così impari

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Mamma e figlia restano ferme mentre tutta la massa di bambini si riversa oltre la soglia della scuola da una parte e la massa degli accompagnatori si avvia verso il cancello di accesso, dall’altra. Restano immobili come trattenute mentre intorno la risacca dipana le onde umane lasciando il bottino della pesca alla mercé della rete, una delle tante metafore del malessere. Si dirada anche il vociare della cittadinanza attiva e passiva dei buoni propositi della mattina, lasciando libera all’udito la discussione tra le due ritardatarie, una che non vuole andare in classe e l’altra che giocoforza non può andare al lavoro.

Ed ecco a nudo tutto il dramma che si consuma, perché la madre si cala immediatamente nel ruolo della severità da disperazione e urla, la bimba quello del pianto in silenzio che è la cosa più straziante dei piccoli. Bocca serrata e lacrimoni che scendono sotto gli occhiali da vista sino al mento. La mamma non si lascia commuovere e le vomita addosso tutte le sue sacrosante ragioni. Adesso vai dentro perché è il tuo dovere e io non posso stare qui a litigare. Nel frattempo è uscita anche una bidella a mediare la situazione, si mette a lato delle due con le mani in tasca ma non sembra capace di dare la svolta, va solo a ricoprire una posizione di rottura dal punto di vista della prossemica: il genitore infatti si rivolge alla figlia ad almeno due metri di distanza e in piedi, senza un contatto rassicurante e senza inginocchiarsi per stabilire una parità di altezza di sguardi. La freddezza del rapporto non è per nulla inferiore alla temperatura di contorno, e la piccola resta lì.

Nemmeno la presenza di spettatori introduce un deterrente, una spinta verso la conciliazione. Guarda che ti porto dentro a forza tanto ormai la brutta figura con tutti gli altri ce l’hai già fatta. Questo è il segnale che ci dà il via, noi ci allontaniamo anche ma le urla ci seguono fino al parcheggio, nel silenzio mattutino quando passa anche l’ora di punta, per di più ovattato dalla neve che ricopre tutto. Quando ti accompagna tuo padre va tutto bene, quando di accompagno io mi fai sempre tutte queste storie. Ecco un altro elemento di valutazione. Probabilmente i genitori sono separati, e la bambina si nasconde dietro la gravità di papà e mamma che hanno anteposto chissà quali altre esigenze personali al suo bene. Lei vorrebbe soltanto uscire di casa lasciando temporaneamente una famiglia intera e non metà affetto per volta.

Oppure i problemi sono in classe. Magari la prendono in giro, magari ha una maestra che la vessa (e non so, ma se io fossi il bidello sarei già andato a chiamare l’insegnante perché la crisi sembra piuttosto seria), magari un compagno di classe la picchia, magari è una giornata così. O è il mal di stomaco perché siamo fatti anche di mal di stomaco. Quanti danni che fanno gli adulti distratti. Quando esco dal parcheggio il portone di ingresso si chiude finalmente dietro il suo zaino, grande quanto lei, e la scuola la fagocita ancora per fornirle un nuovo pezzo del kit anti-disagio che le spetta da programma. Montalo e tienilo con cura, piccola, che mamma non lo usa da un po’ e non sa più come si accende.

i fratelli Bronzini e i pezzi per pianoforte di Saint-Saëns

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La puntina saltò alcune note ma lui ci aveva fatto l’abitudine. Si sedette ai margini della stanza, dove poteva sentire il sole della cucina e guardare la faccia di Laura. La musica li unì in modo discreto. Gli parve di entrare nel sogno ad occhi aperti di lei. Riusciva a capirla, a conoscerla, quasi, a sentire la sua innocenza attraverso la musica, a riconoscere la bambina, la spigolosa dodicenne che camminava dietro ai genitori per la strada, riusciva a vederla sulla faccia della triste sorella maggiore, era ancora lì, la bambina, nelle borse sotto gli occhi, nelle macchie sulla faccia e nei capelli sbiaditi. Ci fu un momento, nel pezzo, dopo passaggi di delicata rievocazione, in cui parve fare il suo ingresso qualcosa di fosco, mentre la sinistra del solista accelerava il tempo, e questo la spinse ad alzare un braccio, lentamente, quasi in un gesto di sgomento, meditabondo e gravido – nelle note basse aveva sentito un cupo presagio che l’aveva spaventata. E questa era l’altra cosa che condividevano, la tristezza e la chiarezza del tempo, il tempo rimpianto della musica – il modo in cui il suono, le modulate vibrazioni prodotte da martelletti che battevano corde di metallo, provocava in loro uno strano dolore, non per qualcosa di preciso ma per il tempo in sé, la sensazione concreta di un anno o di un’epoca, le testure del tempo non misurato che ormai sfuggivano a entrambi, e lei stornò gli occhi, fissando oltre la mano alata qualcosa di trasparente che lui pensò di poter chiamare la sua vita. (Don DeLillo, Underworld)

