l’amore al centro della periferia

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Ci sono numerose sovrastrutture culturali a cui ci abbandoniamo che somigliano molto all’amore anche se ne sono purtroppo dei surrogati. Poche balle: nessuna di tutte quelle cose dà altrettanta felicità, di questo ce ne accorgiamo presto, alla terza o quarta volta in cui soppesiamo l’originale e lo compariamo con le sue imitazioni i nodi vengono al pettine. Prova ne è che si può amare ovunque. Quella litania della ricchezza e della povertà, della buona e della cattiva sorte alla fine ci azzecca proprio. Si può amare anche in guerra e in tempi di miseria, per dire, magari è più difficile ma sono certo che qualche caso nella storia è facile rintracciarlo. Si può amare alla fermata del tram sulla Comasina, quella all’altezza di Paderno tutta diroccata e smangiata dalla ruggine sognando di possedere un giorno una macchina in cui amarsi al riparo, se non una casa tutta per sé per amarsi al caldo. Ho visto anche coppie amarsi all’Esselunga, e amarsi a tal punto da inventarsi coreografie con i carrelli stracolmi di spesa intelligente, tutte offerte e punti fragola senza concedersi nulla di più trasgressivo del proprio amore, dove persino la cassiera è costretta ad ammettere con la sua responsabile, che le ha portato un po’ di contanti, che non c’è storia: nessuna cosa può dare la felicità come l’amore.

cosa aspetti a baciarmi, vol. 2

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Grazie per avermi dato del gentiluomo, ammetto senza falsa modestia di aver fatto della gentilezza una mia ragione di vita. Grazie anche per aver agito d’impulso proprio come me, quando ci siamo spostati di lato all’unisono nemmeno fossimo una coppia di olimpionici del situazionismo sincronizzato. Mi stavo infilando a una velocità piuttosto sostenuta nell’unico posto macchina libero del parcheggio e mi è venuto l’istinto di muovere il busto come quando si vuole evitare di prendere dentro l’angolo del tavolo correndo, senza pensare che c’è l’auto intorno a noi che al massimo si sfracella sul paraurti di quella a fianco. Così ti confesso che non è la prima volta che mi succede, che ho già provato altrove a chinarmi come per mettere al riparo la testa dallo stipite se transito sotto un ponte, come se la macchina, così facendo, ci passasse più agevolmente, una sorta di sinapsi vivente nella mente di un’utilitaria da quattro soldi. Giustamente mi fai notare che si trovano in natura esempi di gente che inclina il corpo per favorire il comando impartito, per esempio spostando il proprio peso nelle curve nelle gare di go-kart o con i catamarani. Non voglio avere l’ultima parola e sempre secondo la mia idea di cavalleria comportamentale preferisco non metterti al corrente di quella volta in cui, con l’istruttore di guida a fianco, per muovere la Renault 5 di un mezzo metro in avanti mi venne spontaneo dare spintoni con il corpo mentre ero seduto con il volante in mano, in folle e a motore spento. Così, avvolti dal silenzio che c’è fuori, prima di scendere mi chiedi di farti sentire la cassetta di Wish e di cercare quella traccia che parla di fiducia reciproca, che per me equivale a una dichiarazione d’amore.

