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L’agenzia in cui lavora Paul ha due ingressi su due livelli, per comodità lui non entra mai da quello principale, ubicato al piano terra. Nessuno dei colleghi a dir la verità lo utilizza perché è più comodo usare l’ascensore che porta direttamente all’ingresso secondario posto al piano degli uffici. Tanto che le caselle della posta, la posta nel senso di quella tradizionale cartacea, posizionate a ridosso dell’ingresso ufficiale, nessuno se le fila più e fax e robaccia destinata alla differenziata possono restare lì anche per giorni. Passa invece sempre da lì il suo collega Kurt, che si occupa di preventivi, a volte lo scambio e l’approvazione degli stessi avviene ancora tramite fax o busta perché alcuni fornitori hanno bisogno della firma in calce.

Così Kurt ogni giorno butta un occhio alla sua buca, accenna un saluto alla receptionist e poi sale di sopra. Oggi, accanto al fax, c’è Valerie, segretaria del capo, neoassunta e in perfetta linea con tutti i cliché con cui ogni capo maschio medio si immagina (e sceglie) la propria segretaria. Occhiale compreso. L’occhiale è sul naso, in mano ha una busta, l’espressione è preoccupata. Valerie chiede a Kurt di avvicinarsi e di leggerne il contenuto. “È di una compagnia di assicurazioni che non ho mai sentito“, lo ragguaglia Valerie, “dice di chiamare assolutamente il loro numero verde entro domani per stipulare una polizza sulla vita“. “Butta pure via“, le risponde secco Kurt. Per Kurt una segretaria che perde tempo a leggere in ufficio lo spam cartaceo è un brutto segno di inesperienza. Ma il capo sa il fatto suo, non avrebbe mai assunto una principiante.

È solo qualche ora dopo, a metà pomeriggio, che Kurt inizia a percepire che qualcosa non va. Bruciore agli occhi, spossatezza alle gambe, qualche sintomo febbrile, leggeri brividi. Va a specchiarsi in bagno, in effetti la cera non è delle migliori. Dannata influenza, Kurt non pensava ci fosse già in giro il nuovo virus, l’estate è appena finita. Ma il malessere aumenta e nel giro di un’ora la febbre sembra essere alta, mentre i brividi sono quasi scossoni. Niente da fare, meglio tornare a casa. Prima di attivare il risponditore automatico via mail e di spegnere il PC, Kurt va ad avvertire di persona Chris, il suo diretto responsabile, al quale dovrà inoltrare un paio di rogne da terminare entro la sera. Chris si scoccerà un po’, ma Kurt non si assenta mai dal lavoro se non per motivi davvero fondati. E poi, si vede lontano un miglio che non è proprio in forma.

Chris ha un ufficio per sé, e quando Kurt fa capolino dopo aver bussato non può fare a meno di fare un’espressione di sgomento. Il viso di Chris è gonfio e rossastro, il che ne aumenta a dismisura la circonferenza, la pelle a colpo d’occhio gli ricorda un plum cake. “Volevo dirti che non sto per niente bene, vorrei andare a casa, mi sento la febbre alta“. Ma le condizioni dello stesso Chris non sono diverse: analoghi sintomi, che in lui sembrano essere ancora più gravi, vista anche la sua scarsa forma fisica generale. “Come non detto, cerco di resistere finché posso“. Kurt torna alla sua postazione, mentre Chris riporta gli occhi, che sembrano due uova sode, sul monitor, la faccia sudata, i capelli unti, il colletto della camicia che stringe come una morsa la carne che fa tutt’uno con il mento.

Kurt è di nuovo al suo pc, quando ecco che arriva una e-mail. C’è qualcosa che colpisce la sua attenzione. Il subject suona come una minaccia: “Non hai ancora chiamato il numero verde, vero?“. Kurt ne stampa il testo e si precipita nell’ufficio di Chris, il cui gonfiore del viso è oramai a uno stadio preoccupante. “Ti senti bene?“. Chris gli risponde con un’occhiata di terrore. Anche lui ha ricevuto la stessa e-mail. Sembra alle soglie di un’esplosione: “Che cazzo ci sta succedendo?“. Entrambi capiscono di essersi esposti alla lettura della misteriosa missiva aperta da Valerie. Corrono immediatamente nel suo ufficio, ma sembra non esserci traccia della segretaria.

Lo spoiler è un’arte e bisogna saperlo fare con stile, ma a certe domande su come vanno a finire le cose nella nostra vita nessuno è in grado di darci una risposta. Ce la caviamo un po’ meglio con libri e film ma ci sono persone che sono un disastro e il tempo di passare al libro o al film successivo ed ecco che della trama del precedente non si ricordano più nulla. La rete serve anche a questo: basta mettere due o tre indizi su Google, schiacciare enter e subito trovi la risposta ma scordatevi che qualcuno abbia voglia di assumersi la responsabilità di prendere le decisioni per voi. La trama di “Unsubscribe” deve quindi mettervi tutti all’erta.

