sulla base delle istruzioni fornite e senza alcun riferimento registrato, avesse provato a riprodurla.

Ne risulta la vera forza della band, quella di proporre costrutti sonori in cui il canto di Rachel Brown, nel suo variare tra rade melodie, martellante voce robotica e un parlato/rap davvero poco attendibile, risponde agli spunti di Nate Amos che poi, in fase di realizzazione finale, gioca a rivoltare radicalmente i connotati delle canzoni. Un progetto che, tra nonsense sci-fi e visioni evocative, tra groove sfatti e melodie improbabili, restituisce nella sua apparente incoerenza le emozioni di una tentacolare entropia, un luogo incantevole ma, allo stesso tempo, spietatamente desueto.

Ethel Cain – Willoughby Tucker, I’ll Always Love You

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questo articolo è uscito su Loudd.it

È Hayden Anhedonia in sé a essere un’opera d’arte. Lo sono la sua vita e la sua narrazione, una storia che da oggi comprende anche un prequel pensato come una potenziale trasposizione cinematografica. Lo sono i servizi fotografici in cui si presta come modella per sofisticate griffe di moda. Lo è la sua pelle, tela di espressioni di un simbolismo indecifrabile. Lo sono certi suoi video in cui racconta gli oggetti taglienti che la circondano o altri aspetti complementari quanto borderline del suo personaggio, particolari in grado di alimentare l’immaginario fetish e voyeuristico dei fan meno disinteressati.

Queste cose dovremmo ricordarle, ogni volta in cui ci apprestiamo a scrivere di Ethel Cain e dei suoi dischi nuovi, anche in un ferragosto in cui, in assenza di tormentoni e di non-notizie pop, il dissing social consumato a ridosso della pubblicazione di Willoughby Tucker, I’ll Always Love You contro Lana Del Rey assume i contorni di una scaramuccia tra star sin troppo off nei contenuti per questo genere di querelle, ma altrettanto colpevolmente da ombrellone (c’è un uomo condiviso di mezzo) rispetto al gossip mainstream.

Ethel Cain è un’artista che ha profuso tutto il suo impegno affinché musica e storytelling costituissero un tutt’uno indistinguibile, componendo, arrangiando, interpretando, cantando e suonando una parte degli strumenti e, allo stesso tempo, scrivendo la trama e delineando i dettagli della cupa vicenda di cui le sue composizioni sono imbevute. Un vero e proprio romanzo di formazione ambientato nell’immaginario culturale ed estetico del sud degli Stati Uniti, in un background in cui la tensione tra bigottismo, superstizione e abusi sessuali da una parte, e lo sfrenato ed estremo richiamo della modernità dall’altra, con l’aggravante dello smarrimento e conseguente transizione di genere nel periodo adolescenziale, offre una tale abbondanza di espliciti spunti narrativi da riempire più di una nottata, in binge watching, su una qualsiasi piattaforma streaming.

Per soddisfare in minima parte la curiosità, i videoclip autoprodotti dalla songwriter di Tallahassee, Florida, che abbondano sui suoi profili social sono teaser efficaci e squisitamente propedeutici di tutto quello che poi le sue canzoni svelano, durante l’ascolto.

Tutto questo e molto altro lo abbiamo visto, anzi, ascoltato in Preacher’s DaughterWilloughby Tucker, I’ll Always Love You, che ne costituisce il preambolo, e che racconta il turbamento con cui la protagonista ha vissuto la sua storia d’amore alle scuole superiori, più che influente per la continuazione della trama e il suo torbido finale che si consuma alla traccia conclusiva dell’album di esordio, porta avanti, anzi, indietro le lancette del suo concept, al momento in cui lo struggimento amoroso va a minare le sicurezze nel privato (l’esistenza stessa di Ethel Cain) e nel pubblico, un quadro disfunzionale tratteggiato in una riduzione letteraria (e in più di una licenza poetica) di quello che noi europei identifichiamo correntemente con il sogno americano.