le canzoni romantiche

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Da Dante a Fedez – e perdonate il jet lag a cui vi ho esposto, posso immaginare che lo iato culturale multi-circadiano tra due poli così opposti sia incolmabile – dicevo che da Dante a Fedez il subbuglio ormonale da sfogare in rima deriva per lo più dalla tensione erotica che nella gamma delle sensibilità artistiche – ecco perché i due antipodi della poesia, l’acme e la fogna – si espleta attraverso la rima più o meno musicata. In mezzo ci sono mille anni di melodie d’amore però, versi modulati su accompagnamento strumentale, su cui autori si struggono mentre ascoltatori si dannano e beneficiarie si schermiscono. Le canzoni romantiche fanno sognare da sempre gli adolescenti ed è un processo che si reitera nel tempo con una continuità che non ha confronti. Se incontrate nel 2014 ragazzi che cantano i loro inni alla spensieratezza, a me è capitato qualche giorno fa in treno con tre giovanissime che intonavano un facile ritornello dell’ultimo disco de “Lo stato sociale”, mettete mano alla vostra vita e ripescate quel momento in cui è successo anche voi di condividere pene o successi amorosi con qualche amico di appoggio dotato di chitarra o altro strumento portatile, voce di supporto compresa, e riassaporate il conforto dato dallo sfogo dell’urlare quelle parole in cui vi siete riconosciuti protagonisti nel bene o nel male con una spalla compiacente a cui confidare cose così complesse come l’innamoramento corrisposto o respinto in giovane età. Si ride, si piange, ci si dispera o si cerca un appiglio per riprendere a vivere da un’altra parte con la canzone romantica giusta. Noi italiani siamo bravissimi in questo, se non fosse che spesso ci troviamo borderline con la lagna. Ma che importa ai produttori di testi da musicare, il loro obiettivo è fare soldi proprio con i nostri sentimenti incoraggiati o interrotti o anche solo ostacolati. A noi ragazzi alle prime esperienze ci basta un ritornello da ripetere fino all’esasperazione, come un mantra in grado di abilitare decisioni altrui a nostro favore. Un sì, un va bene, un bacio o una di quelle espressioni che poi a casa si possono adattare alle aspettative tanto sono neutrali. Da Dante in poi, ma solo per una corretta collocazione storica della certa esistenza della nostra lingua e Fedez questa volta lo lasciamo fuori dal gioco, miliardi di milioni di ragazze e ragazzi in coro si sono misurati poi subito dopo con l’enigma del silenzio, a osservare se il messaggio ha sufficiente forza per levarsi in alto e volare a destinazione, ignari del sistema di saturazione audio che c’è dalle nostre bocche in poi, un concentrato delle preghiere laiche o ufficiali di richiesta di salvezza a divinità in carne ed ossa, oggetto dei desideri di un genere umano che non cambierà mai e continuerà a vivere – con un coinvolgimento senza tempo – quella cosa che nessuno si spiega ma che, dicono, fa girare sole, stelle e, talvolta, parti anatomiche che la poesia la limitano un pochetto.

cosa aspetti a baciarmi, vol. 1

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A parte quando te lo chiedono espressamente e capisci che è giunto il momento e non ti puoi certo rifiutare, per il resto capire che la persona che hai davanti ti ha dato il via libera per mettere la tua bocca sulla sua per la prima volta è un fenomeno che a coglierlo, in effetti, può dare molte soddisfazioni. Gli estremi, o casi limite, sono quando si fraintende le intenzioni altrui, a te sembra che e invece non è mica così, condizioni a cui però non ho mai creduto perché, voglio dire, se sei arrivato a quel punto e non sei ubriaco se sembra che ci siano le condizioni di farlo significa che dall’altra pare c’è qualcuno che ci ha un po’ giocato con i tuoi sentimenti. All’opposto, proprio perché a verbalizzarne il desiderio un po’ si sminuisce la magia del momento, si cerca sempre di farlo capire, di addurre indizi sempre più espliciti, e se dall’altra parte non si coglie, si è un po’ addormentati o la timidezza – succede eh – ti paralizza le fasi preliminari all’approccio, può finire che uno non ce la faccia più e lo si domanda come a dire datti una mossa che sono in fibrillazione, imbranato che non sei altro. Quante volte siete stati protagonisti di questo momento così particolare? Cinque? Dieci? Cinquanta? No perché stanotte ho fatto una specie di sogno, e dico una specie perché è come se avessi rivisto una cosa accaduta sul serio. Io e Rita che camminiamo sfiorandoci il gomito, le braccia sono nude perché è primavera, e parlando insistendo su certe cose profondamente in comune (che poi anche lì questa cosa di essere così uguali funziona o no?) scoppiamo a ridere perché lei mi dice che è da stamattina che si sente Frank Sinatra, nel senso che ascolta il cosiddetto The Voice, e io faccio finta di aver capito che lei sente di essere Frank Sinatra. Insomma che ridiamo per tre o quattro minuti abbondanti senza fermarci, quelle risate che fanno venire mal di pancia dal ridere. E nell’istante in cui entrambi torniamo seri, non so dire chi o cosa ma, insomma, quello è stato proprio il momento giusto.

troppa passione in carrozza

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Della gente che si slimona nei luoghi pubblici davanti a tutti ne parliamo spesso, potete anche dire che la mia è tutta invidia perché i cinquantenni che si strusciano per strada non fanno certo un bell’effetto e la puzza di ormone da scambio di saliva in orari in cui è già tanto se la mia lingua riesce a collaborare per trasformare in bolo una fetta biscottata con la marmellata di rabarbaro mi dà alla testa ma solo perché sono fuori tempo massimo.

