cheeeeeeese

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Riconosco di avere il dente avvelenato verso le persone che non sorridono mai, ma confesso di non capirli proprio. Non mi riferisco ai depressi cronici, ai malinconici di carattere o tristi in generale, nemmeno quelli che soffrono e che non hanno nulla da ridere e ne hanno tutto il diritto. Ma come fai a distinguerli se non li conosci personalmente, vi chiederete. Ma sì, lo sapete benissimo anche voi. Li riconosci quelli che hanno il grugno anche se si vede lontano un miglio che non gli manca nulla, semplicemente non sorridono mai perché sono così e, cosa del tutto ricorrente, si accoppiano e si moltiplicano.

E avete fatto bene a girarvi voi tre, vi siete sentiti tirare in ballo e a ragione perché mi rivolgo proprio a voi, padre pelato a zero con uno di quei piumini corti che hanno tutti – anche alcuni compagni di classe di mia figlia, 8 anni – blu con la riga orizzontale rossa e bianca, madre con stivale con tacco e pantalone stretto dentro, figlio maggiore a cui avete concesso di portare con sé la PSP perché altrimenti si sarebbe annoiato nel seguire la sorellina nel corso di due interminabili ore di partitelle di primo volley, tre contro tre a rotazione tra otto squadre tutte con la stessa dinamica: battuta sbagliata e punto all’avversario, o battuta oltre la rete e risposta fuori o troppo alta o dalla parte opposta.

Capisco che sia una prova di amore genitoriale, ma così è e non credo che la vostra faccia da cazzo sia tale per la giornata. No, sono certo che voi siete senza sorriso sempre, vi manca proprio lo spazio sul viso per contenere una qualsiasi espressione di serenità, vi manca la materia prima stessa. Non vi rivolgete la parola se non per andare a prendere un caffé al bar di quel palasport di periferia, e anche in quel caso una richiesta cortese e amorevole si percepisce come una considerazione monocorde e sgarbata che attesta il vostro malessere nei confronti di tutto quello che avete già e che potreste ricomprarvi sempre e non solo quando si sarà rotto: il Suv parcheggiato fuori al gelo, l’iPhone da controllare distrattamente, le vacanze in Egitto o alle Maldive che di certo non si possono rompere ma che noia, ci vanno tutti quelli con la faccia da cazzo come noi e non possiamo pensare a qualcosa di diverso. In realtà non possiamo pensare proprio. E, a dirla tutta, sono pronto a scommettere su cosa avete votato alle ultime elezioni, sempre che vi siate recati alle urne, sempre che abbiate una minima idea del mondo in cui abitate immeritatamente.

largo ai giovani

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A pensarci bene sarò anche io così. Perché non c’è gusto a intabarrarsi e rischiare la salute per sbrigare commissioni nelle ore mattutine dei giorni infrasettimanali. Che tristezza poi sarebbe mettersi in auto per andare alla Coop a fare la spesa che ne so, il martedì mattina per esempio, e posizionarsi alla cassa più libera scoprendo che intorno ci siamo solo noi, la parte della società che ha fatto il suo tempo, ha smesso di essere produttiva e ora può godersi giornate svuotate dal lavoro e dai figli che oramai sono grandi e hanno la loro famiglia. Che noia sarebbe aspettare il proprio turno in farmacia tra clienti tutti un po’ già vecchietti, ognuno con il proprio problema di salute, anziché fare la fila tra mamme e papà giovani, ragazzi con a malapena un mal di gola, gente che ha solo il sabato mattina come momento a disposizione in cui concentrare tutto quello che manca e che in settimana, al lavoro, non riesce a portare a termine. Così il numero di potenziali acquirenti nei giorni prefestivi raddoppia, e chi spera di sbrigare in quattro e quattr’otto una qualsiasi attività rimasta in pending da chissà quanto si trova a fare i conti con una ingiustificata invasione della terza età appiedata o, peggio, automunita che si riversa nei luoghi chiave del menage domestico medio: supermercati, esercizi al dettaglio, chioschi pubblici come la casa dell’acqua. Come se nel resto della settimana la città fosse chiusa, e quando figli e nipoti sono a scuola o al lavoro i pensionati non potessero dedicarsi alle più comuni attività quotidiane a causa di turni folli. Ma no, è che è l’unico momento, il sabato mattina, in cui si possono sentire ancora parte del tessuto sociale della comunità, anche quando ti precedono a velocità medie da trazione a pedali e tu hai fretta perché sei giovane, più o meno, e vuoi che i tempi morti, che per loro sono i momenti più corroboranti, durino il meno possibile. Ma ciò non giustifica l’uso del clacson o l’essere scontroso in attesa del proprio turno. Che prima o poi arriva, inevitabilmente per tutti.

rete!