Uno sguardo morboso dall’interno di una società che non smetteremo mai di considerare a dir poco pittoresca e per fortuna remota, da leggere e seguire alla tv, in cui il genere musicale di cui questo disco è permeato rende perfettamente l’idea delle perversioni, della deprivazione e di certe anacronistiche credenze soprannaturali. Tinte macabre, timbri dark, suoni corrosi fino al loro deperimento, tempi dilatati all’estremo che conferiscono atmosfere da trance estatica, una pratica in cui Ethel Cain risulta ad oggi imbattibile, a valle delle sue sperimentazioni già messe in atto nel precedente di pochi mesi fa, l’album Perverts.

Più forma che sostanza? Un dualismo per critici e speculatori che non esprime un vincitore e uno sconfitto. Willoughby Tucker, I’ll Always Love You alterna sapientemente struggenti brani country folk dai contorni decadenti, come l’apertura di chitarra e voce di “Janie”, il singolo “Nettles” – sicuramente il brano più accomodante del disco – e la rarefatta “A Knock At The Door”. Incorporei landscape strumentali intrisi di atmosfere ambient e drone, come “Willoughby’s Theme”, “Willoughby’s Interlude” fino all’incubo senza uscita di “Radio Towers”.

Nel disco trovano quindi posto una parentesi indie-pop, fintamente spensierata e dai ricami sintetici anni 80, “Fuck Me Eyes”, e le composizioni slowcore nei quali la cantautrice americana offre il meglio di sé, una manciata di dilatatissime ballad southern gothic dalle inquietanti dinamiche emotive come l’interminabile “Dust Bowl”, la diafana “Tempest” e i quindici minuti di coda di “Waco, Texas”, composizione in cui la voce, supportata dalle incursioni di chitarre doom, non delude le aspettative di chi ricerca in Hayden Anhedonia (e nelle torbide vicende di Ethel Cain) una giustificazione esaustiva al proprio disagio esistenziale. E che quest’anno siano usciti due dischi suoi, così diversi ma così altrettanto imprevedibili, vi assicuro, non costituisce nessun problema.

The Wants – Bastard

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Questo articolo è uscito su Loudd.it

Ci ho messo un bel po’ a notare che sulla copertina di Bastard (il secondo disco dei The Wants) ci sono due blatte in agonia, se non già morte, asfissiate sotto un bicchiere capovolto, e una mosca che non sembra passarsela molto meglio, stecchita insieme ad altre decine di moscerini su un pannello di carta insetticida sullo sfondo. “Death is Everywhere”, cantavano i Depeche Mode e proprio con una metafora da entomologi. Avevo frainteso il disordine disposofobico, tipico della quotidianità in uno scorcio di cucina qualunque, come elementare contrasto al rigore estetico della composizione still life dell’artwork di Container (il precedente disco dei The Wants) e le conserve senza etichetta aperte che vi sono immortalate.

Come a dire che sono passati cinque anni tra un album e l’altro e lo sforzo di mantenere quel rigore new wave (lo sfondo grigio dell’album d’esordio non lasciava spazio ad equivoci di palette) nel calo di intransigenza a cui la routine condanna anche le persone più metodiche, non è davvero sostenibile.

Il fatto però è che la foto usata per la copertina di Bastard nasconde una realtà molto più tragica. È trascorso qualche giorno dal Natale 2019 quando Madison Velding-VanDam, l’inquietante voce dei The Wants, viene informato del ritrovamento del cadavere del padre nella sua roulotte in Michigan, a otto giorni dal decesso. Una macabra scoperta in cui lo scenario di oggetti accumulati, bottiglie di liquore vuote, contenitori di ossicodone e foto appese al frigo ricoperte di sporcizia, è diventato uno sfondo emotivo per la composizione di nuove canzoni. Un’esperienza che non poteva avere un’iconografia tristemente più adeguata e che, in musica, si è tradotta in un approccio la cui sintesi si colloca dalle parti di “meno forma e più sostanza”.

