non me ne parlare

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Giusto per chiudere il cerchio sulle complesse dinamiche famigliari nel caso in cui tutti i componenti hanno un’età compresa tra i quaranta circa e gli ottanta o giù di lì, è significativo sottolineare l’idea che gli anziani genitori hanno dei figli adulti e quali ricordi portano con sé del loro vissuto. La componente materna tradizionalmente si sofferma spesso sul periodo tra i zero e i dieci anni. Tutto il resto della vita, magari anche fatto di successi e soddisfazioni personali e professionali giace invece in una memoria back-up raramente consultata, il che induce a pensare che i suddetti successi e soddisfazioni personali e professionali in realtà abbiano un misero valore relativo. La componente paterna, invece, specie se tende a quell’esplosivo mix di umore nero (giustamente) causato da età avanzata e depressione più o meno latente, conserva con sé pronti da sfoggiare a ogni incontro con i figli – occasioni in cui, essendo rade e tenendo conto che la memoria non è più brillante come un tempo, facilmente si tende a ripetere sempre le stesse cose – quei due o tre aneddoti fortemente imbarazzanti per la controparte. Cioè capita che sei lì a cena e così d’emblée ecco che senti tuo padre raccontare di quella o quell’altra volta che e così via. Ora è piuttosto naturale avere commesso errori nella propria vita e avere cose di cui vergognarsi, pochi sono immuni dalla normalità, ma diciamo che in quattro decenni e rotti di esistenza argomenti inediti di discussione possono essere facilmente rinvenuti. Così uno inizia da capo ogni volta con lo stesso spirito positivo e i buoni sentimenti fino a quel momento di rottura: rottura dell’armonia, rottura di coglioni.

tanto di cappello

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Provo un pizzico di invidia, lo ammetto, per quella coppia di padre e figlio che sosta davanti all’ingresso della scuola elementare ogni mattina, come me, prima del suono della campanella. Il padre si riconosce perché, da quando è arrivata la brutta stagione, indossa un modello di coppola all’inglese di cui mi sfugge il nome, la stessa che usa Andy Capp, per farvi capire. Nell’insieme non ha propriamente uno stile inglese, sfoggia solo quel berretto che lo distingue dagli altri genitori. Poi anche il figlio ha iniziato a indossarne una identica, stesso colore, solo di taglia diversa. E si assomigliano molto padre e figlio, hanno gli stessi lineamenti un po’ albionici, in effetti, pallidi e rossicci. Vestono lo stesso cappello e sono molto teneri. E sapete perché li invidio? Perché hanno un tratto distintivo che mostra il loro legame, sembrano uno la piccola copia dell’altro. Ora a me non piacerebbe di certo che mia figlia sembrasse la mia versione in miniatura, non sopporto questo genere di leziosità nell’abbigliamento. E poi io vesto tutto di blu scuro con il loden, per esempio, look inadatto per una bimba. Ma io e lei, sono certo, siamo altrettanto uniti. Quando ci avviamo per il vialetto della scuola, per farvi un esempio, ci divertiamo a parlare di insetti, di quella volta in cui mi sono preso una zecca in un bosco e lei mi assilla perché vuole tutti i particolari. O passando per strada nei pressi di un cartellone pubblicitario, quelli appesi ai pali sul marciapiede, io vado da una parte, lei dall’altra e insieme ci facciamo “bù!” quando lo superiamo e ci ricongiungiamo. Sostiamo insieme nella calca mattutina e se non ci sono le amiche del cuore sono io a tenerla per mano. Questo e tanti altri particolari sono il segno di quanto siamo legatissimi, ci mancherebbe, siamo padre e figlia. Ma gli altri lo noteranno come io noto i copricapi altrui? Non vi nascondo che mi piacerebbe avere un indumento comune, un accessorio, un vessillo, una qualsiasi in grado di indicarlo a tutti. Un led luminoso, con una freccia rivolta verso di noi e un testo a scorrimento:  io e questa bambina, questa bambina ed io, siamo più o meno la stessa cosa a trentasei anni di differenza.

