i dieci posti migliori in casa in cui nascondere la candeggina

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Io che di futuro me ne intendo oramai ho sviluppato una competenza tale che posso toccarlo con le mani. Mi basta mettermi in punta di piedi – e dire che sono alto – un po’ come faccio quando devo prendere la candeggina che è nel ripiano in alto in alto dell’antibagno, oltre il raggio di azione di minorenni e gatti. Allo stesso modo posso sentire la consistenza dell’impegno che ricorre settimanalmente e che cade domani, o dei tre incontri di lavoro di fila che mi occuperanno fino a mercoledì sera della prossima settimana, ma anche del momento in cui mi è stato consigliato di togliere le pile delle valvole nuove installate sui termosifoni, in modo che non guastino i dispositivi con l’ossido, la prossima primavera quando verrà spenta la caldaia dell’impianto centralizzato. Appuntamenti che basta sfiorarli per capire se sono ruvidi o arrendevoli, se è bene prendere le misure prima o basta dimostrarsi accondiscendenti. E lo so cosa pensate ma questa specie di sesto senso da quattro soldi non mi permette di anticipare risultati o previsioni, altrimenti vi scriverei da un attico a New York usando un potentissimo mac da millemila euro, anziché da qui dove non hanno nemmeno acceso ancora il riscaldamento e ho tre strati di lana addosso e il pc dell’ufficio. Anzi, si tratta di un dono che preferirei non avere perché, mannaggia, su quel ripiano della candeggina ci arrivo sempre con meno sforzo e vi assicuro che non sono né cresciuto e nemmeno mi si sono allungate le braccia a furia di protendermi in avanti. Potrei sostenere che il tutto si sta contraendo, altro che universo in espansione, ma non ho i titoli adatti a dimostrarlo. Sta di fatto che stiamo sempre di più allo stretto, le cose del domani e del dopodomani si fanno maledettamente vicine, basta un salto per piombare nell’età maggiorenne di un figlio a cui fino a qualche giorno prima insegnavi ad andare in bici o fino a ieri accompagnavi insieme agli amichetti al cinema, o ancora sembra di sfondare le maglie di uno di quei calendari fatti a reticolato – avete presente? – che ormai non ci sostiene più e ritrovarsi a terra, chissà dove ma soprattutto chissà quando, con questi pezzi di giorni rotti sparsi intorno, a non capirci più niente del perché siamo parte di un sistema di cose che ha così maledettamente fretta di finire.

benvenuti al circolo dei viaggiatori del tempo

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Non è il caso di scomodare precedenti letterari o cinematografici né fare appello a trame di fantascienza perché, da un certo punto di vista, i veri viaggiatori del tempo siamo noi e in carne ed ossa, altro che attori di Hollywood. So bene che a chiunque piacerebbe muoversi come il buon Marty McFly e con la massima disinvoltura cenare con una famiglia etrusca, assistere quindi a un concerto dei Clash con Joe Strummer vivo e vegeto per poi finire la serata quattromila anni nel futuro a fare non si sa bene cosa e qui, lo ammetto, siamo in piena sci-fi che come sapete non è proprio il mio paio di maniche. Pensate invece alle epoche storiche in cui grazie alla vita media del genere cui apparteniamo siamo stati, siamo e saremo in grado di attraversare. Nel nostro caso ammetterete infatti che, da quando spingevamo biglie con le effigie dei ciclisti sulla spiaggia ad oggi, le cose sono cambiate di brutto. E allora siamo o non siamo anche noi, nel nostro piccolo, dei veri viaggiatori del tempo? A me questa è una cosa che quando ne parlo o anche solo a pensarla mi spinge a respirare a pieni polmoni, come quando cerchi di immagazzinare più aria possibile perché quello che ti appresti a fare ti induce a caricarti al massimo, non so se avete presente. Siamo quelli che leggevano in camera dei fratelli maggiori i manifestini con il palinsesto di una radio libera dai contenuti impegnatissimi politicamente ma siamo anche quelli che ci troviamo tra centinaia di sconosciuti a chiamarci per nick e a cercare di collegare l’avatar a un rapporto di amicizia al 100% virtuale per riprodurre dal vivo tutta una serie di relazioni nate e sviluppatesi sul web. Siamo quelli che si spaventavano solo a sentire la colonna sonora di “Dov’è Anna?” con cadenza mono-settimanale ma anche quelli che si incollano davanti alla tv per otto puntate di Fargo viste di fila. Pensavamo che la democrazia fosse in un modo e invece no, ora ci sembrano credibili ben altri parametri. Siamo quelli che venivano accompagnati dai genitori degli amici sulla 800 coupé e quelli che guidano gigantoni neri da sessantamila euro (io no, eh). E siamo anche quelli che avevano una stufa a carbone in cucina per scaldare tutta la casa e che ora sfiorano con un touch screen gli applicativi di controllo in un tourbillon di domotica made in China.

