non capisco perché se uno invecchia tutto il resto del mondo non debba invecchiare con lui

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Non capisco perché se uno invecchia tutto il resto del mondo non debba invecchiare con lui. Ve l’immaginate? Le case abbandonate con i tetti che crollano, i vetri spaccati e dentro qualche animale selvatico che si ripara dal freddo o, in città, gli sbandati che si sistemano con cartoni e sacchi della spazzatura un posto per dormire. Tutti gli impianti e le infrastrutture che si guastano e nessuno le aggiusta più perché chiudono le fabbriche dei pezzi di ricambio – la manodopera va in blocco in pensione – e gli stessi manutentori si ritirano nei loro garage a dedicarsi al fai da te. Le auto come a L’Avana che rimangono degli anni 50 anche se in teoria dovrebbero sfrecciarti intorno gli ultimi ritrovati della tecnologia. Se tutto invecchia con te diciamo anche basta al progresso. Basta ai vecchi che non sanno adeguarsi alle novità perché le novità sono quelle di quando eri ancora sulla cresta dell’onda tu, quindi basta figure di merda con quei boriosi adolescenti che ti prendono in giro perché non capisci il loro mondo smart. Con la tua vecchiaia tutto diventa decrepito, fa fatica a muoversi, non importa l’estetica perché tanto anche se importasse avresti la vista dei vecchi che ci vedono male, la cataratta, quindi meglio così. Intorno solo anziani, uomini e donne che anche se hanno cinquant’anni in meno di te accelerano il loro deterioramento mentale e fisico per raggiungerti, una cortesia d’altri tempi che ti lascia sbalordito. Ma non va così. Seduti da soli nel parco finché c’è un barlume di sole con indosso un abbigliamento inadeguato in eccesso per una stagione di mezzo osserviamo cose e persone sprecare la loro esuberanza a sbracciarsi in attività di cui già sappiamo a menadito l’irrisoria valenza ai fini del computo costi-benefici esistenziali. Come contorno la solita natura verdastra punteggiata di germogli, madri che redarguiscono esseri che a malapena stanno in piedi, palle di gomma che rotolano e altre che centrano tondi in ferro battuto con retine appese. C’è persino un fontanile secco undici mesi l’anno che ha pensato bene di gonfiarsi di acqua proprio mentre siamo lì che facciamo fatica ad alzarci con il bastone e rientrare in un appartamento vuoto. Passa un uomo sulla cinquantina di corsa, rallenta e senza chiedergli nulla ci dà una mano a riconquistare la posizione eretta.

a quattrocchi

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Non ho mai portato occhiali in vita mia fino a quando il gesto di allontanare le etichette dei prodotti o altri testi con caratteri minuscoli per capire cosa ci fosse scritto, visto che il contenuto non mi era più evidente, ha reso però evidente anche a me – oltre a chi mi consigliava una visita oculistica – che ormai avevo traguardato il punto di non ritorno della presbiopia senile.

La prima difficoltà da superare era quella della scomodità di un accessorio da indossare, e chi non porta bracciali o collane sa di cosa parlo. Uno strumento da tenere tutto il tempo appoggiato sul naso – e che naso – per me è fuori discussione. Non ho mai portato nemmeno occhiali da sole, per lo stesso motivo, tanto mi danno fastidio. Lo smacco è stato anche sul fronte estetico. Visti addosso agli altri non sono nemmeno male, poi c’è tutta una letteratura sulle montature in un modo o nell’altro, ciò non toglie che il preconcetto di protesi è difficile da superare e non è il caso che mi ricordiate che è un modo di pensare da ignorante e zotico.

E non dovete nemmeno pensare che non voglia accettare l’età che avanza e tutte le conseguenze che ciò comporta al nostro corpo. Non è certo il disfacimento fisico la cosa che mi dispiace di più della vecchiaia, piuttosto la sempre più scarsa resistenza allo stress. A voi non capita? Non ho più trent’anni nemmeno sul lavoro, quando tiravo otto ore di problem solving e anzi facevo straordinari, notti e weekend per rispettare scadenze, soddisfare clienti e garantire fatturato ai miei datori di lavoro. Ora mi perdo per un nonnulla, se qualcuno alza la voce mi si blocca il respiro e non riesco a rispondere, ho la pressione alta e mi vengono le scalmane a una certa ora del giorno, un campanello d’allarme che mi ricorda che è meglio spegnere il pc. Ma qui gli occhiali aiutano ben poco.