Nel frattempo, lungo il lustro che separa i due ellepì (la band newyorkese fa parte della generazione Covid, una delle tante costretta a mettere in stand-by il proprio progetto a causa della pandemia) la polistrumentista Yasmeen Night si è aggiunta al duo composto da Velding-VanDam e Jason Gates.

Il nuovo ingresso ha sicuramente contribuito a definire il suono della band, mai come oggi nervoso e graffiante grazie a una perfetta complementarietà tra matrice elettrica e suffisso elettronico. Un mix che paradossalmente, anziché rendere lo stile più raffinato, ne ha potenziato la componente ancestrale che fonda le sue radici nella no wave più elettronica e nel noise/industrial, ma senza mai precludersi una salutare fuga da queste macro-categorie per composizioni di più ampio respiro e serenità.

La band ha quindi dato continuità a tutti gli spunti che nel primo disco risultavano appena accennati, consolidandoli e capitalizzandoli come valore aggiunto del loro stile. Un’evoluzione che non è da poco e tutt’altro che garanzia di successo, considerata l’abbondanza di offerta di post-punk e la conseguente saturazione del mercato. Ma i The Wants, con il nuovo disco, riescono a fare la differenza: non solo sono originali, ma suonano in modo diverso da tutti gli altri, sfoggiando credibilità e sicurezza e una maturità non scontata per un gruppo tutto sommato ancora agli inizi.

Un aspetto che, nelle tracce di Bastard, si percepisce soprattutto nella totale assenza di incertezze, ingenuità e trascuratezza dei dettagli. La sperimentazione di cui il trio newyorkese si fa paladina restituisce un’impressione tutt’altro che di improvvisazione, bensì di una verve artistica frutto di esperienza e consapevolezza delle proprie forze. Il disco si compone infatti di dodici canzoni scomode e forgiate orgogliosamente secondo tutti i loro marchi di fabbrica, pezzi che scorrono con freschezza e senza mai risultare ripetitivi.

Non c’è un brano che lasci con l’impressione di essere un riempitivo, per intenderci, come invece le tracce strumentali “Ramp”, “Machine Room”, “Aluminium” , “Waiting Room” e “Voltage”, pensate per raffreddare l’atmosfera di Container. All’interno delle singole canzoni del nuovo disco si colgono trame compositive che tengono costantemente sulle spine e impongono un ascolto attento. In Bastard, un titolo che è più che un calzante epiteto, nessuno ti prende per mano, ti fa da guida, tantomeno ti accompagna all’uscita. Sobri e senza fronzoli, i The Wants professano pochi registri ma ne bilanciano perfettamente la presenza senza appesantire le dinamiche nelle strutture dei pezzi e mettendo in risalto, in ogni tratto, i loro punti di forza.

Bastard si presenta con due brani che incarnano perfettamente il nuovo approccio dei The Wants. “Void Meets Concrete” è la band del futuro, un pezzo dal dubbio equilibrio e dall’improbabile beat che si snoda a singhiozzo con gli accenti tutti spostati. Un ritmo che non deve mandarvi in crisi. Provate a contarlo (io l’ho fatto per voi) e risulta un normalissimo 4/4 a 160 bpm. “Data Tumor” invece sono i The Wants come li conosciamo e in cui cercare e trovare lo stile che ha permesso loro di catturare l’attenzione del pubblico grazie a un fortunato mix di pop-no wave, il cui esempio in Container è più che eclatante nella hit “Fear My Society”.

La tracklist di Bastard prosegue con una serie di brani dalle ben definite atmosfere gotiche. “87 Gas”, “Disposable Man” e “All Comes At Once”, con il loro cantato insolente, il perfetto equilibrio tra chitarre e sintetizzatori e un inconsueto drumming frutto della sovrapposizione tra pattern acustici e fill e ricami elettronici, rimanda ad atmosfere di band come Alien Sex Fiend e Bauhaus. Con “Too Tight” torniamo alla no wave di partenza, un brano che risalta per un’interessante apertura di tastiere e per il deciso finale in cui il ritmo prende il volo. Altrettanto spettrale “Explosions”, con il suo recitato teatrale, brano che ci spinge a immaginare la sua portata esplosiva e la resa degli stacchi finali trascinati dal synth dal vivo.