Il punto è che io, quando ci penso, mi meraviglio di essere la stessa persona di allora e di oggi, che ci sia un vettore che in qualche modo sta trasportando la nostra vita lungo una serie di scenari storici in continua evoluzione che ci fanno guardare indietro allibiti tanto che non ci sembra vero di essere gli stessi di quelli là. Ci vediamo nelle foto con quei vestiti fuori moda davanti a insegne di negozi chiusi da tempo, con colori che probabilmente non esistono nemmeno più in natura e non c’è filtro di Instagram in grado di invecchiare così tanto dei ricordi. Ci sono solo poche cose che non mutano. La curiosità, quel modo di storcere il sorriso e la fronte quando si ha il sole negli occhi, la postura per sembrare più statuari di quanto un fisico asimmetrico ce lo permetta, il desiderio di anticipare il domani anche se, è inutile ricordarlo, c’è un rovescio della medaglia che è meglio far finta che riguardi qualcun altro.

lo sportello per iscriversi al corso avanzato è questo, vero?

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D’altronde lo sapevamo che non sarebbe stata una passeggiata, o almeno avremmo dovuto prevederlo quando abbiamo scelto di nascere in provincia che sarebbe stato complicato riuscire a soddisfare i nostri appetiti professionali e culturali in un ambiente arido se non sterile di sollecitazioni e di opportunità, e che ci sarebbero state distanze da percorrere per ottenere margini più ampi di manovra, complesse poi da compiere a ritroso per le visite alla componente affettiva abbandonata là, se non impossibili da essere contemplati in un’ipotesi di ritorno di qualunque tipo. Ma ancora prima eravamo consapevoli che decidendo per una specializzazione di qualunque forma a scapito di un livello inferiore ma più alla portata si sarebbe presentata la necessità di doverci allontanare, isolati nelle nostre velleità di salire a un piano più alto in grado di soddisfare una discutibile sete di prospettiva più ampia, allo stesso modo in cui prima di scattare una foto a un monumento qualsiasi si cerca di posizionarsi in modo da evitare il più possibile le brutture davanti che ne intralciano l’integrità. Così anche il campo stesso in cui insistere quando abbiamo dovuto prendere la madre di tutte le decisioni, quella tra le più ricche di conseguenze, e tutto per uno stimolo assolutamente contestuale a una fase di affermazione individuale cieca e tutt’altro che lungimirante, anziché valutare non dico tutti ma almeno due o tre futuri possibili e opportunità alternative. L’opzione stessa di fermarsi un passo prima, c’era comunque ancora qualche buona sistemazione disponibile e ancora qualche conoscenza in grado di darci una mano per intraprendere carriere locali o occupare semplici posizioni senza pretese ma di tutto rispetto, l’abbiamo scartata e lasciata libera per altri. Per non parlare poi delle attitudini e delle passioni. Lo sapevamo che stradine e viuzze parallele secondarie sarebbero state alla lunga faticose da essere percorse sebbene più ricche di suggestioni e spunti di approfondimento, rispetto ai percorsi consigliati delle grandi arterie esistenziali e consigliate da tutte le pubblicazioni ufficiali. Muoversi sempre seguendo guide ancora più di nicchia di quelle Routard per suggerimenti su come accontentarsi il meno possibile circa l’offerta culturale, artistica e umana a disposizione, sapevamo che poteva lasciarci senza fiato alla meta, pur fieri degli scorci da intenditori raggiunti grazie alla nostra curiosità fuori dal comune. Sapevamo infine che il destino più comune per la nostra specie evoluta, quello di accoppiarci e moltiplicarci e riprodurci senza farci troppe domande sul senso della cosa in sé, non sarebbe stato privo di difficoltà per gente come noi che è sempre lì a chiedersi cos’è più o meno opportuno, a cercare ragioni e a confrontare fonti prima di darsi delle risposte, e che il fatto di indicare modi e metodi a persone nel pieno del loro sviluppo, secondo la nostra visione delle cose già di per sé parziale, viziata da dubbi, incongruenze e contraddizioni a trecentosessanta gradi se non di più, se ne esistessero, non sarebbe stato privo di un aumento della gravità di quel peso che ci portiamo appresso, e che probabilmente siamo stati noi a decidere di caricarci sulle spalle in un momento non ben definito e di difficile collocazione in tutta questa sistemazione cronologica degli avvenimenti. Un qualcosa che sono pronto a scommettere che dev’essere accaduto prima, prima di non so quale evento fondamentale e gravido di conseguenze che abbiamo affrontato ma che non sappiamo dirvi né dove né come e né se eravamo tutti insieme lì a raccontarcela su di come sarebbe stato bello e audace fare tutto così, perché se ci ricordassimo probabilmente oggi consiglieremmo senza ombra di dubbio che quel giorno lì, prima di venire al mondo, in cui si deve presentare il project planning delle nostre vite, ecco quel giorno lì ovunque uno si trovi è davvero più opportuno spegnere la sveglia, girarsi sull’altro lato, tirare su la coperta e riaddormentarsi senza indugio alcuno.