Comunque alla fine li ho messi – ormai sono diversi mesi, anzi, quasi un anno. Un bel modello di Ray Ban grigi con lenti da lettura, ma non vi nascondo la delusione. Mi aspettavo chissà quale tecnologia e invece altro non sono che lenti d’ingrandimento come quelle che usavo per gioco da bambino per la mia raccolta di francobolli. Non so dirvi che cosa mi aspettassi, probabilmente tutte queste dicerie sui Google Glass ci hanno fatto perdere il senso delle cose.

Ma dall’altro lato mi hanno dato un soddisfazione inaspettata, e cioè che quando distolgo l’attenzione dal libro o dallo schermo del computer e mi guardo intorno fanno sembrare tutto più grande. Lo smartphone con lo schermo da 5 pollici sembra un phablet e mi fa sentire più ricco. Le mani delle altre persone hanno la grandezza di quelle di Gianni Morandi. Succedono anche cose divertenti. Ieri mattina, mentre leggevo in treno, con la coda dell’occhio vedevo l’uomo di fronte a me con una pancia gigantesca che però, senza occhiali, era assolutamente nella norma quanto la mia. La sua collega, che sedeva al suo fianco, sembrava avere una sesta abbondante di reggiseno e la cosa strana è che, in questo caso, anche se non mi sono potuto soffermare troppo su quel particolare per non sembrare poco discreto, le dimensioni a occhio nudo erano comunque abbondanti.

Mi sono anche adattato a fare quella smorfia con cui si inclina il capo, si lasciano scivolare di poco gli occhiali lungo il setto nasale e si stringono gli occhi sopra la montatura quando si guarda lontano, proprio come fanno i nonni che leggono il giornale al circolo, avvertono che si è aperta la porta e controllano che stia entrando qualcuno di valido per poter iniziare a giocare a carte.

quando non sai dirmi dove sei

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C’è un letto matrimoniale di formato xxll e non si spiega bene il perché una coppia di persone tutto sommato di dimensioni normali abbia in dotazione un talamo così. Nella parte destra del letto c’è un anziano che dorme con la bocca semi-aperta, gli occhiali legati a una catenella sul petto e la radio sintonizzata su un canale di musica classica, un programma della tarda mattinata che trasmette una programmazione piuttosto ordinaria. Compositori noti eseguiti da concertisti di fama mondiale diretti da autorità indiscusse. Nessuno che sperimenti qualcosa in controtendenza. A fianco del letto, posate sul pavimento di piastrelle esagonali in cotto rosso, quattro pile di documenti cartacei suddivisi in cartelline beige, articoli di cancelleria da ufficio che si vendevano negli anni ottanta, ciascuna delle quali legata da elastici. Ogni cartellina reca un nominativo e un anno. La pila più vicina all’uomo sdraiato, che probabilmente è quella in fase di consultazione perché facilmente accessibile dal letto, è composta da plichi relativi a Silvio – così c’è scritto sopra – contenenti documentazione fiscale, fatture e dichiarazioni dei redditi di dieci anni prima.

Poco distante, proprio sotto la rete, si intravede la padella piena di urina, ancora da svuotare solo perché la moglie deve ancora rientrare dalla spesa. Un particolare che non dovrebbe influenzarvi sulla scarsa igiene di quello scenario, è lì solo perché nessuno se n’è ancora occupato ed è un caso. Appena si sveglierà e si sentirà pronto ad alzarsi, l’uomo adempirà a quel compito come prima cosa. Questo per mettervi in guardia: non date alla scena un eccessivo carattere di deprivazione, almeno non su questo dettaglio. Sul comodino, qualche copia di riviste di enigmistica e un volume di un’enciclopedia tascabile edita e acquistata molto prima di Wikipedia, di Internet, dell’ADSL e dei pc portatili.

L’uomo ha un sussulto quando termina un brano orchestrale e alla beatitudine degli archi e degli ottoni si sostituisce un dozzinale jingle pubblicitario. La prima reazione è quella di accorgersi della bocca aperta con una specie di grugnito. La seconda di chiamare la moglie. La terza di comprendere che la donna non è ancora rientrata, altrimenti sarebbe già venuta a svegliarlo per la pastiglia. Così immediatamente recupera con un po’ di sforzo il telefono abbandonato sulla parte vuota del letto a fianco della gatta, inforca gli occhiali e preme il tasto della memoria corrispondente al numero del telefono cellulare della moglie, un’abitudine che gli è già costata un’impennata dei costi in bolletta ma a cui non pensa minimamente di rinunciare o non si ricorda mai di farlo perché nei momenti del bisogno prevale il senso di sicurezza che quella procedura gli infonde. Al quarto squillo senza risposta, mentre il seme dell’ansia sta per far germogliare un ulteriore frutto succoso, l’uomo si accorge del rumore delle chiavi nella porta d’ingresso, l’apertura della quale gli fa percepire la suoneria Nokia della moglie che accompagna il suo rientro nell’appartamento. L’uomo si affretta a interrompere quella chiamata con l’intento di limitare il danno che ormai è già stato compiuto, e in cuor suo si prepara lo stato d’animo giusto per le inevitabili conseguenze.