it’s halftime in Italy

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Qui da noi il secondo tempo c’è già stato, e probabilmente avremmo anche vinto se uno della nostra squadra non avesse fatto un clamoroso autogol facendoci perdere prima della fine della partita contro quegli altri, quelli che facevano sgambetti e tiravano calci e avevano così tanti soldi che si sono comprati pure l’arbitro e il guardalinee. Grazie a loro siamo retrocessi in serie B, poi in serie C e a un certo punto a malapena avevamo le risorse per iscriverci al campionato, non eravamo nemmeno sopravvissuti ai tempi supplementari, il golden gol era così prezioso che se l’erano pure rubato. E solo di recente c’è stato un ripescaggio, l’ex allenatore è nel pieno dello scandalo delle scommesse, e ora c’è appena stato il calcio d’inizio e noi tutti siamo sugli spalti a tifare questa squadra che nel frattempo ha cambiato tutti i giocatori, l’allenatore è un tecnico che ha imparato nuove strategie con squadre europee, dicono che con questa formazione rischiamo pure di vincere.

[attenzione spoiler] alla fine il cantante muore

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C’è quella scena in cui Jim Morrison, interpretato da Val Kilmer, attraversa un muro di fans che gli lanciano tutte le droghe possibili e lui se le cala o le accende tutte, innaffiando quella merenda itinerante con bourbon o superalcolico equipollente, e sì che era giovane e forte ma riesce male immaginare un essere umano così alterato in grado di sopravvivere il mattino dopo. Ma forse è lì che Oliver Stone ha cercato di condensare la vera essenza di una rockstar entrata nel mito, uno che apre tutte le porte della percezione contemporaneamente senza preoccuparsi della corrente e degli acciacchi che ne possono derivare.

E c’è anche quella scena che racconta il processo creativo del loro successo con la esse maiuscola, come on baby light my fire. Ci sono i Doors al completo in sala prove che provano il pezzo, poi Ray dietro le tastiere sembra un po’ perplesso e fa uscire tutti. Ragazzi andate fuori a impasticcarvi per bene, lasciatemi solo che devo trovare una introduzione di Hammond all’altezza. Due scale, due accordi e miracolosamente il riff è pronto. Okay ragazzi, tornate pure dentro, one two three four e qualche metro di pellicola dopo il pezzo è quello che conosciamo noi. Allora ditelo subito che è lo spettatore che dev’essere più aperto e pronto a recitare egli stesso una finzione, quella di colmare con la propria fantasia tutte le ingenuità narrative, scorporare l’opera a cui sta assistendo da tutti gli accessori interpretativi lasciati lì come trappole nella sceneggiatura, oppure se sei davvero un fan dei Doors ti fai una canna prima e ti vedi il film e a quel punto allora vale tutto, si giunge al nocciolo della biografia che consiste in una vicenda che si sa già come va a finire e alla celebrazione di chi ha fatto la (tua) storia. Forse allora non ha nemmeno senso farci un film sopra, se non per ascoltare un po’ di buona musica sempre che i Doors ti piacciano, o come me li trovi gradevoli ma piuttosto sopravvalutati e offuscati dalla celebrità del loro front man.