Stefania, Angelo, è pronta la mia nuova cameretta?

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Preparatevi perché se non passeranno le adozioni per le coppie non omologate secondo gli standard vigenti e prive della certificazione ISO ETERO-1 (me la sto inventando, cosa credete) ci sarà almeno il via libera per quelle arbitrarie e non legate necessariamente alla normativa dell’istituto giuridico competente. In poche parole anche gli adulti potranno farsi prendere in carico dalle famiglie che vorranno aderire all’iniziativa e utilizzare con orgoglio il cognome dei nuovi genitori. Se è provato che questa procedura non causerà il tanto temuto fuggi fuggi di quelli che a trenta o quarant’anni suonati si allontaneranno dalle proprie radici perché non si sono mai riconosciuti nella visione alla base dell’educazione a cui sono stati soggetti, sta di fatto che persone di mezza età veramente in difficoltà potranno trovare rifugio, conforto e anche sicurezza presso coppie oramai in pensione ma ancora integre nella loro componente autoritativa. Certi eterni giovanotti mollaccioni orfani di reduci da bagordi sessantotteschi, lotte di piazza, ammucchiate da libero amore e porte della percezione spalancate come cancelli scolastici al momento della campanella, potranno farsi un secondo percorso filiale con neo-papà ultra-attempati ma in odore di cavalierato del lavoro, croci militari e trofei di caccia grossa impagliati in bella mostra nelle sale biliardo, nostalgici della disciplina e, perché no, con qualche malcelata simpatia per orbace e pugni di ferro dai guanti di velluto lisi e consumati. Saranno ammessi anche casi di figli adottati da genitori più giovani degli stessi, d’altronde che problema c’è? Ho più di una coppia di amici a cui mi affiderei volentieri per una nuova esperienza di crescita e apprendimento dello spirito di responsabilità. E se non siete convinti dell’idea, che comunque sarà approvata a larga maggioranza e trasversalmente a tutti i partiti politici, pensate alla fiacchezza di una società in cui nessuno è stato più educato per cavarsela da solo. Pensate all’uomo forte. Pensate a una moltitudine di adulti a cui nessuno ha mai insegnato a non strascicare i piedi. Che vizio. A fianco della consultazione referendaria sull’adozione arbitraria propongo un secondo quesito sotto forma di sondaggio.  Strascicano i piedi di più le donne o gli uomini? Quando percepisco uno strascicamento di suole chiudo gli occhi e scommetto con me stesso per avere poi sempre ragione, tanto nessuno non lo verrà mai sapere. E se non ho dubbi è grazie a parenti di primissimo grado di sesso maschile con cui ho condiviso un appartamento per un paio di decenni che si sentivano arrivare da un capo all’altro della casa. Così, come me, c’è pieno di gente pronta a farsi adottare da amici o conoscenti facoltosi, educati, sportivi, dai gusti raffinati e con una mentalità lungimirante, orientati all’uso di calze antiscivolo in ambiente domestico e pronti a trasferire codici comportamentali altrettanto sani.