quindi fate attenzione, quando le cose cambiano in peggio è facile accorgersene

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Un po’ vi invidio e ne ho tutte le ragioni, ascolto le vostre conversazioni e mi verrebbe voglia di rovinarvi la festa dimostrandovi, prove alla mano, che poi arriva un giorno in cui non è più così. Seguo i vostri batti e ribatti sui gruppi indie, per esempio, sui confronti tra band di una o dell’altra sponda e chi ha il suono più ricercato o chi non ha chance. Sento le vostre classifiche sulle serie tv che commentate in lungo e in largo ovunque, quelle tradotte e quelle con i sottotitoli, quelle che si scaricano e quelle che le danno sulle tv a pagamento, quelle che l’ultimo episodio lo avete visto sullo smartphone, camminando mentre rientravate a casa venerdì scorso. Per non parlare dei trend più trend della rete di cui invece parlate voi, le transumanze da una piattaforma a un’altra, la nuova rivelazione che dev’essere condivisa altrimenti non è esistita, persino i nomi che avete sui socialcosi e che usate anche quando siete nudi nel letto mentre scopate con qualcuno che avete sedotto a colpi di like. Stabili anche le discussioni su argomenti più tradizionali, il calcio la figa e la tv, che spesso coincidono, in netta diminuzione la percentuale di chi la butta sulla politica, in aumento quelli che quando la butti sulla politica dichiarano di trovarsi più a proprio agio con calcio figa e tv.

Si vede, vero, che ho il dente avvelenato mentre stilo l’elenco di tutte queste cose di cui potete discorrere tra di voi e che vi invidio e se ne ho tutte le ragioni e se mi venisse voglia di rovinarvi la festa lo capireste proprio dopo il punto che chiude questo passaggio. Perché poi, superato un certo giro di boa che magari nessuno di voi nemmeno ancora intravede, e non è certo colpa vostra ma per una semplice combinazione di fattori anagrafici, fortuna, vissuto personale e direi basta, oltrepassato un certo momento della propria vita ci si accorge che di botto gli argomenti di cui parlare con gli altri sono di stampo completamente opposto.

C’è l’ipertensione, per esempio, e se il Valsartan lo prendi da 80 o da 160. Le vasche da bagno per anziani disabili con lo sportello laterale che evitano così di scavalcarne il bordo, e se è meglio quello o uno sgabello in plastica per lavare da seduto chi non si regge in piedi. La prostata e i controlli al seno. L’amministratore giudiziario e la relazione del medico di famiglia sullo stato psicofisico oltre a quella del neurologo che determina il livello dell’Alzheimer e, di conseguenza, il resoconto dettagliato dei beni vs il resoconto di gestione entro i 12 mesi successivi e l’eventuale procura speciale.

Come inserirsi nei canali giusti delle badanti, ci si può fidare del passaparola tra connazionali dell’est o è meglio rivolgersi a qualcuno che già usufruisce del servizio. L’operazione agli occhi è rischiosa o no o comunque è sempre meglio di portare le lenti tutta la vita. Si può scegliere con scioltezza la prossima vacanza o è meglio darsi una regolata che non si sa mai, se poi un genitore ha bisogno e sei distante come ci si comporta. Quindi no, non dovete assolutamente cambiare registro e chiacchierate pure come se le cose restassero così e nulla si guastasse e non ci fosse un futuro più o meno prossimo in cui bisogna fare i conti con l’iper-quotidianità di certi problemi. Scelte così devastanti che si trascinano nella routine che rimane la stessa di prima – l’ufficio, la birra, la partita, il concerto, l’aperitivo, il vernissage, la sala prove – da trascorrere con uno zaino sempre sulle spalle, pieno zeppo di qualcosa che non sapete descrivere ma del quale, molto probabilmente, non vi libererete mai più.