Oggi invece voglio solo lasciare una nota di biasimo per tutti gli uomini sul treno che si sporgono verso il sedile di fronte per tentare di baciare l’amata salendo con le mani lungo l’esterno delle cosce, avvicinandosi con il corpo mentre lei fa la preziosa voltando il viso per rimirarsi nel finestrino e osservare il livello di dominio che è riuscita a instaurare ripassando un’espressione che ha provato tante volte a casa dopo averla copiata da qualche subdola protagonista di soap dalla sceneggiatura infinita, tipo Beautiful. L’uomo si piega con la schiena in avanti un po’ per mirare alla bocca di lei e un po’ per placare l’entusiasmo inguinale ma la ragazza, ostentando un fastidio artefatto ritraendosi contro lo schienale, con un fare come a dire schiacciami ancora di più, come se il treno anziché essere un passante ferroviario con funzioni di metropolitana fosse un’alta velocità a 350 all’ora lanciato a bomba contro i ritardi di tutto il resto del traffico su rotaia e i passeggeri costretti da quella potenza d’ingegneria dei trasporti, compressi contro il loro posto in classe smart non rimborsabile. Lei dicevo sguscia ancora via come una saponetta insaponata, siamo ancora troppo distanti dalla stazione di arrivo per concedersi, così rintuzza l’assedio amoroso facendo valere il proprio ruolo dominante, d’altronde, come è noto, tira di più il desiderio di accoppiamento – per non dire di peggio – che un carro di buoi. Anzi, un locomotore.

agli antipodi dell’amore non c’è mica l’odio, cosa credete

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Osservateli entrambi qualche istante ai due capi opposti del tavolo, senza farvene accorgere perché fissare gli sconosciuti o comunque la gente in generale è maleducazione. Sì, stavo giusto per dirvi proprio che tutti e due siedono a fianco del reciproco nuovo partner. Ma anche se non vi avessi svelato questa specie di spoiler, apparentemente a nessuno verrebbe da dire che, in un tempo che fu, quei due si sono amati così tanto, davvero. E anzi se ci riflettete anche a voi verrà da chiedervi cos’è che l’amore sottrae vicendevolmente se poi resta il fondo, o il contenitore, insomma metafore ce ne sono a iosa ma tutte riconducibili a quella specie di ciste asportata che potremmo chiamare il suo contrario, “suo” riferito all’amore, intendo. Nel senso che agli antipodi dell’amore non c’è mica l’odio, cosa credete. Fate una torsione di 180 gradi e vi trovate che vi siete dimenticati tutto quello che è stato. Il non-amore, quello che subentra anche quando nessuno dei due ha commesso qualcosa di particolarmente oltraggioso, non ci sono stati tradimenti, botte, recriminazioni.

Entrambi sono gli stessi che hanno sovrapposto le bocche la prima volta meravigliandosi del sapore altrui, che si sono cercati la mano al buio, che si sono raggomitolati alla ricerca di reciproci tepori sotto le lenzuola di flanella nella casa di campagna riaperta estemporaneamente in autunno inoltrato, senza poter accendere il riscaldamento a propano liquido per via del serbatoio ancora vuoto e così – fallito anche il tentativo della stufa a legna umida – meglio l’autarchia dei corpi. Poi i punti di forza si trasformano in criticità, quante volte è successo? Le cose dell’altro che ti mandano in visibilio non hanno più l’appealing di un tempo, qui una volta era tutta passione, non ci sono più le mezze verità, tutti i luoghi comuni abitati insieme si snaturano tanto che in due non ce li si può proprio più permettere e si finisce che si trasloca in uno spazio immaginario diverso. I due membri della coppia agli sgoccioli fissano la stessa cosa simultaneamente – un film, un amico che balla, un cugino che si sposa, una meta turistica – ma in mezzo c’è una specie di striscia continua che spinge entrambi a rintanarsi nella propria corsia e poi le uscite, ovviamente, mica sono le stesse.