sfida accettata

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Mia madre mi dice che il ragazzo nella foto mi somiglia, o per lo meno ricorda me trentacinque fa con il quadruplo dei capelli e una pettinatura fine anni settanta, e che tutte le volte in cui faceva con mia zia il giro settimanale al cimitero la impressionava pensare che ci potessi essere io là sotto. Ma a quei tempi ero vivo quanto ora, aggiungerei fortunatamente e qualche gesto di scongiuro che voi non potete vedere perché comunque mi immaginate mentre scrivo con due mani sulla tastiera.

E probabilmente si tratta dello stesso periodo in cui avevo indovinato il tragitto che seguiva Maria per raggiungere il capolinea dell’autobus all’uscita da scuola. La stessa Maria che poi ho scoperto che in realtà non era proprio quello il suo nome ma una specie di versione in ebraico che un ignorante come me potrebbe anche scambiare quasi per un anagramma. Comunque io la precedevo intelligentemente per qualche scorciatoia per scoprire se lei, scorgendomi avanti, era interessata a raggiungermi e a percorrere l’ultima parte della strada insieme. Una volta poi è successo, ho sentito qualcuno correre e poi mi è arrivata una pacca sulla schiena con la forza di chi non riesce a tenerla sotto controllo, soprattutto in quella fase della vita in cui le attenzioni alle persone che ci interessano le rivolgiamo anche con modi piuttosto grossolani, perché non abbiamo ancora ben chiaro che cosa significhino l’amore o il sesso. E se non ricordo male quella volta è stata l’unica, lei aveva una giacca gialla e io avevo allungato la strada per tornare a casa con una distanza irragionevole.

Maria non la incontro da quell’anno lì e sono certo che quella sia stata anche l’unica occasione in cui ci siamo trovati così vicini, quindi se anche lei ora vedesse quella foto sulla lapide che impressiona ancora oggi mia mamma forse avrebbe qualche reminiscenza, ma lo dico solo per qualche grado in più di sdolcinatezza perché so benissimo che Maria già aveva poco slancio nei miei confronti allora, figuriamoci nella ricorrenza del giorno dei morti del 2014, il primo anno in cui sono a trovare mio papà dall’altra parte della barricata, avete capito cosa intendo.

Mi soffermo solo ancora su due aspetti degni di nota di questa visita al cimitero. Poco più avanti dalla tomba di mio papà c’è un suo zio morto negli anni 30 che è identico a lui, e anche di questa foto mia mamma commenta la familiarità. D’altronde in quel borgo dell’appennino c’è pieno di gente che ha il mio stesso cognome, veniamo tutti da lì. Un fattore che diverte tantissimo mia figlia,  il cognome è anche il suo e nel posto in cui viviamo costituisce invece una rarità. Si mette a passare in rassegna tutto lo schieramento di defunti provenienti dallo stesso ceppo e la cosa cambia tutta la prospettiva con cui approccio quella visita.

Anche la foto che mia madre ha scelto come ricordo ultimo di mio papà appartiene a un passato che fatico a riconoscere, figuratevi mia figlia che l’ha visto solo negli ultimi undici anni. Probabilmente anche per lui, come per lo zio morto negli anni trenta o per il mio sosia fine anni 70 è stata identificata una fisionomia ideale da attribuire all’anima con lo scopo di riconoscimento per quella che viene definita la vita eterna. Una procedura che poi non è così strana perché funziona anche per i vivi, e se avete una certa età come me non potrete negarlo. Se mi chiedete di mostrarvi l’aspetto di tizio o caio, persone che conosco dai tempi di Maria e della sua giacca gialla, o che magari ho perso per strada perché abitiamo a 300 km di distanza quindi è impossibile frequentarsi con assiduità, se mi chiedete di descriverveli vi disegnerei un ritratto di quello che è il loro momento di massima forma, mica trenta chili in più o senza denti o fiaccati da qualche grave malanno o zoppi a causa di un incidente di lavoro. E lo farei perché questa pratica delle figurine con il ritratto che poi valgono per sempre è una banale e ovvia tecnica di conservazione del sé, egoismo allo stato puro, una feroce foto di gruppo dove ci si tiene tutti stretti quel po’ di vita con cui si vorrebbe restare per sempre.