Ma è con la struggente melodia di “Cruel” che Madison Velding-VanDam ammorbidisce un po’ il suo tono, ci fa tirare un sospiro di sollievo e ci lascia un barlume di speranza. Sicuramente la traccia più ispirata e profonda del disco, insieme a “Lover Sister Mother”, brano che presenta più di un richiamo familiare, e “Feeling Alright”, composizione con originali parti di tastiere che si distinguono per l’encomiabile intreccio con la chitarra.

“No Need”, infine, è una perfetta canzone di arrivederci, una traccia che ci lascia con tantissimi interrogativi. Forse i The Wants vogliono avvisarci di qualcosa, con quel crescendo che sfocia in una coda rock, nel senso proprio del termine. Un riff punk stoner che ci accompagna fino alla stretta finale di una serie di stacchi quasi prog.

Ed è così che Bastard si congeda come opera ambiziosa dalle ampie potenzialità, un concept con il quale la band di Velding-VanDam interpreta le paure di un’intera generazione dando voce e volto alle angosce personali, cantate con distacco e sarcasmo. La testimonianza più autorevole dell’evoluzione di un genere, che nella narrazione dei The Wants incarna la perfetta colonna sonora dell’imminente estinzione della nostra società.

Divorce – Drive To Goldenhammer

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Questo articolo è uscito su Loudd.it

Il fatto che Tiger Cohen-Towell e Felix Mackenzie-Barrow abbiano quattro cognomi in due dovrebbe risultare un campanello d’allarme per gente che decide di mettersi a suonare insieme. Quante personalità e quanti generi musicali possono coesistere nella stessa band? Se vogliamo aggiungere il batterista Kasper Sandstrom e la chitarra solista di Adam Peter-Smith, che insieme ai due cantanti (Cohen-Towel suona anche il basso e Mackenzie-Barrow la seconda chitarra) compongono la formazione dei Divorce, il quadro è completo. E non fidatevi se qualche etichettatore seriale con comprensibili obiettivi di massimizzazione profilatoria cerca di liquidare la questione con la storia dell’alt-country. Chi lo sostiene probabilmente ha ascoltato fino alla traccia tre (e anche piuttosto superficialmente) di Drive To Goldenhammer e, tanto per spoilerare, si è perso uno dei dischi più originali degli ultimi tempi.

O, se è andato fino in fondo, ha frainteso per mero tecnicismo il gioco tra le due voci, femminile e maschile, così deliziosamente perfettine e pulite da primi della classe alle lezioni di canto quando invece, converrete con me, c’è ben altro, a partire da una passione non comune. Il loro alternarsi, quel modo di fare un passo indietro a lasciarsi rispettosamente la scena da solista, per poi approfittare degli spazi melodici e dei silenzi altrui per portare valore aggiunto alla capacità emotiva dei brani, con il plus delle armonizzazioni che approfittano (con una naturalezza disarmante) della efficace semplicità delle linee vocali e che fanno tanto Stati Uniti del sud, è una qualità davvero originale, per una band (per di più di Nottingham, nelle Midlands inglesi) agli esordi e nel 2025. Una chimica rara, fatta di ascolto reciproco, pause condivise e un’intimità che si avverte anche quando i due sembrano urlarsi contro. I loro duetti sono veri e propri dialoghi emotivi, messaggi da una stanza all’altra di due persone che sanno perfettamente come abitare lo stesso appartamento.

Certo, l’atmosfera che pervade “Antarctica”, prima canzone dell’album, è inequivocabile e si mantiene tale anche per buona parte di “Lord”, la seconda, almeno fino al ritornello e al tema di sintetizzatore con il suono da theremin che, per la sua inappropriatezza, ruba la scena al quadretto western che fino a quel momento la nostra immaginazione aveva dipinto con luoghi comuni. Persino “Fever Pitch” e la decontestualizzazione dei cliché del genere potrebbe lasciarci poco più che indifferenti e convinti dell’idea dello stile che, fino a questo punto, i Divorce ci hanno trasmesso.