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Leggo di molte solitudini, momentanee o di lunga durata, lettere d’amore, disagi quotidiani sul posto di lavoro e amore per la propria professione. Leggo di piccole cronache famigliari e di intensi podcast mai trasmessi, persone che ritornano in parole da viaggi distanti. C’è che mi fa ridere ogni volta e mostra piccole parti di sé giorno dopo giorno. Chi raccoglie le voci di altri e le amplifica, chi cerca di dissertarle, chi è talmente esperto in qualcosa che non ha bisogno di essere complesso nel parlarne. C’è l’insegnante che non ho mai avuto, c’è chi mi dà sempre nuovi spunti musicali, chi spesso pubblica cose un po’ ingenue ma io gli sono affezionato, non so perché e continuo a leggerlo. Qualche giorno fa ho partecipato come tester a una prova di usabilità su un nuovo aggregatore di post che sarà lanciato a breve e mi sono state rivolte alcune domande sul prodotto che avevo davanti e su quale sia la mia idea di blog. Di fronte all’ennesimo raccoglitore di comunicati stampa e articoli privi di valore aggiunto, che secondo me poi il vero valore è il filtro di chi scrive, mi è venuta in mente la rete di persone che seguo ogni giorno tramite i feed – proprio voi – e potete immaginare come ho formulato la risposta.

il fascino della divisa, appesa al chiodo

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Il ronzio della stampante è un buon segnale, vuole dire che funziona e che la ricevuta che la dentista ha appena battuto al computer indicando il costo di questa prima tranche di cure appena terminata presto sarà nelle mie mani. Ma non c’è suspense, so benissimo a cosa vado incontro. Poco meno di trecento euro per un’ora e mezza scarsa di prestazione divisa in due incontri sembra essere uno standard, anzi, c’è chi ti assicura trattarsi di una cifra conveniente e ti chiede i dettagli sullo studio.

La dottoressa è dietro la sua postazione, io seduto dalla parte opposta della scrivania, e dato che non ho tanta voglia di parlare un po’ per quello è successo nella mia bocca e un po’ perché non ci può essere confidenza in un rapporto di questo tipo, in cui novanta minuti del suo tempo lavorativo valgono almeno quattro giorni del mio, mi guardo intorno in quella piccola show room Ikea finché l’occhio non mi si posa su un dettaglio, un particolare che mi torna molto familiare e il fatto che mi colpisca soprattutto l’anonimato di ciò che sto osservando, la facilità con cui il particolare si mimetizza nell’ambiente, significa che si tratta di una visione che capita di avere molto spesso.

Sulla parete alla mia destra, sotto una mensola, sono appesi in una fila estremamente ordinata, quasi militaresca, una decina di calendari storici dell’Arma dei Carabinieri e della Guardia di Finanza. Avete presente di cosa sto parlando, vero? Che poi non so se siano utilizzati realmente come calendari o come semplici brochure promozionali, sta di fatto che sulla copertina con quella grafica che hanno solo questo tipo di pubblicazioni è indicato l’anno, e lì, nell’ufficio della dentista, ce ne sono almeno quattro per ogni Arma, potrebbero essere quindi i calendari dal 2008 al 2012. Ognuno si distingue per una illustrazione particolare e per il soggetto, e tutti sono appesi a un gancio grazie a un cordino tricolore.

Il primo ragionamento in cui mi lancio, mentre la stampante prosegue la sua attività – tenete conto che i tempi di narrazione sono molto più lenti dello scorrere dei fatti, quindi immaginate tutto quello che vi dico mentre tutto intorno le cose accadono al rallenty, anzi, mettete pure la riproduzione sul pause – è qual è stata l’ultima volta in cui mi è capitato di vedere materiale di quel genere. Di certo nell’agenzia di assicurazioni di cui sono cliente, ma lì è facile perché l’ufficio è proprio di fronte alla caserma.