Ecco, se c’è un genere di film a cui sono allergico è il biografico di gruppi musicali. Ed è naturale che i soggetti selezionati per la trasposizione sono quelli di maggiore valore artistico, possibilmente maledetti e che hanno fatto una fine più o meno tragica entrando nel mito. E per dimostrarvi che non faccio figli e figliastri, posso dire la stessa cosa di Control, il film sui Joy Division e sulla controversa personalità di Ian Curtis. Finale analogamente tragico al compimento di una trama ricca di cliché su chi sceglie di calcare il palcoscenico e farne il proprio lavoro. Qui le droghe sono più difficili da racimolare, nessuno te le tira addosso o sul palco ma occorre andare a trovare le vecchine con qualche scusa e frugare tra i loro medicinali. D’altronde se vuoi caratterizzare un isterico inventato, faccio un esempio, ci sono ennemila modi per guidare la recitazione dell’attore che hai scelto. Il cantante depresso e fattone invece è così è basta, devi rimanere fedele alla realtà perché hai gli occhi della stampa specializzata puntati contro. Pure il tema della groupie che se lo vuole fare è analogo, come la nascita stessa della hit: artista in posa da riflessione con bloc notes e lapis in mano, ed è un attimo ad essere già in studio di registrazione a sperimentare lo spray per il charleston di “She’s lost control”. Per finire con i titoli di coda con la canzone che ti aspetti essere utilizzata per i titoli di coda, che nel caso di Control è “Atmosphere”. Ecco, io avrei scelto “The eternal”, non lo trovate più adatto?

‘orno, ‘era

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Il più grave problema delle eccezionali condizioni meteorologiche di questi giorni è l’abbondanza di argomenti di conversazione e i semplici conoscenti o emeriti sconosciuti che si sentono in diritto di scambiare pareri e impressioni sul tempo, e solo la presunta gravità della situazione porta l’autorevolezza della discussione una tacca sopra il classico parlare del più e del meno, tanto da farci rimpiangere quelle belle giornate dai toni piatti, cielo grigio su e foglie altrettanto grigie giù a cercare un po’ di blu ma solo dentro noi stessi o nel libro che stiamo leggendo e dalla trama del quale non vorremmo essere distratti, o, nei casi di maggiore inclinazione alla tecnologia, in tablet di ultima generazione a distruggere muri di mattoni virtuali con palline altrettanto dematerializzate sperando che siano dotati di attacchi per gli auricolari. Le sempre più puntuali previsioni che ormai azzeccano quasi l’ora il minuto e il secondo in cui succederà qualcosa di anomalo, e la discutibile reazione dei responsabili della gestione delle emergenze che si stupiscono a scoppio ritardato confondendo la prevedibilità di una nevicata con l’imprevedibilità di un terremoto, perché si vede che non è stato ancora interiorizzato pienamente il fatto che il clima mediterraneo ormai sia niente più di una definizione romantica che si trova solo sui sussidiari della loro infanzia e che ora è superata tanto quanto il concetto stesso di floppy disk. Facciamocene una ragione, siamo continentali come la mitteleuropa e di questo la Merkel dovrebbe tenerne conto quando pensa a noi italiani, se salvare un popolo meridionale oppure no. E così ogni anno l’anomalia climatica che sommerge città o spiazza i sindaci nazionalsocialisti lascia il tempo che trova, cioè può anche tornare il sole, perché poi subentra qualche argomento più urgente del perché le rotaie delle regioni settentrionali non sono attrezzate contro il ghiaccio come in Svizzera, o come faranno i senzatetto a non uscire di casa. Ma sia detto una volta per tutte: il grande freddo non c’entra nulla con tutto questo, era un film che parlava di un ghiaccio metaforico che però era dentro qualcuno che poi ha fatto il figlio con il suo migliore amico perché lui era sterile, e non metaforicamente.

the shins – september

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I The Shins hanno realizzato il video del retro di Simple Song che sta per uscire come primo singolo di Port of Morrow, l’album che verrà pubblicato a marzo. Idea divertente, quella dei nastri e dei solchi attraversati da puntine che ci inviano i messaggi. Canzone da ascoltare tenendosi per mano e sognando la primavera. Anzi, l’autunno.

fuori programma

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Io la tv non la guardo: si tratta di una dichiarazione laconica e mirata ma che si presta a infinite interpretazioni, sempre che uno abbia tempo da perdere per pensarci su. E quando uno dice che non guarda la tv, io posso anche credere che sia uno di quelli che dice di non guardare la tv per posa snob, l’intellettuale che non si mischia alla gente e non si presta a intrattenimenti comuni. Ma attenzione, perché in giro c’è pieno di tipi snob che guardano la tv con il piglio di essere snob PUR guardando la tv, e tacciano di ostentazione di falso snobismo chi non la guarda e lo conferma a parole, senza considerare chi la guarda e afferma in pubblico il contrario perché chi mente sapendo di mentire è fuori gioco e andare a fondo anche di questa casistica non ci passa più. Ma il tutto ti fa girare la testa.