Il risultato di questo evoluto processo di mitosi multicellulare spinge gli ormai ex a spendere il nuovo bagaglio empirico nel corso di altre sperimentazioni sentimentali, ognuno forte del sé e di quello che ha portato a casa ormai indissolubile dalla precedente storia come se una parte di noi si fosse mescolata e al momento dell’addio fosse stato difficile distinguere quello che era appartenuto all’uno da quello che era appartenuto all’altro. Non è che tutto è riconducibile a una spartizione, mica ci sono solo libri, dischi e biglietti di concerti. Magari. Ma, a considerare il lato positivo, questo mi induce a pensare che è tutto un gran confondersi di personalità qui intorno, c’è qualcosa di tutti noi in tutti noi e non solo da un punto di vista genetico. Cosa non si farebbe per trattenere il più possibile gli aspetti vitali, vero? Detto ciò, torniamo a osservare i due che vi ho indicato prima, che hanno iniziato qualcosa insieme che poi si è interrotto e ora siedono allo stesso tavolo separati solo da una manciata di commensali, ignari conduttori di qualche forma di energia tra due poli che, malgrado i tentativi di dissimulazione, comunque da qualche parte si trasforma in qualcos’altro. Sono certo che sarà proprio quella, così evidente, a farveli riconoscere.

vivere insieme (12-inch 45rpm ep rmx)

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Non so quand’è che si capisce che quella è la persona giusta per te, non c’è una prova in cui ribalti i fattori, inverti gli addendi o aggiungi quello che hai sottratto. C’è una definizione molto simile a quella che è la verità, che invece definizione non ce l’ha, ed è che molto spesso ti accorgi se le cose funzionano se hai davanti uno o una che ce l’ha scritto in fronte. Almeno così dicono. Sapete, no, quei giudizi di frasi fatte sulle persone, come quando si dice che tizio è un libro aperto, gli occhi sono lo specchio dell’anima e così via. Ma mettetevi nei panni di chi con la fisiognomica non se la cava benissimo, senza arrivare ai paradossi lombrosiani, semplicemente riflettete sul fatto che di facce d’angelo – che poi non ho mai capito cosa voglia dire veramente – il mondo è pieno, e se le cose vanno male la colpa è anche la loro, così i conti non tornano.

Nel mio piccolo, mi fido di più di cosette che a raccontarle fanno persin sorridere. Per esempio se vedi qualcuno che come te non è in grado di scegliere, mentre cucina, il coperchio giusto per la pentola e ci vogliono almeno due o tre tentativi, non lasciartelo scappare. Non valgono gli altri sistemi per valutare le attitudini ad abbinare forme, come quei giochi che si sottopongono ai propri figli in età pre-scolare per inserire contenuti in contenitori. I cerchi passano nei cerchi, le mezzalune nelle mezzalune, i quadrati però anche nei rettangoli se hanno lo stesso spessore e, ovviamente la lunghezza del lato inferiore.

E se avere lo stesso orientamento politico è fondamentale, invece non vorrei deludervi ma leggere gli stessi libri, apprezzare gli stessi pittori o avere analoghe preferenze cinematografiche è ampiamente sopravvalutato. Intanto perché in fase di corteggiamento si forza sempre un po’ questo aspetto a proprio vantaggio, magari creando l’illusione altrui che tutte queste cose in comune vogliono dire qualcosa. Io ve lo sconsiglio, perché dopo qualche anno poi certi adattamenti al vostro sentire stanno stretti, scatta quella voglia di emancipazione in cui i primi a saltare sono quel cantante che avete voluto condividere come alla base del vostre precedente vissuto da single ma quei due o tre pezzi che a malapena conoscevate non fanno certo il tutto e, anzi, vi si ritorcerà contro. Conosco gente che ha chiesto il divorzio perché il partner ha messo un 33 giri partendo dal lato B, non rispettando quindi la volontà e il concept dell’autore.

Discorso diverso invece è se avete uno smisurato senso del tempo, intendo in musica, e non nel senso del susseguirsi degli eventi tanto meno inteso dal punto di vista meteorologico. Se avete una vicina di casa carina, per esempio, e parlo al femminile ma ovviamente si tratta di uno stratagemma unisex, a cui volete manifestare la certezza che vi si prospetta una vita insieme ma che al momento non se ne è accorta perché magari ne ha già una insieme a qualcun altro, fate come quel mio amico che si è procurato lo stesso disco che la vicina metteva sempre a tutto volume, lo si sentiva nel cortile. Anzi, se sono disponibili procuratevi i remix di quei pezzi, e appostatevi sui piatti come si fa quando si scoprono i percorsi e le abitudini altrui e ci si incontra casualmente – anche tu qui? Che combinazione! Al suo ascolto successivo fate partire anche voi il giradischi, a tempo, ovviamente, quindi iniziate a fare degli insert sul pezzo smanettando con il volume, avete presente no come fanno i dj? Metti, leva, metti, leva. E fatevi sentire. Le ragazze, ma penso anche i maschi, se apprezzano poi si prestano ad alternarsi a questa specie di performance live, almeno quel mio amico si è divertito un mondo, la vicina di casa pure, e da lì a mettersi insieme il passo è stato breve. E anzi, sapete che vi dico? Alla lunga può calare il desiderio, può evolversi il sentimento, ma nulla è mai come mettere insieme i dischi. Quando finisce uno può continuare l’altro, senza interruzione. L’amore, in fondo, è una specie di extended play.