Cerco di capire quindi quale sia il motivo per cui un negozio decida di avere quei calendari e uno no, cioè non tutti mi pare li espongano, e anche il perché, se un esercizio pubblico sceglie di acquistarli o di iscriversi a qualche associazione di ex appartenenti alle forze dell’ordine, deve per forza esporli. E come funziona che un commerciante decide di aderire all’iniziativa o no, perché nel caso che mi ha indotto alla riflessione, avere una brochure della Guardia di Finanza proprio a fianco di una ricevuta in emissione, la prima cosa che uno pensa con un pizzico di malafede è che se entra qualcuno per un controllo, e vede lo sponsor in bella vista appeso alla parete con la massima importanza più della laurea o delle foto dei bambini, magari decide di essere più indulgente rispetto a chi è meno amico delle forze dell’ordine e non ha versato l’obolo, sempre che di obolo si tratti. E poi, è proprio il caso di tenere anche le annate vecchie del calendario? C’è una sorta di continuum?

In ultima istanza, ho anche pensato che, da quando li noto in negozi e uffici, e cioè da sempre, non è mai cambiata la linea editoriale, come se da sempre l’art director e i disegnatori fossero gli stessi. Ma non c’è tempo per altre domande, ora potete schiacciare play e continuare la riproduzione di quello che sta avvenendo perché la stampa della ricevuta nel frattempo è terminata e il mio contributo alla ricchezza personale della professionista in camice bianco che ho davanti si materializza in tutta la sua entità. Mi avvio, promettendomi di fare più caso agli esercenti che collezionano materiale della Benemerita e delle Fiamme Gialle e con l’impegno di sfogliare una di quelle pubblicazioni, seduto  in sala d’attesa prima della prossima visita, giusto per saperne di più.

prova questi

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Solo due righe per mettervi al corrente del fatto che negli ultimi cinque o sei anni ho consigliato i The National a un po’ di persone, amici e conoscenti di ogni tipo, e ho sempre fatto una gran bella figura. In almeno tre casi documentabili la band è schizzata direttamente al primo posto delle classifiche individuali di costoro. Ti piace vincere facile, mi direte. Ma non ne sono mica convinto, cioè comunque non sono proprio così immediati da assimilare; malgrado il sound molto rassicurante, l’impressione che ho è che il loro modo di scavare dentro metta a disagio chi è disposto solo a un ascolto superficiale. Li ritengo piuttosto ingombranti, ecco, lasciano poco spazio in un momento in cui siamo più inclini alla quantità di ascolti a causa della sovraproduzione musicale a cui ci esponiamo. E la gente pensa: ma cosa vogliono questi americani che cercano di scendere così a fondo? Non c’è tempo per questo genere di emozioni. Mi fermo qui, per risparmiarvi anche l’ennesimo tributo ai dischi in vinile in onore degli antichi e della loro tecnologia antidiluviana. In attesa che esca il nuovo album presto, magari proprio nel corso di quest’anno, metto sul piatto un disco a caso e ascolto questa.

tua!

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Mentre sui canali mainstream si celebra il nuovo singolo di Madonna, nei siti di nicchia come il mio (ehm) divulghiamo la pubblicazione di “Bad Girls”, il nuovo video di M.I.A, che i più pronunciano Maya, ma che in questo caso non giustificherebbe il titoletto che ho trovato e che ricorda una partita a “ce l’hai”, anzi potrei brevettare questo nuovo giochetto tra bloggerz: il primo che legge questo post ce l’ha, e deve passarla a qualcun altro. Anche a questo serve il duepuntozero. E comunque non è proprio una novità, questa nuova canzone di M.I.A, perché era una traccia di quel mistone di Vicki Leeckx, scaricabile e scaricato già lo scorso anno. E comunque M.I.A. compare anche nel nuovo singolo di Madonna, alla voce “Feat.” che oramai vuol dire un po’ tutto.

lo stesso tono, ripetuto

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Solo una nota: inutile dire che il clamore dello scivolone di Monti, che poi scivolone non è, mi fa sorridere perché siamo alle solite. Si prende la battuta e la si decontestualizza. E non venite a dirmi che sono di parte, che quando gli scagnozzi di quello che c’era prima speculavano filosoficamente sulle sue, di battute, era lo stesso identico modo di comportarsi che hanno quelli che, come me, minimizzano. “I giovani devono abituarsi al fatto che non avranno un posto fisso per tutta la vita. Del resto, che monotonia un posto fisso per tutta la vita, è più bello cambiare e avere delle sfide, purché siano in condizioni accettabili. E questo vuol dire che bisogna tutelare un po’ meno chi oggi è ipertutelato, e tutelare un po’ di più chi oggi è quasi schiavo nel mercato del lavoro o proprio non riesce a entrarci”. Queste sono le parole di Monti. Ora, la situazione la conosciamo tutti. In un mondo ideale uno fa il lavoro che vuole cambiando quando vuole, oggi a malapena se ne trova uno. Lo scenario ipotizzato nella frase incriminata necessita di una predisposizione alla flessibilità solo se consentita da come vanno le cose, nessuno dà dello sfigato – tanto per rimanere in tema di strumentalizzazione – a chi non trova alternative al proprio posto di lavoro che magari occupa da dieci anni, tantomeno trapela un dileggio a tutto il resto della popolazione occupata a progetto e a quella che il lavoro non ce l’ha. Quella frase condizionale introdotta dal purché spiega tutto quanto espresso prima. Ma il caso non avrebbe fatto altrettanto notizia, non sarebbe stato degno nemmeno di una sola nota.