generazione vincente

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società liquida

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L’evoluzione della civiltà non è da mettere in dubbio, se non altro per l’invenzione degli strumenti volti a porre rimedio a necessità contingenti. Problema: all’umanità occorre un riparo mobile della pioggia, per evitare di camminare sotto i tetti e passare attraverso spazi aperti con disinvoltura. Soluzione: ecco l’ombrello. Questo ci differenzia dagli animali. E sempre in tema di maltempo, non bagnarsi i piedi nell’acqua piovana è altresì importante, per questo l’uomo ha inventato le scarpe in materiale idrorepellente. Ora, non è per fare quello che si stava sempre meglio prima, ma un tempo l’asset calzaturiero base in dotazione alle middle class era composto dalla scarpa da bel tempo e da quella da pioggia, laddove quest’ultimo articolo era disponibile sul mercato in una gamma comprendente dai modelli più spartani come le galosce o gli stivali in gomma alle scarpe più eleganti o anche di tendenza, come i Dr. Martens. O le polacchine in pelle. Tutto infatti va bene in caso di pioggia, non certo le scarpe di tela. Perché è proprio qui che, partendo dagli uomini primitivi, voglio arrivare. Benedetti giovani d’oggi che indossate le All Star sempre, con il sole e con l’acqua, in estate e in inverno, con il caldo e con il freddo. Quando piove così tanto non sono proprio adatte. Trascorrere una giornata intera con i piedi a mollo nelle scarpe da tennis inzuppate riduce enormemente la qualità della vita.

in armonia

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Oggi parleremo delle principali deformazioni professionali del musicista, anche se il musicista non è professionista, e mi permetto di aggiungere: quando il musicista è professionista e quando non lo è, dato che nella classifica delle posizioni retribuite più difficilmente raggiungibili il musicista professionista che campa solo di quello che vuole suonare è secondo solo al mestiere del Papa (senza accento, sì intendo proprio quello vestito di bianco che vive al Vaticano). Voglio dire, il musicista può essere professionale anche da semiprofessionista o da dilettante, e siccome è un’attività che quando la si esercita essa si impossessa della natura dell’individuo, è facile che l’individuo si comporti da musicista anche non necessariamente collegato a un impianto, o a un ampli, con uno strumento a tracolla o un microfono in mano. Insomma, ci siamo capiti.

Dicevo? Ah, si, tra le principali deformazioni professionali del musicista c’è quella dell’andare a tempo. Chiaro che ci sono i musicisti che non vanno a tempo nemmeno mentre suonano, ma questo è un altro paio di maniche. Quello che intendo io è cercare di andare a tempo sempre. Tralascio le situazioni che i più maliziosi di voi si staranno figurando e vengo al punto con qualche esempio. Autoradio a palla, macchina lanciata in autostrada. Si passa su un viadotto o in un qualsiasi punto in cui il manto stradale comprende giunti che, al passaggio dei pneumatici, generano un sobbalzo o un semplice rumore in due tempi (ruote anteriori e ruote posteriori, tu-tun). Il musicista facilmente rallenta o accelera, indipendentemente dalle condizioni del traffico, affinché il tu-tun sia perfettamente a tempo con il bpm della canzone in ascolto. Accade anche con le frecce, in quel caso sarebbe però necessario intervenire con un quantize del tic-tac almeno in sedicesimi, il synch non è modificabile con l’intervento dell’autista. Al massimo si può togliere e rimettere la freccia, un po’ come fa il dj quando per entrare al meglio con un pezzo da mixare a quello in quel momento sul piatto alza e abbassa il volume del canale interessato. Inutile affrontare il discorso della musica di sottofondo in situazioni qualsiasi della giornata, quando si è a spasso, con un carrello alla mano durante la spesa o impegnati in una qualsiasi attività domestica. Il musicista cerca di far coincidere un movimento forte con il battere e quello meno forte con il levare, per esempio si agguanta la caffettiera sull’uno, la si svita sul due, la si posa sul tre, ci si china sul quattro. Poi si apre lo sportello dell’umido sull’uno, si soffia nel filtro sul due, lo si batte ritmicamente sul bordo del contenitore secondo le proprie capacità tecniche sul resto della misura. Due battute da quattro quarti e la caffettiera è pronta per essere riempita.

A meno di non rendere partecipe platealmente il prossimo con questi piccoli dettagli maniacali, nessuno generalmente se ne accorge e la vostra reputazione è al sicuro. Ma c’è una deformazione più pericolosa per la salvaguardia dei rapporti interpersonali del musicista, e vi assicuro che si tratta di un’abitudine talmente diabolica e nefasta che è impossibile da trattenere. Il suo nome è armonizzazione e si manifesta tramite il canto. Già questo particolare è sufficiente a farvi capire la gravità: non tutti sono intonati, non tutti hanno una voce gradevole, non tutti sanno armonizzare, non tutte le canzoni sono armonizzabili, il gradimento degli intervalli armonici è soggetto alla cultura e al vissuto sonoro, diverso da persona a persona. Pensate per esempio alle misteriose voci bulgare, capaci di armonizzare con una seconda voce a un intervallo di semitono, cosa che suona ostica all’orecchio occidentale. Ma senza tirare in ballo fenomeni limite, non a tutti piace sentire una persona a fianco raddoppiare costantemente le melodie più celebri con terze, quinte e settime aumentate soprattutto quando nella canzone oggetto dell’armonizzazione seconde e terze voci non sono state contemplate. Per esempio, con un pezzo dei Beatles, che già contiene coretti e uacciuuariuari in tutte le salse, non è difficile mascherarsi da George Harrison e infilarsi tra i passaggi melodici. In altri casi è facile essere sgamati in pieno. Come sei stonato, come canti male, ti dicono in coro (non armonizzato) gli astanti. Una coltellata in pieno petto per te che ti stai arrampicando su una difficile modulazione per arrivare tramite sostituzioni acrobatiche alla sesta sotto della tonalità perché la terza sarebbe troppo alta e non ti piace cantare in falsetto. Ma il musicista sa meglio di chiunque altro che ogni brano, ogni linea melodica è sempre e comunque armonizzabile, la musica è stata inventata per quello, non ci si ferma alla critica del primo incompetente che passa. La polifonia vince sempre, come l’amore: chi vi minaccia di divorzio non andrà fino in fondo.