ci vorrebbero più strumenti musicali tascabili

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Presso la scuola di musica del paese in cui vivo, quest’anno è stato istituito un corso di chitarra da scampagnata. Ora non ricordo la corretta dicitura ma il senso è quello: insegnare l’uso sociale dello strumento a sei corde, divulgare la sua funzione di collante delle attività di gruppo e ripristinare l’antico valore della “chitarra sulla spiaggia” nella cultura del tempo libero. La chitarra acustica, nella musica, riveste lo stesso ruolo del pane durante i pasti, un appagante e completo supporto armonico alle melodie. Ma il suo uso universalmente noto come “di accompagnamento” necessita di un’educazione musicale a sé. Basta riff, basta soli e arpeggi: se volete compiacere i due amici e guadagnarvi il diritto a fare un paio di tiri dallo spinello come si cantava ai tempi dei collettivi studenteschi, la chitarra dovete saperla suonare come si deve, con pochi personalismi e al servizio della comunità con pennate e barrè. E c’è ancora oggi chi ha voglia di imparare così e diventare un chitarrista senza troppe pretese, per questo l’idea della scuola di musica che vi ho riportato prima mi sembra tanto onesta quanto funzionale.

Ci sono infatti due aspetti da tenere in considerazione, che tengo a sottolineare in quanto tastierista/pianista e, come tale, sempre afflitto da una sorta di “invidia del manico” nei confronti dei miei nemici-amici chitarristi. Intanto la completezza armonica del timbro data da una giusta misura di note suonate simultaneamente lungo la scala (gravi, medie e acute), un risultato che non sono mai riuscito a ottenere in modo equivalente con il pianoforte vista la maggiore possibilità di rivolti (almeno credo) e la difficoltà di supportare una linea melodica con la base di accordi migliore. Suonare a due mani è una scocciatura, soprattutto se sei una mezza calzetta come il sottoscritto.

Oltre a questo, è la portabilità dello strumento che fa la differenza. Non a caso l’adesivo dell’hippy di spalle che campeggiava sulle automobili da fricchettoni di una volta aveva una chitarra sulla spalla, e non un piano verticale. Si tratta di un altro elemento di frustrazione. Vorrei vedere voi fermi in coda in autostrada per un incidente, quei blocchi in cui si sta lì per ore, e tutti i vostri compagni di viaggio che tirano fuori tromba, sax, contrabbasso, rullante e chitarra semi-acustica dal furgone e improvvisano un concertino nella corsia d’emergenza e voi nulla perché non ci sono prese di corrente e amplificatori.

Ma ci sono anche altri momenti che un tastierista vive con imbarazzo, quando per esempio c’è un pianoforte a disposizione e amici o parenti o colleghi ti chiedono di suonare qualcosa. Se sei un pianista classico o un jazzista, capace di suonare temi e di accompagnarli allo stesso tempo, il gioco è fatto. Gli spari senza indugi un notturno di Chopin o The Koln Concert e il successo è assicurato anche se qui, attenzione, il rischio di passare per un Richard Claydermann o, peggio, per un Giovanni Allevi è dietro l’angolo. Ma se non siete così esperti o siete più avvezzi ai synth, come me che ero scarso e pure abituato a suonare con una mano mentre l’altra smanettava su manopoloni e potenziometri, mettere a disposizione un brano di senso compiuto, con un capo, una coda e una serie di note in mezzo comprensibili, mica è facile. Non c’è una scuola intermedia e di conseguenza un modo ufficiale per diventare un pianista equivalente al chitarrista da scampagnata.