Ma poi è il turno di “Karen”, e qui le cose si complicano. Il cielo si addensa di nubi nere di tempesta, si leva un preoccupante vento di chitarre distorte e noise, la voce divina di Tiger Cohen-Towell si fa devastante come un uragano, ed è a quel punto che Drive To Goldenhammer richiama con urgenza la nostra attenzione. Che razza di disco è? Persino la successiva “Jet Show”, con il suo incedere irriverente e i suoi toni sarcastici, fa di tutto per portarci decisamente lontano dal punto da cui siamo partiti.

Ma il bello dei Divorce è proprio questo. Come alcune altre formazioni inglesi di nuova generazione (English Teacher e Porridge Radio, le prime due che mi vengono in mente) sono inafferrabili. Ci dev’essere stata un’esplosione da qualche parte nell’universo indie britannico. Una forza propulsiva o, per farla breve, un big bang che ha scagliato tutta la materia di cui si compone un po’ ovunque, tanto che i corpi sonori, allontanandosi e attraversando chissà quali atmosfere, hanno assunto sembianze inaudite e impensabili fino a poco tempo fa.

I Divorce sono autori di uno stile così spontaneamente sghembo e impalpabile da risultare perfettamente rassicuranti, la cosa più naturale che ci potrebbe capitare di sentire alla radio, aspetto che si conferma in tutte le tracce da qui alla fine dell’album. “Parachuter” è smaccatamente indie-folk, mentre il synth-pop da manuale di “All My Freaks” ci fa nuovamente saltare sulla sedia tanto quanto “Hangman”, che ci porta dalle parti degli Arcade Fire, e “Pill”, in cui convivono almeno tre canzoni in una con una struggente parte strutturale di piano e voce, tra psichedelia leggera e confessioni d’infanzia.

“Old Broken String” ha un titolo evocativo che non lascia dubbi, grazie alla linea folk di violino che apre a uno spazio narrativo tutto suo, quasi cinematografico. Un mood agli antipodi della penultima traccia “Where Do You Go”, nervosissima e graffiante, a tratti grunge, fino alla chiusura, “Mercy”, una ballad chitarra e voce che si conclude ripetendo più volte “I’ll always love you for that”, una promessa paradossale per una band che ha scelto di chiamarsi Divorce. Ma è proprio nell’alternanza tra impeto e delicatezza, tra commozione e sarcasmo, che i quattro sembrano trovare la loro vera identità: quella di una band giovane che non ha paura di mostrare tutta la propria forza, mettendolo in risalto ovunque necessario.

Avrete capito che Drive To Goldenhammer è un’opera costruita con un linguaggio personale che mescola con disinvoltura forme e background eterogenei, senza risultare mai indeciso. Cresciuto live nei locali di Nottingham e registrato e fissato nell’isolamento dello Yorkshire, è un album che esprime tutto il desiderio di essere percepiti, della paura di non bastare, della ricerca ostinata di un posto in cui fermarsi, anche solo per un attimo, una casa che non è necessariamente un luogo fisico.

I Divorce colpiscono per la  determinazione e la disinvoltura con cui adattano a composizione ogni ispirazione che si alterna nel vissuto dei componenti della band. Una fresca e convincente novità nell’affollato panorama musicale britannico e, sicuramente, uno dei migliori dischi indie dell’anno.

fantastico

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Aver cenato con Fabio Fazio una sera dell’85 o giù di lì – era stato ingaggiato come conduttore di una specie di rassegna che comprendeva anche l’esibizione della band in cui militavo – riduce a due,  al massimo tre, grazie principalmente a Papa Francesco, i gradi di separazione tra me e i più potenti capi di stato mondiali. Ci pensavo poco fa, osservando una foto sul sito di Repubblica che ritrae il presentatore mio concittadino insieme a Pippo Baudo, un altro personaggio celeberrimo che posso considerare – secondo questa teoria delle prossimità sociale che riduce il mondo a poco più che un borgo dell’appennino – a una portata di mano irrisoria.