tra le tante contraddizioni di un’età come la nostra: ecco un post generazionale

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E vi confesso che ultimamente mi piace sempre di più giocare al signore di mezza età, a fare quello che si muove con dignità vestito come si deve, o comunque meglio dell’abbigliamento medio di prima, a comportarmi da valido e buon punto di riferimento educativo per i propri figli. E ancora mi piace sempre di più fare la paternale ai più giovani che arrancano spaesati nel campo in cui dovrebbero giocare titolari, a parlare del tempo che ci si metteva a comporre un numero con tanti zeri e nove girando le rotelle dei telefoni da muro di una volta e del David Bowie di Low e del suo lato B, quasi tutto strumentale, ai Social Media Manager e a chi è diventato maggiorenne quando al top della musica underground c’erano gli Smashing Pumpkins.

Vi confesso che mi piace sempre di più giocare a osservarmi strozzato nella mia sciarpa annodata sopra il colletto rigido della camicia celeste conducente di autobus come solo i milanesi sanno fare. Solo loro anzi noi ne abbiamo il diritto considerate la avversità meteo almeno sulla carta e sui libri di geografia. Considerato anche quanto stiamo in giro per lavoro o quanto altri stanno in piedi sulle gradinate di San Siro – io no, non amo il calcio e se lo amassi sarei comunque genoano – ad aspettare al freddo che una delle due squadre del cuore entri in campo dagli spogliatoi per dare inizio allo spettacolo. Poi a controllare le mie polacchine color cuoio che non passano inosservate, e a pensare che quando le ho prese ero perplesso che, prima o poi, sarebbe giunto il momento di separarsi dalle snickers da cento euro.

Così mi piace sempre di più giocare a camminare brizzolato con le mani in tasca e mi do persino le arie di quello che, anche se è più o meno a metà di quanto gli sia stato concesso per abitare il pianeta, ha avuto la fortuna di essere nato addirittura negli anni sessanta, di aver beneficiato della prodigalità dello stato sociale, dell’approssimazione in eccesso della sanità pubblica, della benevolenza degli enti locali e dei loro regali di Natale ai figli dei dipendenti della pubblica amministrazione, dei programmi del Dipartimento Scuola Educazione e delle sigle di musica progressive delle trasmissioni ad alto livello culturale e pedagogico della tv nazionale. Sono solo uno dei tanti che ha dilapidato le risorse destinate alla comunità e ai posteri, ma che ora ha ancora troppo (almeno lo spero) da vivere per non rimanere indenne agli effetti della bancarotta.

Per questo posso scegliere da che parte stare, tra i salvati o i sommersi, tra gli apocalittici o gli integrati, tra i senior o i precari, tra quelli della mia età o i trentenni forever. Ma ora non più. Ho fatto la mia scelta. Da qualche tempo mi piace giocare al signore di mezza età e, vi confesso, sono anche piuttosto in gamba.

che ti venga un colpo

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A volte non vediamo una via d’uscita e l’alternativa tra una vista sulla copertina di un pamphlet in cui campeggia il nome dell’autore che è Giordano Bruno Guerri e il dialogo tra due persone che parlano di rapporto qualità prezzo di ristoranti con il valore aggiunto delle foto mostrate grazie allo smartcoso dei piatti presi, alla fine si riduce all’ascolto forzato di musica con le cuffiette oltre la soglia di volume che rientra nelle tue responsabilità dopoché il riproduttore ti ha avvertito che è pericoloso. Il tutto sulla base del frastuono di un finestrino aperto – dimenticavo di ricordare che in simili frangenti ci si trova facilmente a bordo di un mezzo pubblico – che attraversa una galleria. Poi d’improvviso tutto tace perché è finita l’ora di punta, che detta così può sembrare un’arguta metafora della vita ovvero del momento in cui scendono tutti e ti ritrovi solo, così pensi che isolarsi non è più necessario. Anzi vorresti fare conversazione ma è troppo tardi e la beffa consiste nell’assordante quanto insanabile ronzio congenito nelle tue orecchie che è solo il più evidente tra tutti gli acciacchi che fanno presto a manifestare la loro presenza. L’indolenzimento delle dita quando sollevi il tomo dei “Pilastri della terra” che i più interpretano come oscuro presagio di artrosi (l’indolenzimento, non il crostone letterario). Il fastidio intercostale che ti impedisce la riconquista della posizione eretta in tempi accettabili rispetto alla media, che occulti fingendo improbabili necessità di procedere chino per evitare gli scontri tra la tua testa in piena canizie e le cappelliere sovrastanti. La camminata con i piedi a vu (quello che i più chiamano “incedere a papera”) dovuta al senso di intorpidimento muscolare da attività fisica oramai inadatta all’età. Da ciò scaturisce una preview di numerosi e lugubri accadimenti uno dei quali – che generalmente non si può scegliere a meno di una forte propensione individuale all’autodistruzione – dicevo uno dei quali è quello che ci toglierà di scena. Per questo stiamo all’erta, ché ogni vago incognito segnale lanciato dal nostro organismo potrebbe essere davvero l’ultimo e se siamo fortunati si tratterà di un colpo secco, oppure solo l’inizio di un’escalation di dolore che oddio che mi sta succedendo portatemi al pronto soccorso. Ecco, siamo stati una stagione intera a cantare che “we’re up all night to get lucky” e non è che ci ha portato sfiga se poi ci sentiamo male proprio stamattina?