un pianeta terra terra

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Sabato più pioggia uguale centro commerciale. Non fa una piega, e sono in molti a non farla. Come si usa dire, la crisi non c’è perché mangiano tutti da Spizzico. Sarà.

Il centro commerciale in questione una volta era il Gigantesco Supermercato in mezzo a una galleria di negozi, i soliti brand che resistono perché con la loro solidità economica che si chiama franchising sono gli unici a potersi permettere l’affitto dei muri. In quel Gigantesco Supermercato, nel cuore del centro commerciale, fino a qualche tempo fa era messo tutto alla rinfusa, essendo talmente grande da rendere vano un modo strutturato e intelligente per guidare il visitatore lontano dalle sue necessità segnate a matita su un post-it e vicino alle offerte di tutto quello che non avrebbe mai voluto comprare ma che poi alla fine si ritrova nel carrello. Su questo, lo sapete meglio di me, ci sono studi e strategie mica da ridere. Così si sono inventati la formula Planet, che consiste nell’aver reso il Gigantesco Supermercato un vero e proprio sistema di consumo, il pianeta acquisti su cui si atterra dopo aver sorvolato i negozi satellite intorno e i vari spazi di ristoro. Dentro, ora colpisce il perfetto ordine, l’estetica ammiccante del restyle, il corpo perfetto di una creatura feroce quanto disciplinata composta di tutti i prodotti, tutte le scatole, tutti i barattoli ognuno nel proprio spazio dedicato. Congegni vitali che rendono l’esperienza del visitatore un viaggio allucinante nell’organismo di un essere vivente spietato e pronto a digerirti per poi espellerti, scontrino alla mano.

Nella apparente calma delle funzioni involontarie, la respirazione nel reparto alimentari, il battito cardiaco al banco gastronomia con il continuo bip bip del display che aggiorna di una unità alla volta il turno di chi deve essere servito, ecco l’apparato riproduttivo che è quello che attira di più l’utenza maschile e giovane: elettronica informatica e videogiochi. Un percorso segnato in rosso tra gli scaffali conduce a un salottino, due poltrone di fronte a una playstation con tv lcd. Due ragazzini obesi, conciati alla moda e con i capelli passati alla piastra, stanno giocando a sparare e uccidere persone finte, dentro lo schermo a non so quanti pollici tanto che assassino e cadavere sono in scala di poco inferiore all’1:1. La grafica è impressionante, sembra un film. L’audio è in qualità perfetta: dialoghi, colonna sonora e i colpi di pistola risuonano tutto intorno. Dietro, la fila dei curiosi che vogliono provare.

doppia matrimoniale

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Era la mattina in cui ci siamo svegliati ed eravamo in guerra, dall’albergo dove avevamo passato la notte si sentivano chiari e forti gli spari e le esplosioni, anche se lontane. Mi hai detto che sarebbe stato meglio raccogliere le nostre cose e andare via da lì, da quel piano alto e dalla periferia, probabilmente se c’è la guerra passerà proprio da qui per spostarsi nel centro della città. Era la seconda volta che dormivamo insieme, ci conoscevamo da nemmeno un mese e tu dovevi rientrare in Italia la sera stessa. I tuoi colleghi erano nell’altro hotel, quello per i turisti in centro, ti chiedevi se era meglio tornare laggiù, altrimenti si sarebbero preoccupati e temevi anche per la loro incolumità se si fossero mossi per cercarti. Che ne sarà di noi, ci siamo detti. Che ne sarà di me, ho pensato. Ti ho detto di no, non era il caso, a piedi sarei riuscita a rincasare senza pericoli. Nessuno sapeva che guerra fosse, chi combatteva, a malapena conoscevamo i nostri nemici, la guerra quando è civile è nelle strade, è la guerra della gente e non degli eserciti. Ma poi a uscire da lì nessuno dei due ha avuto il coraggio. In reception c’eravamo solo noi e il padrone dell’albergo, nessuno sapeva che fare, fuori c’era il deserto attraversato da mezzi blindati della polizia. Così hai deciso di chiamare l’altro hotel per sapere come era la situazione. Stavano caricando le borse sul pulmann per partire subito, scortàti. Hai detto a loro di passare di lì, che nessuno avrebbe potuto immaginare il rapido decorso degli eventi. E hai pensato a me, ma io non pensavo a nulla. Anzi, pensavo a tutto ma non c’era scelta. Sarebbe stato difficile salire sul pullman e restare insieme, sarebbe stato difficile lasciarci lì senza sapere se ci saremmo più rivisti.