bene e immobile

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Il problema, uno dei tanti, è che ci sentiamo sempre al centro di qualcosa ed è per questo che mentre ci puliamo la spallina della giacca con il fazzoletto perché ci siamo soffermati qualche istante di troppo nei pressi, anzi, sotto il piccione sbagliato, a nostro modo non ci sorprendiamo. In qualche modo e per qualche obiettivo ci siamo. Esistiamo. Viviamo come artisti di strada che interpretano quello che vediamo fare agli attori della fiction di serie B. Siamo statue viventi ognuno con il suo costume di risulta, la mummia, Dante, l’uomo d’affari fermato in uno screenshot esistenziale in corsa verso il successo, il fantasma, Napoleone, il fachiro che usa tanto di questi tempi con il trucco che sembra che stia a mezz’aria. Siamo comparse costrette a mettersi sempre in tiro nella speranza che, oggi, qualcuno decida che il ruolo tocchi a noi. Ecco perché il travestimento della morte con la falce non fa ridere e, anzi, ve lo potete risparmiare.

finale senza sorpresa

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La storia individuale non è materia d’insegnamento, nemmeno comparata a quelle altrui come certe letterature all’università. E sarebbe un peccato, se i destinatari di tali lezioni non fossero già impegnati a frequentare e prendere appunti sulle proprie vite e mancasse quindi lo spazio minimo indispensabile per applicarsi almeno un po’. A volte ci si sorprende per quanto abbiamo già vissuto e non solo a un colpo d’occhio voltandoci un secondo indietro, ma anche quando ci soffermiamo su certi piccoli dettagli che ritroviamo per caso come biglietti da visita malconci nelle pieghe più remote della nostra esistenza che inizia a essere un po’ stropicciata perché talmente grande che quasi nel suo contenitore non ci sta più e bisogna trovare qualche espediente per chiudere la cerniera, come nelle valigie delle vacanze. Dev’essere per questa enciclopedia tutt’altro che tascabile che ci portiamo appresso che i figli ci vedono così poco interessanti, figuriamo poi oggi, ai tempi del sapere condiviso sulla rete. Una metafora che calza a pennello, questa. Superare le complessità cercando nell’Internet consente di accedere più velocemente a risultati rispetto a chiedere a quei so-tutto-io dei propri genitori. E malgrado i tentativi di mostrarci autorevoli portatori sani di esperienza difficilmente riusciamo a vincere la consapevole diffidenza di cui ci si bea stando dall’altra parte della barricata adolescenziale. Così mi viene da pensare allo spreco di disporre di questo bagaglio di piccole cose quotidiane di cui non frega un cazzo ai tuoi ragazzi perché tanto hanno o stanno per avere la versione aggiornata. Giustamente, per carità. Per la prima volta nell’evoluzione del genere umano ci sentiamo chissà perché protagonisti insostituibili di un capitolo importante della storia universale. Sarà che tutti insieme abbiamo bruciato le tappe portando lo sviluppo avanti di un secolo in soli vent’anni – almeno così dicono – o forse, in questa fase occidentale di pace relativa in libertà assoluta, ci è stato concesso troppo tempo per auto-riferirci e ora abbiamo scoperto che, di noi, non se ne può fare a meno. Ed è più questo approccio a non mollare il nostro posto nel mondo a togliere spazio ai più piccoli e ai più giovani. Quello di non invecchiare come dovremmo, in realtà, costituirà un ostacolo per la nostra specie, o almeno ci complicherà la cose tra qualche decennio. Sono davvero curioso di scoprire come ci racconteremo tutto questo insuperabile equivoco, a giochi fatti.

questo fino a quando qualcuno ti appare in sogno e ti detta una combinazione di numeri vincenti