è tutta una questione di collegamenti

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Mi ricordo di essere un maschio anche perché capita che mi ritorni la passione che hanno tutti gli ometti, l’influsso che suscitano i mezzi di trasporto e il loro funzionamento, la rappresentazione su carta dei percorsi di metro e tram e, più in generale, le mappe geografiche. La maggior parte dei bimbi ci sballano, inutile negarlo, come quello grande e grosso ma un po’ spostato – per questo faceva paura a tutti alle medie – che un giorno lo hanno trovato al volante di un autobus fermo al capolinea, malgrado non avesse nemmeno la patente del Ciao. Riguardo a me, chiedetelo ai miei colleghi di quante volte ho ideato campagne di comunicazione utilizzando la metafora della piantina delle linee sotterranee di Milano, la rossa, la verde e la gialla con i pallozzi più grandi in corrispondenza delle stazioni che nella mappa concettuale sono le milestone di un percorso ramificato. Lo so, è banale, ma proprio perché siamo cresciuti sognando trenini elettrici e piste in cui le auto potessero viaggiare da sole, senza il nostro intervento, in un mondo di automazione da motore immobile che poi, i più furbi, hanno idealizzato in una laurea utile in discipline matematiche. I meno opportunisti hanno proiettato quei spostamenti fisici sulle rotte della rappresentazione della realtà che, in quanto tale, non è credibile e non dà diritto a uno stipendio a fine mese.

Anche oggi mi sono trovato a fantasticare sulle linee colorate del sottosuolo, soprattutto in prossimità di quelle nuove, quelle in costruzione che hanno colori inauditi per chi è uso alla mobilità sotterranea. Il lillà tratteggiato che porta verso l’estremo nord e che estende esponenzialmente le possibilità e le combinazioni di mezzi a disposizione per raggiungere i posti desiderati e quelli impossibili. Come quella volta in cui avevo sognato un lungo viaggio in pullman per andare a trovare mia mamma in ufficio. Avevo preso quella che dalle mie parti si chiama ancora la “corriera” ed ero arrivato alla scuola nella cui segreteria era impiegata. L’avevo trovata giovanissima con me nella pancia, e hai voglia a spiegarle in sogno e con un abbonamento 24 corse in mano scaduto che ero suo figlio, quello che doveva ancora nascere. Non so se mi avesse creduto, ricordo solo che da quella notte poi avevo deciso di espropriare la porzione di vita dei miei genitori prima della mia nascita come qualcosa anche di mio. Avevo preso di nascosto una loro foto in bianco e nero, quella in cui sono stretti e appoggiati al terrazzo di casa di mia mamma, quella dove viveva prima di sposarsi. Mio padre tiene una sigaretta in mano ed entrambi sorridono a mio nonno che sta per scattare la foto.

Ma l’avevo sottratta a fin di bene. Avevo scoperto una ceramista o artista dell’argilla o di altri materiali che ora non ricordo, che realizzava chiamiamole sculture partendo da fotografie. Avevo pensato di regalare una rappresentazione in 3D di quella foto a mamma e papà per Natale – vi parlo di più di dieci anni fa, almeno quindici -, mi sembrava un’idea carina e originale. Ma il preventivo era di oltre duecentomila lire e, sapete com’è, ci avevo ripensato. Non che mi sembrasse un pensiero poco nobile. Così anche se ai tempi mi girava qualche extra in tasca alla fine decisi per doni più ordinari. Libri, cd, quel genere di cose. E pensate quindi fino a dove è in grado di condurre con il pensiero una linea della metro in costruzione, al momento solo rappresentata con un colore pastello su un prospetto. E arrivo a destinazione solo accorgendomi del motivo che mi ha portato a voltare le spalle alla realtà e a seguire quella inconsistente teoria suburbana. Sono solo un maschio misantropo che cerca rifugio nelle piante geografiche per sfuggire alla gente in attesa. Come tra un paio di decenni mi potrete vedere fermo, in piedi con le mani dietro la schiena, a contemplare scavi di edilizia urbana e lavori stradali. Cose che peraltro, non me ne vergogno, ho già l’istinto di fare adesso.