Ma a volte basta trovare una propria nicchia. Io per esempio avevo tutto un repertorio di stupidaggini musicali, che andavano dalla sigla de “Il pranzo è servito” a “Profondo rosso” e potevo contare su una discreta capacità di riprodurre al volo canzoni anche senza averle mai studiate con attenzione, attività che rientra nella categoria dell’improvvisazione. Questo mi ha regalato momenti irripetibili, come un’esibizione a una cena di Natale a casa di una fidanzata, molto tempo fa, con parenti, nonni e animali annessi, un convivio a cui ho aggiunto valore con il mio accompagnamento usando una di quelle tastiere da dilettanti a tutto un rito famigliare, e mi spiace averne dimenticato i dettagli. Mi pare che ci fosse un membro designato alla consegna dei regali ad ogni componente della famiglia e che, ogni volta, dovesse accompagnare l’attribuzione del dono con storie, battute, aneddoti famigliari. Sono stato così assoldato nel musicare improvvisando quelle scenette, fino a quando la nonna si era messa a piangere dalla commozione, anche se non riesco proprio a ricordare quale brano avessi scelto per sonorizzare il suo momento. Inutile sottolineare che quello, che era il primo Natale trascorso con quella ragazza, è stato anche l’ultimo, l’unico insomma, ma sono pronto a scommettere che quella cena, con tanto di esibizione di pianobar tutta per loro, se la ricordano ancora.

a silvia

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L’amore l’aveva spedita distante fino a servire ai tavoli di una trattoria in una frazione di un comune di un paio di migliaia di anime, quel genere di lontananza dagli affetti dai quali è facile farsi strappare fragili sotto gli impulsi della volontà di abbandono di una solitudine alle spalle, non sapendo quella che ci aspetta davanti. Un genere di distanza che l’aveva persino indotta a suggerire alle sorelle, come regalo comune di Natale per la madre con qualche problema di salute, il Telesalvalavita Beghelli, al telefono e pure con un fare distratto. Un modo tutt’altro che costruttivo di soffiare sul fuoco dell’autostima senile. Di una mamma, poi. Un vero e proprio colpo di testa a cui non avreste mai creduto se aveste assistito come me a quella che sembrava una litigata definitiva, in macchina, con quello che poi le ha chiesto di seguirla così lontano. Vedevo entrambe le teste spostarsi avanti e indietro dal parabrezza come ad annuire per poi negare di nuovo e i sì e i no si sentivano chiaramente perché non si affrontano discussioni con i finestrini abbassati e l’auto parcheggiata in piazzetta. Lei per spiegare meglio le sue ragioni giochicchiava con le dita allargando il buco sul rivestimento del tettuccio che per scherzare gli dicevamo che sembrava uno strappo causato da una tacco femminile. Non c’era stato però nessun sviluppo e nemmeno alcuna decisione era stata presa perché dalla parte del guidatore si era avvicinata nel frattempo un’amica di lui che non aveva capito la tragedia di coppia che si stava consumando, d’altronde non lo vedeva dal giorno della consegna delle tesi e lui non se l’era sentita di liquidare l’incontro con la scusa che non era il momento di interrompere quel che stava accadendo. Nemmeno a farlo apposta, dalla parte del passeggero dove sedeva lei, che poi avrebbe deciso di seguirlo ai confini del mondo conosciuto a cinquanta chilometri, pronta ad accettare anche uno svilente impiego come cameriera, si era avvicinato quel senza dimora fuori di testa che non era difficile trovarselo la mattina sdraiato sui suoi pochi averi nel proprio portone. C’era qualcuno che probabilmente non lo chiudeva bene proprio per dargli la possibilità di trovare un rifugio per la notte. Aveva la faccia più rugosa mai vista, era impressionante,  e trovarselo a pochi centimetri poteva dare fastidio, tanto che lei non sapeva più da che parte voltarsi. Quella che poteva essere una ex del suo ragazzo di là o il matto del quartiere di qua. Io comunque, quando si è avvicinata al tavolo della trattoria a cui sedevo con mio padre quel giorno in cui l’avevo accompagnato al paesello non mi ricordo per cosa, pur sorpreso di vederla lì trafficare con la penna, il bloc notes a quadretti di prima elementare delle ordinazioni e il menu scritto in corsivo dal cuoco su un foglio unto, ho fatto di finta di nulla soprattutto perché mio padre, che usava pranzare lì tutte le volte che trascorreva le giornate a curare l’orto, sembrava avere una discreta confidenza. Non ho fatto a meno di pensare a quando abbiamo salito insieme, non solo io e lei ma eravamo un nutrito gruppetto di ragazzini in vacanza nello stesso posto, quel limitare di gioventù sul quale i poeti un tempo trascuravano carte sudate e cura di sé. Eravamo a ridosso di una casa per farci fagocitare dall’ombra del sole di luglio del primo pomeriggio e c’era tutto un gioco di tredicenni di chi piace a chi, mentre sull’altro lato della piazzetta sotto il portico della cappelletta in disuso c’erano quelli più grandi, in mezzo una ragazza che suonava la chitarra e cantava piuttosto bene Sienteme di Alan Sorrenti. Di qui, dalla nostra parte, invece, mi sembrava soltanto male assortita la coppia, lei che si era messa con un coetaneo che però era ancora incredibilmente bambino mentre lei era già sviluppata, come si dice di fronte a un seno prorompente. Comunque lei, al tavolo, ha notato che ho indugiato ma era solo perché non mi andava di prendere il menu a prezzo fisso, primo e secondo a pranzo li mangio raramente.