Come va a finire il libro che non finisce mai, di Stewart Redhook, ed. Severino

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Björn viene dal nord-europa ma si è trasferito in pianta stabile in Italia sin dai tempi dell’università, quando ha iniziato a manifestare la sua ossessione per il sesso con l’argomento della tesi di laurea in sociologia tutto dedicato alla componente carnale dell’amore e non. Nessuno gli hai mai fatto notare che uno strizzacervelli nel suo caso potrebbe risolvere un sacco di problemi. Chiariamoci, da come lo descrive l’autore non sembra uno violento, il fatto è però che vedere ogni sfaccettatura della vita con gli occhi della seduzione fa prendere delle cantonate, ti mette in una luce di scarsa attendibilità con gli amici, le donne dopo un po’ non ti credono nemmeno più e finisci a fare lo scrittore così, come ci siamo detti centinaia di volte, la realtà te la dipingi a parole come vuoi tu e riesci a non pensare più a tutte le menate su chi deve lanciare l’esca, il gioco delle parti, chi finisce prima e chi deve riattaccare il telefono alla fine della storia, sempre che la storia si chiuda.

L’espediente della trama però è tutto sommato intrigante. Björn è dall’adolescenza che sogna di sottoporsi a un rapporto orale con se stesso, avete capito cosa intendo e, se leggete il libro, l’autore non usa ipocritamente mezzi termini o un linguaggio fintamente corretto come il sottoscritto. Björn per tutta la vita, e con una frequenza a fasi alterne, sogna di essere così snodato, o di essere così dotato, da provare a soddisfarsi da sé senza riuscirci nel modo che avete capito. Il problema infatti è che non arriva mai al dunque, almeno fino al capitolo in cui mi trovo adesso nella lettura sembra non esserci ancora riuscito. Questo pone Björn di fronte a un duplice dubbio: possono sogni e realtà mescolarsi così tanto da consentire alla dimensione onirica di sconfinare in quella fisica, un po’ come quando sogni che ti scappa la pipì e poi trovi un posto dove liberarti e ti svegli che sei tutto bagnato, a chi non è capitato? Björn vorrebbe che anche in quel caso l’epilogo fosse altrettanto concreto, anche perché l’esperienza potrebbe essere piuttosto appagante, ma ogni volta ce n’è una. Suona la sveglia, gli salta il gatto addosso, si desta di soprassalto, l’erezione arriva a un punto che è fin troppo dolorosa, la vicina mette un disco di salsa perché è già mattina, il figlio russa, il figlio suona il citofono ubriaco alle quattro del mattino. Insomma, non c’è verso di arrivare alla fine di quella pratica di auto-erotismo possibile solo nella finzione, a meno di non avere particolari doti da contorsionisti o non essersi sottoposti a un’operazione chirurgica in un senso o nell’altro come si diceva di D’Annunzio. Il secondo dubbio riguarda l’omosessualità latente o meno: desiderarsi così tanto che cosa significa? Non vi svelo il finale, un po’ perché come vi dicevo non ci sono ancora arrivato e poi non mi piace spoilerare, ma la trama l’avete capito che merita, la storia è avvincente e tutt’altro che scontata, la traduzione dall’inglese mi sembra fedele con lo stile dell’autore e l’immedesimazione con Björn alla fine ti viene spontanea. Consigliatissimo anche in versione per e-book.

DOLCE STILL NUOVO: "Solo dal cuore del mai"

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“Non mi importa niente/sono solo un codice cliente”, canta Teo, one man band del progetto Dolce Still Nuovo che è tutto un gioco di parole, oltre che un concept album. D’altronde, cose come i timelapse, le foto in HDR, le gif animate che ruotano lungo loop eterni davanti ai nostri occhi con il nuovo giochino tipo la roulette che li fermi e quello che ti capita ti capita, per non parlare – dato che stiamo discutendo di musica, anche se puramente di fantasia – di certi effetti audio elettronici e le stesse batterie campionate e poi imitate dai batteristi veri, poi ri-campionate suonate dai batteristi veri e chissà davvero dove andremo a finire, signora mia. Siamo persino qui a esprimerci laconicamente tra di noi e con quell’ironia che oggi è la protagonista dei social pronta a scatenarsi sul web, almeno a quanto dicono i quotidiani on line, e a fare i gesti con le dita quando vogliamo mettere delle virgolette al nostro discorso o persino il cancelletto dell’hastag incrociando le dita in un modo senza precedenti, come se questa o quella parola che ci sembra epocale potesse essere ripresa, ricercata, indicizzata e inclusa nella conversazione di qualcun altro. Il pollice alla Fonzarelli, poi, non ne parliamo. Se una cosa ci piace scatta l’erezione del dito che si oppone per eccellenza e diciamo persino “number one” o “delicious” se davvero siamo rimasti entusiasti. Nelle canzoni di “Solo dal cuore del mai” la stessa realtà virtuale prima e quella aumentata dopo ci viene raccontata come un accrocchio che non solo ha superato in completezza noi animali in carne e ossa ma ha persino depauperato le nostre potenzialità immaginifiche e ci ha trasmesso un’idea delle cose che non corrisponde a quanto i nostri avi devono aver visto sino ad ora e che ci hanno lasciato in eredità nel loro patrimonio esperienziale e genetico. Più che apocalittico, il progetto Dolce Still Nuovo è la musica definitiva, quella pronta per fare del collaborazionismo alla prossima invasione aliena e sperare che nel nuovo ordine mondiale ci sia riservato un posto da infame al tavolo del potere.