un po’ meno piccoli

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La risposta dev’essere là fuori da qualche parte, oltre la fila di alberi che separa il giardino della scuola primaria dal settore a uso della scuola materna. In questo mattino, con l’autunno agli albori e le foglie che già cadono, non c’è nulla che trattenga l’attenzione di Livia lì dentro, tra banchi occupati da bambini sconosciuti e quelle nuove maestre che parlano di cose che lei già conosce. Livia è una bambina di mezzo, nel senso che è nata troppo tardi per l’anno prima e troppo presto per l’anno dopo, una collocazione temporale che non vorrebbe dire nulla se non si prendessero come riferimento solo i mesi centrali per convenzioni anagrafiche e quindi ci si deve adattare. La differenza talvolta però si vede: quelli nati a gennaio sono o troppo grandi o troppo piccoli rispetto agli altri, a quell’età.

Per lei è stato deciso di iniziare un anno prima la scuola primaria, i genitori hanno compiuto una scelta oculata soppesando in due colonne affiancate i pro e i contro. Se Livia ora è lì che guarda nella direzione dell’edificio a cui è stata strappata un anno scolastico prima del dovuto significa che sono prevalsi i pro, il che non significa necessariamente però che la scelta sia giusta. Di là, oltre quella fila di alberi, da qualche parte c’è il gruppetto di compagne con cui trascorreva le giornate fino a pochi mesi prima, ed è curiosa la sua ex scuola vista da dove si trova ora, da quel punto di osservazione che non aveva mai pensato potesse esistere.

La risposta però non deve essere fuori, è dentro di me, probabilmente pensa Livia, se una delle compagne le fa notare in modo molto spiritoso che la maestra sta leggendo una storia e che occorre ascoltare. Ma il mistero delle amiche che ha lasciato di là – è stata l’unica anticipataria – e di quella prospettiva inimmaginabile prima non le torna, Livia sa che lo deve risolvere in qualche modo. Ne approfitta così durante l’intervallo, dopo la mensa, da sola si reca sotto quegli alberi, sul tappeto di foglie di ogni colore, dove però scopre che c’è anche una ringhiera che separa i due giardini, prima da dentro non ci aveva fatto caso. L’avventura finisce lì.

Fortunatamente è intervallo anche alla scuola materna, così Livia riesce ad attirare l’attenzione delle sue ex compagne che corrono da lei, ma giocare separati in quel modo non si può. Se ne accorgono tutte, c’è qualcosa di innaturale, c’è un gruppo che ha dovuto rinunciare a una parte di sé ma che ha già rimarginato la ferita, c’è una bambina che ora, per chissà quale motivo, è più grande. Scambiano qualche battuta come i bambini di cinque e sei anni possono fare, quindi il gruppetto compatto torna con i propri pari. Livia sta per rientrare nella sua classe ma decide di perdersi nei suoi pensieri, come spesso le accade quando si distrae mentre cammina da qualcosa che vede. Si ferma e fissa le foglie, poi guarda su a valutare quante ne cadranno quel giorno, saltella un po’ sulle radici, sfiora le cortecce. Stringe a sé tutto quello che ricorda di come era la vita prima, direbbe un adulto, magari suo padre.

Dentro, nell’aula, una delle maestre segue alla finestra quella bambina che sa già un sacco di cose malgrado sia lì un anno prima del dovuto, conosce nomi di animali e di alberi di tutti gli ambienti naturali. Così, in forma di battuta, mette in allarme la collega che ha coinvolto come spettatrice, dicendole di essere preoccupata: Livia starà sicuramente riflettendo su quelle piante o sulle stranezze del mondo vegetale, occorre tenersi pronte a una domanda molto specifica alla quale sarà difficile rispondere, nemmeno guardando fuori.

il centouno modello

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Come tutti voi saprete già, la rivista Rolling Stone per festeggiare i 100 numeri ha pubblicato la classifica dei 100 migliori album di musica italiana dalla nascita del rock ad oggi, un’impresa di per sé estremamente complessa, se non impossibile, come tutte le altre liste simili e le top metteteilnumerochevolete di ogni sorta. In questo caso, poi, la classifica non è stata stilata dai giornalisti che vi scrivono, bensì da un gruppo di giurati trasversale. Quindi non si tratta nemmeno dell’espressione di una redazione, piuttosto vorrebbe essere il più vicino possibile a un ipotetico suffragio nazionale.