In questi giorni torridi è morta un sacco di gente. Lui, un conoscente che suonava in un gruppo di amici, un fonico piemontese che ho ritrovato diverse volte dietro al mixer di festival a cui ho partecipato alla fine degli anni novanta, quando tentavo invano di fare il musicista da grande. Per non parlare di chissà quanta gente a Gaza o affogata in mare, tra le coste africane e quelle italiane. Ho trascorso le vacanze estive in Calabria e mi sono guardato bene dal visitare Cutro, a dimostrazione del fatto che la fama delle località turistiche dipende molto dalla cronaca nera che vi si consuma, il cosiddetto effetto Cogne.

Un aspetto un po’ paradossale per chi considera Agosto il nocciolo della vita, ogni anno sempre più scavato. C’è silenzio in strada, il caldo altera la percezione delle cose e fa sembrare tutto surreale. Chi è via comincia a sentire il bisogno di tornare e chi è a casa vorrebbe partire. Queste due forze entrano in collisione a scapito degli esseri umani più a rischio. Le persone come me che praticano l’ipersensibilità da molto prima che diventasse di moda, è proprio in questo periodo che piombano nel punto di non ritorno. Il momento più basso dell’umore che le precipita in un crollo periodico, una sorta di attacco di sconforto con una spruzzata di panico ma che, per fortuna, assale le proprie vittime per una manciata di minuti, si manifesta cogliendo impreparati donne e uomini, non importa dove si trovino. Sul divano, abbarbicati a un materassino colorato sull’acqua cristallina, al cospetto di una colazione da alta montagna, al centro commerciale, in una coda da bollino rosso al casello con fuori quaranta gradi.

Lo sentite arrivare, vi si smorza un po’ il respiro, quando le condizioni lo permettono riuscite a piangere un po’, che non fa mai male, ed ecco che dopo si azzera questa specie di contatore e ripartite da capo. Ogni estate vi sorprendete a espellere tutto quel malessere che si accumula un po’ al mese proprio come i giorni di ferie si maturano grazie alle settimane lavorative. Sappiate di non essere i soli. Il punto è intuire quando arriva la scarica e programmare le vacanze di conseguenza, una capacità che non è da tutti. Se vi cimentate in viaggi impegnativi, per esempio, è facile che il colpo venga ammortizzato dalla tensione con cui si affrontano le esperienze che necessitano di concentrazione, quelle in cui sbagliarsi risulta non fatale, per fortuna, ma comunque meglio evitare i rischi.

Altri invece raggiungono l’obiettivo spaparanzati con le palle al sole, in totale letargia e relax, quelle routine da last minute all-inclusive compreso di carrello degli antipasti. Fare niente comprende anche non provare nulla, quindi può funzionare. In questo periodo di tempo libero totale le cose da fare ci vengono proposte come il catalogo Netflix, all’avvio dell’app televisiva. Scartabelliamo tra le preview di pochi secondi tra esperienze nuove e ricordi sepolti nel tempo per cercare qualcosa a cui dedicarci o arrovellarci a ritroso. D’altronde non è lo struggimento nel percorso di scelta della serie o del film da vedere esso stesso lo spettacolo che ci intratterrà fino a tarda notte? In questa stagione così anomala di un anno così anomalo, la cui narrazione è un mash-up tra “Vamos a la playa” ma “No tengo dinero”, in giro, state tranquilli, non c’è nessuno. Non vi state perdendo nulla.