Vai a sapere quindi come ognuno si comporta a casa propria. Io, anzi, io personalmente, come va di moda dire ai nostri tempi, la tv non la guardo, perché ogni volta che mi capita di accenderla rimango inorridito, mi incazzo, mi annoio, passo in rapida sequenza tutte le memorie che il digitale terrestre mi impone, cerco qualche documentario sulla Resistenza su Rai Storia, che a volte trovo ma sempre più spesso mi imbatto in Minoli che parla di Craxi. Inoltre sono contrario per principio alla tv non pubblica a pagamento. Cerco un po’ di musica ma i canali musicali oramai trasmettono tutt’altro, quindi spengo e metto su un disco.

L’apparecchio televisivo è un elemento domestico intorno a quale si progettano arredi di interi ambienti, il mio stesso mobile in soggiorno ruota intorno a un core unit – così definito sul catalogo – pensato per accogliere un maxi schermo, che a malapena sono riuscito a riempire con un 26 pollici e qualche dispositivo hi-tech connesso, il lettore dvd e un hard-disk multimediale. E ho sempre avuto l’impressione che trascorrere il tempo mediato da una visione casalinga comune, ovvero mettersi con il proprio partner a guardare la tv, fosse un po’ la morte della relazione, la pace dei sensi del dialogo e del confronto. C’è anche il fattore divano che ha il potere di spingermi al sonno a una velocità altrimenti impensabile, tanto che il binomio panciolle più voce narrante è letale nelle ore diurne bensì perfetto per le notti di ansia. Non oso pensare chi azzarda a mettersi la tv anche in camera da letto.

Ma il motivo principale è che non c’è mai tempo per sedersi e sperare di divertirsi con quel coso acceso davanti. E quando ci tentiamo, anche solo per il tg3, ecco che qualcuno reclama la visione del suo film preferito, e ci va già di lusso l’essere riusciti a guidare i gusti della personcina in questione anche oltre i disegni animati, grazie a lungometraggi divertenti e, tutto sommato, visibili anche più volte alla settimana.

tale e quale

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Ecco il vero dramma della modernità: non essere in grado di rendere al meglio i pezzi dal vivo. La differenza tra studio e live. Perché è facile avere tracce registrate e portarsi sul palco un macbook, che poi il macbook non ti si pianta mai ma poi se succede cosa fai? Il cantante si rivolge al pubblico dicendo chiedo scusa ma dobbiamo riavviare il sistema? Suonare così è un annoso problema perché ti blocca nella libertà di eseguire le canzoni come vuoi, sei legato al clic in cuffia e in molti casi alle strutture rigide. Ha senso sacrificare l’immediatezza tipica del rock dal vivo per un effetto che magari è l’elemento caratterizzante del brano? Ma non è solo questo, è anche un fattore stesso di suoni e strumenti tradizionali, parti registrate da musicisti e poi dal vivo eseguite da altri. Uno si aspetta che live la musica dia le stesse sensazioni invece ne fa provare altre ma magari non sono quelle che cercavi, e allora uno pensa che si stava meglio in cameretta ad ascoltare il disco anziché investire nel contatto diretto con il proprio beniamino da condividere peraltro con altre migliaia di persone. Vi faccio l’esempio di uno dei miei brani preferiti di Bowie che è Ashes to Ashes. Avete presente il solo di moog che è in coda al pezzo, un parte molto minimale e delicata che impreziosisce ulteriormente la canzone a partire da 03:53?

Bene, non riesco a trovare una versione dal vivo in cui quella parte renda allo stesso modo, perché suonata da tastieristi supertecnici che lasciano il loro inutile virtuosismo prevalere sull’estetica del pezzo in assoli eseguiti con timbri agghiaccianti. Sentite qui per esempio, a partire da 04:35. Farò ricorso in qualche modo all’autorità di competenza.

cheeeeeeese

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Riconosco di avere il dente avvelenato verso le persone che non sorridono mai, ma confesso di non capirli proprio. Non mi riferisco ai depressi cronici, ai malinconici di carattere o tristi in generale, nemmeno quelli che soffrono e che non hanno nulla da ridere e ne hanno tutto il diritto. Ma come fai a distinguerli se non li conosci personalmente, vi chiederete. Ma sì, lo sapete benissimo anche voi. Li riconosci quelli che hanno il grugno anche se si vede lontano un miglio che non gli manca nulla, semplicemente non sorridono mai perché sono così e, cosa del tutto ricorrente, si accoppiano e si moltiplicano.