succede solo quando agesci d’istinto

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Del Paolo e dell’Elisa non vi avevo mai raccontato, vero? No perché è una delle più belle storie d’amore di cui sono mai venuto a sapere. Allora prendete i popcorn e mettetevi comodi. Sentite qui. Il Paolo e l’Elisa si conoscono da sempre, probabilmente da prima dell’età delle medie o giù di lì, da quando cioè i rispettivi genitori li iscrivono in uno di quei gruppi che si riuniscono per fare gite in montagna e pregare insieme vestiti con i pantaloncini corti anche d’inverno. Avete capito, vero? Non scrivo il nome di questa organizzazione internazionale di ragazzini guidati da capi e guide per non incorrere nella lotteria dei motori di ricerca, giacché i nomi che ho usato sono proprio quelli veri e non vorrei mai che il Paolo o l’Elisa capitassero da queste parti. Qualora succedesse ciao Paolo e ciao Elisa, sappiate che vi stimo entrambi e che ho maturato un rispetto talmente elevato delle vostre divise, dei vostri fazzoletti e dei vostri distintivi che ho fatto di tutto affinché mia figlia mostrasse interesse per questo tipo di vita comunitaria. Ma, e lo saprete meglio di me, i figli crescono proprio come i genitori. Con un padre misantropo e dalla manualità pari a quella di un pesce rosso non potevo pretendere di più, e ci tengo a confermarvi che il mio non è sarcasmo nei confronti della vostra linea di comportamento, c’è invece tanta invidia per aver gettato via finesettimana chiuso in cantine puzzolenti a suonare e fumare erba scadente anziché, come voi, a lodare Dio e la natura su per i monti, nell’atmosfera promiscua delle tende piantate sui cocuzzoli degli appennini mentre noi, al massimo, eravamo condannati ad anelare a una fugace limonata ai giardinetti.

Non a caso campi e cambuse sono state galeotte per molti. Paolo ed Elisa nì, come direbbe il mio ex capo che si è dato alla macchia, nel senso che Paolo deve aver capito subito – un po’ come la storia di Carl Fredicksen e signora in Up della Pixar – che Elisa era fatta di tutti gli ingredienti giusti per creare l’amalgama perfetto per trascorrere tutta la vita insieme. Elisa forse no, c’è arrivata dopo, ma dal modo in cui è nata la loro unione posso assicurarvi che si si potrebbe ricavare almeno un romanzo, se non un cartone animato si successo.

Il papà di Elisa era un vero alpinista e scalatore, di quelli che si imbragano con funi e chiodi e martello e si avvicinano a Dio per la strada più breve ma più impervia, quella che noi umani non vediamo perché nascosta sulla superficie scoscesa delle pareti rocciose e si snoda lungo un messaggio in codice fatto di nicchie e appigli che i membri di questa razza di eletti vedono solo loro. Ma capita che, come tutte le discipline estreme, sia anche la via più veloce e, soprattutto, la più soggetta alla forza di gravità. Fraintendi un appiglio, non cogli il segnale di una nicchia e voli giù. Non so bene come sia andata, ma al papà di Elisa è capitato proprio di prendere la scorciatoia in un punto delle Alpi Marittime che non saprei identificare nemmeno se esistesse una specie di Google Maps per i luoghi delle tragedie, che ve lo immaginate uno come Bruno Vespa con uno strumento così? Altro che plastici. Ci uscirebbero chissà quante stagioni di Porta a porta.