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L’equivoco di fondo è invece quello per cui uno muore, un tuo parente stretto e magari con una certa autorità e controllo sulla tua vita come un genitore, e di colpo viene messo al corrente di tutto quello che hai fatto e che farai perché va a mischiarsi grazie a non si sa bene cosa con il tutto. Dovresti accorgertene nel momento in cui succede, Dimensioni che noi umani non possiamo nemmeno immaginare, strati di conoscenza a livello gassoso – non se ne spiegherebbe l’invisibilità – le cui molecole a noi ignote si uniscono a quelle della nostra chiamiamola anima in cui la più perfetta delle nanotecnologie ha concentrato miliardi di anni e di chilometri di storia in cui, per un padre per esempio, è facile individuare istanti con te protagonista che ti fai una canna all’uscita dell’orale della maturità nell’86 o certe perversioni casalinghe di auto-erotismo che ti hanno permesso non pochi compiacimenti in periodi esistenziali di – diciamo così – flessioni del proprio fascino sull’altrui interessamento. Ecco quindi svelato il terzo segreto della bidella complice di una truffa ai danni della prof di matematica e i pensieri perfidi quando è stato il momento di voltare le spalle al volere paterno la prima volta o il tasso alcolico in occasione dell’incidente con l’unica macchina di famiglia e i conseguenti nove milioni di lire di danni. Ora si tratta di cose che non dovreste sapere perché voi non siete ancora morti, quindi facciamo finta che abbia elencato peccati presi a caso e con molta libertà dalle vite altrui.

Invece non è così, anzi il contrario o quasi. Ovvero che è proprio in occasione di lutti come questo che uno viene a sapere di cose accadute a parenti vari perché nei momenti di mollezza da confessione reciproca a scopo consolatorio tra zii o cugini, di quel livello che si incontra solo in occasioni come queste, che saltano fuori certi altarini mica da ridere. Quello che dopo averlo tutto sommato stimato per tutta una vita e rispettato per essere passato a miglior vita in modo indecoroso vieni a conoscenza della sua militanza nella RSI, che finita la guerra ha setacciato certe montagne dietro a casa tua per dare degna sepoltura a nazifascisti giustiziati dalla resistenza, che poi è diventato esponente locale di punta dell’MSI prima di cambiare tutto e abbonarsi a una rivista di stampo anarchico. Quell’altra – e che brutta fine che ha fatto – ha invece abortito a quindici anni in tempi in cui non si poteva certo raccontare in giro. Ma anche un caso di alcolismo da terza età causato da solitudine improvvisa e i rischi del bicchiere in eccesso dopo certi tipi di farmaci.

In generale però mi sento di confermare che magari uno non ci pensa che gli altri abbiano bisogno di affetto e attenzioni anche in condizioni normali, quando non è il compleanno o quando gli succede qualcosa di tragico, come è successo a me. Ecco perché mi sento di lasciarvi rilanciando con quanto sia straordinario vedere le persone ogni giorno che stanno bene e che si beano del quotidiano e sarebbero da riempire d’affetto e di abbracci o di like su Facebook anche solo perché, anche oggi, hanno salutato i figli alla scuola materna o hanno mangiato prosciutto e melone a pranzo, oppure sono in attesa al banco gastronomia dell’Esselunga con i bambini che invece mettono fretta perché hanno in testa solo le figurine. Lasciate perdere il soprannaturale, ve lo dice uno che ha appena assistito a un rosario recitato da un diacono fiaccato dal Parkinson e con una pesante inflessione dialettale ligure. Se incontrate amici o parenti mentre svolgono funzioni apparentemente banali ma concrete e misurabili, di quelle che alla fine reggono l’intero sistema delle convenzioni sociali, date loro l’importanza che meritano, metteteli al centro delle loro vite come se quel giorno, ogni giorno, fosse il loro giorno.