chiuso per tutto

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In agosto c’è poco da fare e da dire, e quest’anno l’assenza di tormentoni pop sotto l’ombrellone (non sono il solo a sostenerlo) è palpabilissima. L’overtourism indotto dagli influencer lascia sguarnite ampie zone di villeggiatura, così diventa più facile inseguire la quiete lungo le autostrade italiane, sempre che nessuno faccia lo stesso ma contromano. Io ho trovato un’oasi a bassissima densità di visitatori sulla riviera ionica della Calabria, con un mare pazzesco, clima perfetto e spiagge che si popolano solo nel tardo pomeriggio. Tanto relax, distanziamento sociale adeguatissimo per favorire la lettura e pochissime cose degne di nota. Le parole con la doppia t in bocca ai nativi di queste parti sprigionano una forza che qualcuno dovrebbe riuscire a catalizzare in qualche modo e in quanto a energia erogata sono seconde solo ai salumi serviti con gli antipasti. L’estate 2025, un’estate di guerra e recessioni, da queste parti sembra solo una parentesi assolata tra una stagione lavorativa e quella successiva. Gli adulti parlano del loro mestiere, di quello che hanno o di quello che vorrebbero avere, i giovani di quanto sollevano in palestra, e per lasciarsi trasportare dallo spirito vacanziero bisogna concentrarsi fortissimamente. Le ragazze ormai si sono tutte arrese ai costumi con le mutande che spariscono nel sedere e di pelosi non tatuati e privi di piercing, in spiaggia, sono rimasto solo io. Anche quest’estate ho azzeccato in pieno i libri da mare – “Il custode” di Ron Rush e “Giardino di marmo” di Alex Taylor su tutti – e ho preso una casa in un punto pianeggiante in cui riesco pure a regalarmi qualche corsetta mattutina, per il resto non ho nessuna voglia di fare altro. Il punto è che, più di ogni altra cosa, vorrei tanto prendere vacanza da me stesso, trascorrere qualche settimana nella testa e nel corpo di qualcun altro, ma in giro non si trovano più biglietti. Il primo collegio docenti è tra meno di un mese, ieri ho ricevuto l’email di una mamma che con cauto anticipo mette le mani avanti per il prossimo anno ma la scuola e la vita sono così: senza accorgercene superiamo pause lunghissime, fino a quando poi c’è qualcosa da qualche parte che ci aspetta per ricominciare.

Wet Leg – Moisturizer

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Al primo ascolto completo di Moisturizer, che a onor del vero andrebbe scritto con l’iniziale minuscola (un’avvertenza caldeggiata anche per tutti i titoli dei brani ma che mi rifiuto di osservare in quanto inconciliabile con i miei rigorosi principi editoriali) possiamo tirare un sospiro di sollievo. Il record mondiale di durata di brano sullo stesso unico accordo risulta imbattuto. Nel caso, il primato sarebbe comunque rimasto in casa dei campioni in carica: i tre minuti e sedici secondi invariati di “Chaise Longue” non sono stati migliorati da nessun pezzo del nuovo disco. Per la cronaca, “Pillow Talk”, canzone numero nove, ci è andata vicino. Apprezziamo il tentativo, ma è lunga solo due minuti e cinquantasei.

Una notizia che merita una doppia lettura: intanto le lacune di immediatezza e spontaneità delle nuove tracce rispetto a quelle del primo album omonimo (ma un disco d’esordio è un disco d’esordio, direte voi) e l’assenza di certi tormentoni da botta e risposta con la folla nei live (il “What?!?” corale in risposta a “Excuse me”, e l’ormai ricorrente urlo suscitato da “Ur Mum”, con cui far esplodere il pubblico) è ampiamente colmata e controbilanciata da una sorprendente varietà compositiva. Poi, soprattutto, ci troviamo al cospetto di un disco un po’ meno punk e un po’ più intriso di ammiccamenti pop, ma ci sta. Meglio non ripetersi mai, e certi toni è preferibile non forzarli, il rischio di prendere delle cantonate è sempre dietro l’angolo. Anche perché il ritorno dei Wet Leg (com’era prevedibile) è uno dei dischi più divertenti mai sentiti da un po’ di tempo a questa parte.