Ora non so quanti anni avesse Elisa quando ha perso il papà alpinista in uno dei frequenti drammi della montagna, ma mi piace immaginare che fosse abbastanza giovane da non indurre la mamma a sottrarre la bambina alla passione del padre, perché la montagna è di una bellezza senza paragoni e se la vivi con soggezione, come per esempio succede a me che vengo dalla città e dalle vetrine illuminate, perdi più di un’occasione per capire come funzionano le cose. La metafisica, intendo, quello che l’uomo ha dentro e tutto il resto. Non a caso Elisa continua a frequentare la squadriglia anche perché lì ci sono tutti gli amici e soprattutto Paolo che probabilmente fino ad ora è uno come tanti altri.

Poi però succede che le coccinelle diventano lupetti e poi non so, il livello successivo, diciamo quello a cui si accede intorno ai sedici anni e rotti. Non sono dell’ambiente, non conosco il linguaggio tecnico, scusate la ripetuta cialtronaggine. Paolo, Elisa e una manciata di esploratori come loro si ritrovano a bivaccare proprio nei pressi in cui si è consumato l’incidente che ha negato ad Elisa la possibilità di diventare grande con il suo papà a fianco. Qui c’è stato il colpo di genio di Paolo, sia che lo intendiate come una mossa per conquistare l’oggetto dei desideri, sia che crediate come me a quella grande percentuale di sensibilità di cui certe persone sono intrise. Non quei barlafus come il sottoscritto, e poi capirete il perché.

Fatto sta che Paolo, mentre tutti sono in cerchio intorno al fuoco di sera a condividere stati d’animo e racconti di varia intimità, Paolo imbraccia la chitarra che è un must di quei gruppi organizzati (faccio una parentesi: vi ricordate quella specie di raduno da guinness dei primati in cui la gioventù ardente di fede ha cantato in coro le bionde trecce con l’accompagnamento di migliaia di chitarre acustiche allo stadio di non ricordo dove in occasione di una visita del pontefice polacco?) dicevo Paolo, che sapeva che il luogo in cui stavano campeggiando aveva un valore particolare per Elisa, Paolo imbraccia la chitarra e canta i versi di quella canzone che parla di un signore delle cime con la esse maiuscola, un canto che ha un testo così struggente che se non fossimo così stupidamente sarcastici e secolarizzati sapremmo che incarna una certa spiritualità, l’altimetria che porta in contatto con la grande anima che chi crede vede nelle cose e nei posti, una versione un po’ pagana dell’essere cristiani che però, oggettivamente, ha un suo perché e sono tutto sommato contento che ci sia chi si bea di questo tipo di esperienza alla faccia mia che al massimo sublimo con Paul Auster o con i Tv on the Radio.

Comunque Paolo canta questa canzone che ha un significato profondissimo per Elisa, e in quell’atmosfera fatta di barrè e di falsetto, Elisa cade prigioniera di un amore che potrebbe tranquillamente finire negli annali dello scoutismo (ops mi è scappato e mi sono tradito). Elisa capisce che Paolo ha un animo talmente profondo che può accogliere tutto il suo passato, tutto quel presente fatto di ombre da falò e di boschi e di vallate e di stelle, e tutto il futuro che davvero, credetemi, fila liscio se non fosse per un piccolo incidente di cui mi assumo tutta la responsabilità ma che è davvero una pagliuzza in un campo di grano grande come il mondo sopra il livello del mare.

Paolo ed Elisa si sono infatti poi sposati e vivono felici e contenti e riprodotti, almeno così credo perché non li vedo da almeno quindici anni. La morale di questa storia, che, ripeto, è una delle più belle storie d’amore che io conosca, è che quando cammini in montagna senti qualcosa che davvero non è possibile cogliere, che poi noi aridi riempitori di blog cerchiamo di descrivere a parole ma non abbiamo avuto quel battesimo che non è quello che poi ti porta alla comunione o agli altri sacramenti, ma è quello di quella cosa che si avvicina a un’idea di amicizia che tante altre situazioni che passi nella vita ti danno solo un assaggio ma è tutta una questione di pressione, di aria rarefatta, di vicinanza con i raggi solari e anche di colori, che così tanti non ne vedi proprio da nessun’altra parte.