glielo incarto

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Non c’è nulla di male se sei subentrata ai tuoi genitori nella gestione del bar che da giovane tanto denigravi, anzi è encomiabile tutto questo. E fai tenerezza ora che su di te i solchi degli anni sono così profondi, ti chini con meno elasticità di un tempo a raccogliere un cestino di Natale che un cliente turista, uno di quelli che sbarcano da quelle ingombranti navi da crociera che occupano il 95% del porto – che viste dall’alto sembrano una spedizione di amici di Gulliver nella terra dei Lillipuziani – e che con cartina alla mano visitano il metro quadro di cittadina in cui non si perderebbe nemmeno un bambino (cit.), ti ha appena richiesto. La beltà è sfiorita come le ambizioni, la laurea e il master all’estero si sono dimostrati un investimento irrealizzato se non nell’esercizio in cui la tua famiglia ha concentrato tutte le risorse. E tu, figlia unica, non ne volevi sapere, anzi, non ti passava nemmeno per la mente l’idea di dare una mano a mamma e papà, così zelanti e laboriosi nel continuare una tradizione di specialità locali con cui stipavano gli scaffali del bar e il magazzino nel retro. E a chi osava chiederti, conoscendoti poco, “ah, lavori al Bar Tizio?”, tu rispondevi colma di stizza “no, è mio”, a sottilineare il limite delle professioni umili da cui la tua brillante carriera di studi ti avrebbe allontanato di centinaia di chilometri. Anzi, così tanto che, probabilmente a causa della sfericità del globo terrestre, sei tornata proprio lì, tra un bizzarro presidio slow food (che altrove è bersaglio di doppi sensi) e i dolciumi sfusi con cui doviziosamente riempi confezioni regalo. Ti osservo dalla vetrina senza farmene accorgere, poi mi chiedo chissà se le persone che mi incontrano riconoscono allo stesso modo su di me il trascorrere degli anni. Che presunzione. Mi intravedo nella vetrina a specchio successiva, ed è meglio interrompere così questo post.

a chi voglio darla a bere

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Non saprei dirvi quanta birra ho tracannato fino ad oggi, dalla prima lattina di Peroni acquistata a tredici anni con gli amici e bevuta di nascosto in vacanza che mi fece volare, con la testa che girava, giù dalle strade sterrate con la bici da cross, fino alla Ceres Top Pilsner che ha accompagnato una sedicente pizza preconfezionata Buitoni, offerta in omaggio al supermercato e, quindi, da buon ligure, testata gratis sulla mia pelle ieri sera a cena. In circa trent’anni una quantità pari a un lago intero, probabilmente. Mangiando o come aperitivo, con gli amici o in casa davanti a un film, con il caldo o sulla neve, pura e semplice o con additivi finalizzati a conquistare più velocemente l’oblio dei sensi. Adoro la birra, è l’unica bevanda che mi disseta, l’unico alcolico che reggo, l’unico liquido sufficientemente amaragnolo da non nausearmi con il retrogusto dolciastro. La mia devozione però ora si trova di fronte a un grande impasse. Il piacere giù per la gola e l’orgasmo fluido delle bollicine lungo l’esofago sono sempre gli stessi, incomparabili. Ma l’effetto di ebbrezza inizia a darmi fastidio, e spero non sia una cosa troppo grave da costringermi a rinunciare a uno dei miei passatempi preferiti. L’impressione di avere il corpo in balia di una sensazione di distacco che prima era così seducente, la testa lievemente asincrona rispetto al resto, ora mi sembra una violazione del corso naturale del comportamento, mi sento qualcosa scorrere al contrario, bloccato su una giostra dalla quale voglio scendere. Forse è un caso, la pizza Buitoni non c’entra perché mi era già capitato prima, spero passi. Ma la ripercussione esistenziale, con riflessione annessa, è stata inevitabile. Ho pensato che magari invecchiare è proprio così, un mettere in crisi tutte le certezze che si sono acquisite lungo una vita, fino all’ultima grande abitudine, quella di essere. Ci berrò un latte e menta su, e poi vi dico.