quindi fate attenzione, quando le cose cambiano in peggio è facile accorgersene

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Un po’ vi invidio e ne ho tutte le ragioni, ascolto le vostre conversazioni e mi verrebbe voglia di rovinarvi la festa dimostrandovi, prove alla mano, che poi arriva un giorno in cui non è più così. Seguo i vostri batti e ribatti sui gruppi indie, per esempio, sui confronti tra band di una o dell’altra sponda e chi ha il suono più ricercato o chi non ha chance. Sento le vostre classifiche sulle serie tv che commentate in lungo e in largo ovunque, quelle tradotte e quelle con i sottotitoli, quelle che si scaricano e quelle che le danno sulle tv a pagamento, quelle che l’ultimo episodio lo avete visto sullo smartphone, camminando mentre rientravate a casa venerdì scorso. Per non parlare dei trend più trend della rete di cui invece parlate voi, le transumanze da una piattaforma a un’altra, la nuova rivelazione che dev’essere condivisa altrimenti non è esistita, persino i nomi che avete sui socialcosi e che usate anche quando siete nudi nel letto mentre scopate con qualcuno che avete sedotto a colpi di like. Stabili anche le discussioni su argomenti più tradizionali, il calcio la figa e la tv, che spesso coincidono, in netta diminuzione la percentuale di chi la butta sulla politica, in aumento quelli che quando la butti sulla politica dichiarano di trovarsi più a proprio agio con calcio figa e tv.

Si vede, vero, che ho il dente avvelenato mentre stilo l’elenco di tutte queste cose di cui potete discorrere tra di voi e che vi invidio e se ne ho tutte le ragioni e se mi venisse voglia di rovinarvi la festa lo capireste proprio dopo il punto che chiude questo passaggio. Perché poi, superato un certo giro di boa che magari nessuno di voi nemmeno ancora intravede, e non è certo colpa vostra ma per una semplice combinazione di fattori anagrafici, fortuna, vissuto personale e direi basta, oltrepassato un certo momento della propria vita ci si accorge che di botto gli argomenti di cui parlare con gli altri sono di stampo completamente opposto.

C’è l’ipertensione, per esempio, e se il Valsartan lo prendi da 80 o da 160. Le vasche da bagno per anziani disabili con lo sportello laterale che evitano così di scavalcarne il bordo, e se è meglio quello o uno sgabello in plastica per lavare da seduto chi non si regge in piedi. La prostata e i controlli al seno. L’amministratore giudiziario e la relazione del medico di famiglia sullo stato psicofisico oltre a quella del neurologo che determina il livello dell’Alzheimer e, di conseguenza, il resoconto dettagliato dei beni vs il resoconto di gestione entro i 12 mesi successivi e l’eventuale procura speciale.

Come inserirsi nei canali giusti delle badanti, ci si può fidare del passaparola tra connazionali dell’est o è meglio rivolgersi a qualcuno che già usufruisce del servizio. L’operazione agli occhi è rischiosa o no o comunque è sempre meglio di portare le lenti tutta la vita. Si può scegliere con scioltezza la prossima vacanza o è meglio darsi una regolata che non si sa mai, se poi un genitore ha bisogno e sei distante come ci si comporta. Quindi no, non dovete assolutamente cambiare registro e chiacchierate pure come se le cose restassero così e nulla si guastasse e non ci fosse un futuro più o meno prossimo in cui bisogna fare i conti con l’iper-quotidianità di certi problemi. Scelte così devastanti che si trascinano nella routine che rimane la stessa di prima – l’ufficio, la birra, la partita, il concerto, l’aperitivo, il vernissage, la sala prove – da trascorrere con uno zaino sempre sulle spalle, pieno zeppo di qualcosa che non sapete descrivere ma del quale, molto probabilmente, non vi libererete mai più.

se sei fuori dal tempo basta un click

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Se osservate bene questa foto del mio pianoforte, e dovete avere molta lungimiranza e fantasia perché in realtà la foto non esiste ma il pianoforte si e prima o poi una foto la farò e la posterò, potrete notare che il metronomo nero non è assolutamente in tinta con il marrone scuro del mobile dello strumento. Forse il primo pianoforte che ho avuto, a noleggio e agli albori dei miei studi pianistici, era nero e il metronomo è stato acquistato di conseguenza, ma non ricordo e non ci metterei la mano sul fuoco. I miei, che hanno disposto e provveduto economicamente anche alla mia educazione musicale, non badavano granché a dettagli estetici come quello.