captatio benevolentiae

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Volevo solo scrivere che da quando ho messo su questo rotocalco di scritti posticipati ho scoperto e riscoperto un sacco di gente interessante. Alcuni commentano, altri laicano compulsivamente su Facebook, altri ritumblerano, o commentano su fifì, o si manifestano nei luoghi e interstizi del web più improbabili. Insomma, un piccolo tributo a chi ho ritrovato, a chi ho conosciuto e non conoscevo prima, a chi mi legge e anche a chi, quando mi capita di incontrare per lavoro o anche solo al telefono, dice di seguirmi sempre e di leggermi con piacere. Ma il piacere è tutto mio.

l’uomo del pan di stelle

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per un soffio

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Scopro che mia mamma è informatissima su quel che è successo a Cassano. Non mi sorprende: mia mamma è informatissima su tutti gli argomenti del momento perché come molti suoi coetanei si aggiorna con il tg1, la cronaca locale dei quotidiani del posto e i tabloid straripanti di gossip che i quotidiani del posto soventemente danno in allegato o con qualche centesimo in più. Quindi è perfettamente allineata sulle notizie tra la cronaca e il costume, più costume che cronaca, i casi umani nazionalpopolari che si gonfiano di dettagli ogni giorno, storie vere che possono piacere a tutti, e così via. Per non parlare della cronaca nera, ma non tanto la cronaca brutale, voglio dire i fattacci truci e sanguinolenti attirano i morbosi tout court. Mia mamma ha invece questa capacità di assimilare tutte le microtragedie, anche quelle al limite della leggenda metropolitana, le fa proprie per poi esemplificare a suo modo qualunque argomento o aneddoto si stia trattando con lei. Faccio un esempio. Parlando della vacanza sulle Dolomiti e delle scarpinate in cui mia figlia ha dimostrato una buona resistenza malgrado la giovanissima età, lei può interromperti per raccontarti di quella famigliola che qualche giorno prima è caduta in una voragine o è stata travolta da una valanga e sono morti tutti. Oppure se le racconti dell’amico a cui la zia ha elargito un prestito per estinguere il mutuo e svincolarsi dai tassi delle banche, ti racconta degli strozzini che hanno spinto al suicidio quel padre di famiglia, l’hanno detto anche alla tv, quindi mi suggerisce di avvertire la persona che è stata oggetto di cotanta buona sorte di stare con gli occhi ben aperti. Forse è solo un po’ di depressione, o forse è un modo per giustificare il disinteresse a tutto il resto a cui le persone di mezza età non hanno più voglia di interessarsi, fatta eccezione per le sciure prezzolate dal padrone del partito che per un gettone presenza in più si fanno fotografare in piazza contro i nemici della libertà. Ecco, in questo caso mi racconterebbe dell’ipnotizzatore imbonitore che convince gli anziani a versare a suo favore l’intera pensione o a recarsi in banca per poi farsi intestare dalle vittime i risparmi di una vita.

Ma, per tornare a noi, sono certo che mia madre non avesse mai sentito nominare Cassano in precedenza, non la biasimo, a dir la verità nemmeno io. Sta di fatto che ne avranno parlato tutti i tg all’ora di cena, magari ci sarà stato un speciale su Elisir e il gioco è fatto. Poi però, scendendo nei dettagli, al telefono mi confessa che ha seguito molto la vicenda perché suo figlio, ovvero il vostro plus1gmt, in età prepuberale era stato sottoposto a una serie di esami e visite specialistiche per un sintomo analogo, che poi era stato smentito e la cosa, per fortuna, aveva avuto come conseguenze solo un po’ di spavento per tutti e, aspetto assai più grave almeno per me, la fine anticipata del campionato di mini-basket. Ti ricordi vero?, mi dice al telefono. E, non so perché, la cosa mi mette in imbarazzo tanto quanto i collegamenti macabri di cui sopra, mi viene subito voglia di avviare la conversazione verso il termine. Io e Cassano: mal comune mezzo gaudio? Già, e mi chiedo se sia più preoccupata per me o per un normalissimo attaccante del Milan.