MINE: "Ignoranza passiva"

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Dicono che dietro alle esasperanti manie per l’igiene si nascondano temperamenti ai limiti della follia e che lavarsi all’eccesso sia un auto-infierirsi punizioni per aver mancato obiettivi senza rendersene conto, quando probabilmente non si aveva nemmeno l’età per dire una parola di senso compiuto ma già c’erano genitori, nonni e zii con il fiato sul collo per farci diventare presidenti degli Stati Uniti. Certo, poi volano scuse del calibro di “in giro c’è un’influenza che si va all’ospedale” e comunque, prima di mangiare, un salto in bagno lo si fa sempre. Poi, che cosa si faccia, nessuno lo sa. Dicono anche che sovente i luoghi occidentali apparentemente più incontaminati, prendete un centro medioevale qualsiasi – da noi c’è l’imbarazzo della scelta, terremoti permettendo – o un altopiano dalla vegetazione rigogliosa, mantengono il loro fascino da rivista di viaggi solo perché hanno un nodo autostradale a pochi chilometri di distanza che li rende comodi da essere raggiunti ma senza compromessi in fatto di bellezza del paesaggio. Negli altri posti, quelli che sono divisi in due dalle grandi arterie provinciali, per esempio, non è certo così e a vederli in un mattino qualunque sembrano campi di concentramento per individui improduttivi. Malati che sfidano la cabala delle visite fiscali, anziani sani, anziani malati che escono coraggiosamente con temperature rigide, quelle che una volta si chiamavano casalinghe e la massa dei disoccupati che difficilmente si distingue da chi, invece, lavora su turni e guarda caso, in quel momento lì, è di riposo. Dicono infine che il cantante dei Mine, che sono italianissimi – oltreché immaginari, come avrete capito – ma non si sa bene di dove, abbia chiesto di poter essere cremato con la faccia dipinta da Bowie di Aladdin Sane, in caso di morte. Il resto della band, che poi è un tastierista tuttofare che rende la band un duo ai minimi termini, invece non si è pronunciato ma crediamo che, in una situazione analoga, non rinuncerebbe certo al giubbotto di pelle striminzito che – ancora a proposito del Duca – sembra uscito da uno dei provini fotografici per l’album Heroes. Ma, per tornare alla musica di noi miseri mortali, “Ignoranza passiva” segna un nuova svolta verso i territori gelidi del decostruttivismo melodico. Strumentazione più che minimale a bordone della solita sovraesposizione sfarzosa alle paure del post-moderno che, non dimentichiamo, sono le stesse di noi che proviamo a recensire dischi invisibili come questo. Che poi, mine si pronuncia all’italiana o all’inglese?

YODA CAUSTICA: “Città uguale perdersi”

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Anticipato dalla titletrack pubblicata lo scorso novembre, ecco l’esordio di lunga durata per gli Yoda Caustica, quintetto inventato di electro-shoegaze con ingombranti riferimenti presi in prestito alla scena post-folk-vaporwave urbana locale. “Città uguale perdersi” è una slideshow di dodici istantanee virate da filtri fortemente emozionali nelle quali la band comprime lo smarrimento di chi vive tra milioni di persone indistinte e da cui è facile farsi confondere. Nessuno è indispensabile, dicono i manager spietati delle start-up mordi e fuggi nate nell’economia della disperazione. Siamo riflessi di noi stessi sui vetri dei finestrini sigillati della metro senza conducente che corre sotto di noi fuori dalle ore di punta, risponde con una voce che probabilmente è quella della fine del mondo Mosè, il giovane cantante/chitarrista, sfuggente come una snapchat di un nativo digitale compulsivo. Un insieme di canzoni rubate dalle espressioni di gente come me e voi incredula sul mondo, sulla vita, sulle non-relazioni del genere umano digitale. Dimenticatevi dell’hipsteria collettiva, delle pose dei giovani cantautori, delle creazioni derivative di tempi che nessuno conosce più e di cui quei pochi che li hanno vissuti non si ricordano nulla da tanto si sono bruciati il cervello. Gli Yoda Caustica sono logoranti come le sostanze chimiche più distruttive e giocano come pochi altri sul disturbo dei nostri sensi. Ascoltare musica sarà sempre più fastidioso, con dischi come questo, ci farà sempre più paura, ci indurrà a sentirci sporchi e inutili in una lunga agonia verso la fine. Dalle pulsazioni di “Troppo tardi per tutti” ai rimandi post-rock e chillwave di “Pazza Italia in acrilico”, “Città uguale perdersi” è un drammatico compendio del disagio di chi scende a compromessi con la propria coscienza virtuale, un allarme inutile di cui ci si è dimenticati la chiave di decodifica, un hard disk pieno fino all’orlo di cose vitali immerso in una pozza di acqua sporca. Un disco assolutamente imperdibile.