Ma questa è solo l’unica lacuna di quello che ritengo sia l’elemento cardine di tutta la musica e, in senso traslato, di tutta la vita. Il sistema di scansione regolare del tempo – quell’odioso, rassicurante e marziale tìn tac tac tac tìn tac tac tac a velocità regolabile che dovrebbe accompagnare ogni pezzo eseguito durante le sessioni di studio del pianoforte – e soprattutto l’abituarsi a suonare con esso qualunque cosa – classica, rock, jazz, canzonette, improvvisazioni a cazzo, il gatto che zompetta sopra la tastiera eccetera – farà di voi non solo dei valenti e rigorosi musicisti, ma anche persone migliori (guardate me!) capaci di scandire ritmicamente ogni gesto, di camminare senza intralciare l’andatura altrui, di ballare in armonia ai concerti evitando di dare testate e gomitate inopportune al prossimo, di programmare al meglio il vostro futuro imminente misurando le distanze e il tempo impiegato per raggiungerle (anche solo metaforicamente) nonché di tagliare e riciclare parti di brani in formato digitale con apposito software di audio editing e farne ciò che preferite. Una serie di vantaggi mica male. Se non mi credete, provate ad ascoltare musicisti cresciuti studiando senza e ad accompagnarvi con loro. Tecnicamente ineccepibili ma alla seconda strofa li avrete già persi. E non sono solo io a dirlo.

Dovremmo fare tutti quanti come Giorgio Moroder. Giorgio Moroder voleva fare un album con il suono dei 50, dei 60 e dei 70 e quindi ottenere il suono del futuro, almeno questo è ciò che asserisce nel tributo che i Daft Punk gli hanno dedicato nell’ultimo celeberrimo album. Giorgio Moroder voleva inventare il suono del futuro, e pur non avendo idea di cosa fare e di come ottenerlo decise che avrebbe usato un click, che per i non addetti ai lavori è un impulso sonoro che, registrato su una traccia di un registratore a più piste, è in grado di far suonare a tempo non solo i musicisti in carne ed ossa che lo utilizzano come un tradizionale metronomo, ma anche di trasmettere il tempo da tenere a sequenze preregistrate su sintetizzatori analogici. In questo modo non solo batteria, basso, chitarra e tastiere possono suonare a tempo e non necessariamente simultaneamente, ma anche arpeggiatori, parti ritmiche, drum machine eseguono parti perfettamente sincronizzate con tutto il resto. Oggi ci sono i sequencer e i computer, e se un tempo le cose funzionavano diversamente il risultato non cambia. Quando ascoltate una canzone del vostro gruppo preferito, tutto fila miracolosamente a tempo perché da qualche parte, nascosta sotto tutti gli altri strumenti, in studio è stata usata come prima cosa una traccia di metronomo.

Ma non lasciatevi spaventare da questo mini-manuale operatore, peraltro molto approssimativo. Il bello di suonare o registrare o fare qualunque cosa di musicale con il click è che un brano alla fine puoi montarlo, smontarlo e paciugarlo come vuoi. Ci si può intervenire facilmente con qualunque strumento o effetto sonoro prima, dopo, durante fino a stravolgere il risultato.

Ora pensate la genialità di questo sistema e provate ad applicarlo a voi stessi. Se tutto è a tempo, tutto è assolutamente intercambiabile. Possiamo entrare e uscire a piacimento dalle situazioni e rimanere perfettamente allineati a ciò che accade, sia che siamo dentro che se per qualche motivo ci siamo chiamati fuori. Abbiamo infatti comunque la certezza della sequenza di ciò che succede suddivisa in moduli della stessa durata e possiamo tornare a reimpadronirci del flusso degli eventi a nostro piacimento. Per non parlare della assoluta percezione di fattori quali la durata, la velocità e ciò che succede lungo le altre tracce che stanno suonando contemporaneamente alla nostra, sincronizzate al millesimo di secondo. Non solo. Disseminare la propria vita di punti fissi facili da ripercorrere e trovare, un po’ come accadeva per i sassolini bianchi di Pollicino, perché collocati intelligentemente a tempo – l’intelligenza sta proprio nello scegliere una velocità adeguata alla propria indole – ci permette di disporre di una mappatura della nostra esistenza con tanto di introduzione e finale che, si spera, sia il più possibile ad libitum.