Come non apprezzare il gesto. Dopo stagioni fitte di opere dense e faticose, l’estate ci porta in dono finalmente un album di indie rock-pop disimpegnato, scazzato, catchy, stravagante e sbarazzino. L’irriverente verve compositiva di Rhian Teasdale e Hester Chambers è ormai il marchio di fabbrica del genere Wet Leg, una specie di post-punk da scampagnata, intelligente e stracolmo (non è una novità) di ironia.

In formazione ora prendono stabilmente posto i tre musicisti che abbiamo imparato a conoscere in occasione delle partecipazioni ai principali, per non dire tutti, festival internazionali dall’uscita del primo album omonimo e il seguente tour di promozione. Da quello che si evince scartabellando nei numerosissimi video (amatoriali e non) su Youtube, non può non saltare all’occhio il modo in cui il bassista Ellis Durand, il batterista Henry Holmes e il chitarrista polistrumentista Joshua Mobaraki, shorts a parte ma comunque decisamente wetleggers honoris causa negli outfit, siano entrati a pieno merito nella band. Perché fare il turnista, quando sei sufficientemente cazzone come chi ti ha ingaggiato? Ormai sono membri ufficiali anche loro a tutti gli effetti, su questo non ci piove.

Moisturizer, almeno quanto l’album che l’ha preceduto, merita un ascolto analitico, traccia per traccia. Il disco comprende brani che vi piaceranno, altri che apprezzerete moltissimo, qualche canzone che vi lascerà a bocca aperta e due o tre hit per le quali impazzirete. Il fatto è che Rhian Teasdale parla spesso di amore e, visti i precedenti, vai a sapere se questa volta fa sul serio.

È con “CPR”, il pezzo introduttivo nonché acronimo di Cardio-Pulmonary Resuscitation, che non perde tempo a dichiararsi. Il suo cuore è su di giri e ci vuole come minimo una respirazione bocca a bocca, per rimettersi in sesto. Un’introduzione che, sia per temi che per stile, fa il paio con il seguito, “Liquidity”, entrambi sviluppati lungo i canoni di un indie-rock da manuale. La coppia di singoli successivi, “Catch These Fists” (canzone che ci mette in guardia sin dalla prima battuta) e la romantica “Davina McCall”, riflettono due diverse visioni dell’amore, quello più combattivo e quello più accomodante.

Seguono una manciata di brani decisamente più raffinati della media e che faranno sciogliere il pubblico dal vivo, e mi riferisco a “Jennifer’s Body” (su tutte la mia preferita), “Mangetout”, “Pond Song” e “Pokemon”. Chiudono la tracklist la ruvida “Pillow Talk”, la sinuosa indie-ballad “Don’t Speak”, composizione perfetta per avviare la procedura per i saluti finali, l’unica testimonianza di canzone lenta dei Wet Leg, ovvero “11:21”, fino a quella che ha tutte le carte in regola per essere il nuovo prossimo singolo, “U and Me At Home”, una canzone con un ritornello così appiccicoso che non vi mollerà più.

Dodici canzoni che è facile liquidare in poco più di un paragrafo perché, davvero, nell’insieme rasentano la perfezione per un disco con simili credenziali. I Wet Leg, o le Wet Leg se vi rifiutate di riconoscere la nuova ragione sociale, con Moisturizer hanno davvero fatto centro. Risollevarsi dai fasti di un riempipista pigliatutto come “Chaise Longue” e confermare la propria abilità di songwriting da tormentone indie sarebbe stato impossibile, e se Rhian Teasdale e Hester Chambers si fossero messe a tavolino per ritentare l’alchimia di un brano riuscitissimo sarebbero incorse sicuramente in un errore madornale e senza ritorno, se non in una perdita di tempo.

Ci troviamo al cospetto di un’opera priva di qualunque forzatura, un genuino album indie rock che, siamo certi, passerà alla storia tra i dischi di una generazione che ricerca nella musica solo del sano e puro divertimento. Moisturizer, tutto il disco nel suo insieme, è la nuova “Chaise Longue”, un album di qualità totale che, nel futuro della band, sarà ancora più difficile da eguagliare.