E avete fatto bene a girarvi voi tre, vi siete sentiti tirare in ballo e a ragione perché mi rivolgo proprio a voi, padre pelato a zero con uno di quei piumini corti che hanno tutti – anche alcuni compagni di classe di mia figlia, 8 anni – blu con la riga orizzontale rossa e bianca, madre con stivale con tacco e pantalone stretto dentro, figlio maggiore a cui avete concesso di portare con sé la PSP perché altrimenti si sarebbe annoiato nel seguire la sorellina nel corso di due interminabili ore di partitelle di primo volley, tre contro tre a rotazione tra otto squadre tutte con la stessa dinamica: battuta sbagliata e punto all’avversario, o battuta oltre la rete e risposta fuori o troppo alta o dalla parte opposta.

Capisco che sia una prova di amore genitoriale, ma così è e non credo che la vostra faccia da cazzo sia tale per la giornata. No, sono certo che voi siete senza sorriso sempre, vi manca proprio lo spazio sul viso per contenere una qualsiasi espressione di serenità, vi manca la materia prima stessa. Non vi rivolgete la parola se non per andare a prendere un caffé al bar di quel palasport di periferia, e anche in quel caso una richiesta cortese e amorevole si percepisce come una considerazione monocorde e sgarbata che attesta il vostro malessere nei confronti di tutto quello che avete già e che potreste ricomprarvi sempre e non solo quando si sarà rotto: il Suv parcheggiato fuori al gelo, l’iPhone da controllare distrattamente, le vacanze in Egitto o alle Maldive che di certo non si possono rompere ma che noia, ci vanno tutti quelli con la faccia da cazzo come noi e non possiamo pensare a qualcosa di diverso. In realtà non possiamo pensare proprio. E, a dirla tutta, sono pronto a scommettere su cosa avete votato alle ultime elezioni, sempre che vi siate recati alle urne, sempre che abbiate una minima idea del mondo in cui abitate immeritatamente.

largo ai giovani

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A pensarci bene sarò anche io così. Perché non c’è gusto a intabarrarsi e rischiare la salute per sbrigare commissioni nelle ore mattutine dei giorni infrasettimanali. Che tristezza poi sarebbe mettersi in auto per andare alla Coop a fare la spesa che ne so, il martedì mattina per esempio, e posizionarsi alla cassa più libera scoprendo che intorno ci siamo solo noi, la parte della società che ha fatto il suo tempo, ha smesso di essere produttiva e ora può godersi giornate svuotate dal lavoro e dai figli che oramai sono grandi e hanno la loro famiglia. Che noia sarebbe aspettare il proprio turno in farmacia tra clienti tutti un po’ già vecchietti, ognuno con il proprio problema di salute, anziché fare la fila tra mamme e papà giovani, ragazzi con a malapena un mal di gola, gente che ha solo il sabato mattina come momento a disposizione in cui concentrare tutto quello che manca e che in settimana, al lavoro, non riesce a portare a termine. Così il numero di potenziali acquirenti nei giorni prefestivi raddoppia, e chi spera di sbrigare in quattro e quattr’otto una qualsiasi attività rimasta in pending da chissà quanto si trova a fare i conti con una ingiustificata invasione della terza età appiedata o, peggio, automunita che si riversa nei luoghi chiave del menage domestico medio: supermercati, esercizi al dettaglio, chioschi pubblici come la casa dell’acqua. Come se nel resto della settimana la città fosse chiusa, e quando figli e nipoti sono a scuola o al lavoro i pensionati non potessero dedicarsi alle più comuni attività quotidiane a causa di turni folli. Ma no, è che è l’unico momento, il sabato mattina, in cui si possono sentire ancora parte del tessuto sociale della comunità, anche quando ti precedono a velocità medie da trazione a pedali e tu hai fretta perché sei giovane, più o meno, e vuoi che i tempi morti, che per loro sono i momenti più corroboranti, durino il meno possibile. Ma ciò non giustifica l’uso del clacson o l’essere scontroso in attesa del proprio turno. Che prima o poi arriva, inevitabilmente per tutti.