Per prima cosa, lasciatemi dire, sono rimasto allibito dal non essere stato interpellato tra i giurati, pur avendone pieno diritto in quanto persona più informata in ambito musicale che io conosca. A parte questo, voglio dire, potrebbe anche essere l’ennesimo malfunzionamento delle Poste italiane, la top one hundred in questione presenta due vergognose lacune, che gli organizzatori dell’iniziativa fanno addirittura rientrare nei criteri di base. Intanto, la scelta dei giurati. Ad alcuni di questi individui non chiederei nemmeno che ore sono, figuriamoci considerarli opinion leader in ambito musicale. In secondo luogo, il veto a indicare più di un album per artista o gruppo, stesso criterio utilizzato per stilare l’elenco finale. Potete immaginare il motivo del mio disappunto, ma vi dico lo stesso che solo la discografia di gente del calibro dei CCCP o dello stesso De Andrè, tanto per esercitare la mia consueta volontà di raccogliere consensi e clic ubiquamente, occuperebbe una larga percentuale delle prime 30 posizioni.

Ma, considerando il coraggio con cui la rivista si è esposta, e l’intelligente idea di creare addirittura una e-mail manonavetemesso@eccetera per tenere viva la discussione, malgrado i grandi assenti e i monotoni bamboccioni sfigati e raccomandati che occupano immeritatamente alte posizioni, tutto sommato possiamo anche promuovere l’iniziativa solo a condizione che mi sia concesso non (badate bene) di preparare la mia personale lista anche solo in un moderatissimo ordine alfabetico dei nonsoancoraachenumeroarrivo dischi italiani di cui non si può fare a meno, perché mi ci vorrebbero mesi, magari inizio ora e ci vediamo questa primavera. No, semplicemente lasciatemi postare qui sotto una canzone molto interessante di un gruppo da cui mi aspettavo tanto ma che in realtà, pubblicato l’ep che conteneva il brano in questione, puff, è sparito nel nulla. Alla posizione centouno ecco a voi i Petrol, che, se ci sono, che battano un colpo.

vada a bordo, cazzo!

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Ci sono alcune locuzioni che negli ultimi tempi vanno per la maggiore, nel mio ambiente. Una lista esemplificativa sebbene parziale comprende metterci la faccia, perdere la stessa, avere le spalle coperte, cadere in piedi.

Se immaginiamo un’impresa come un organismo composito, il capo nel senso di testa, che per una amara coincidenza ha la stessa denominazione della funzione aziendale posta alla guida del suddetto organismo, è dotato di un sistema periferico che svolge la funzione di punto di contatto con l’esterno, che io chiamerei interfaccia se il suo nome non fosse per l’appunto faccia e desse adito a impressioni di scarsa attenzione da parte mia alle ripetizioni nel testo. E per convenzione è quello che il sistema in cui un’impresa opera vede. In questo senso si dice metterci la faccia, no? Il capo nel senso di amministratore dell’impresa fornisce l’energia a tutti gli organi sottostanti per muovere tutto il macchinario nel suo ambiente, che per essere corretti dovremmo chiamare mercato, in teoria al meglio delle sue possibilità. Non sto inventando nulla, sia chiaro, è un po’ il celebre apologo di Menenio Agrippa, quella favoletta che avrete studiato come me alle elementari.

Ci sono però numerose, anzi, infinite variabili in queste dinamiche interne: quanta energia il capo fornisce e in che termini, le condizioni atmosferiche, gli sgambetti del prossimo, le parti interne guaste per le quali a volte ci si ferma nei box, e così via. Ogni espressione che la faccia lassù assume è un messaggio comunicato al resto del mondo. Se le cose vanno male, si dice che chi ci mette la faccia la perde, una delle possibili – la peggiore – vie in cui si esercita il rischio di impresa, le cui responsabilità sono altresì diverse e da ricercare nei settori che non hanno funzionato, capo compreso, anche qui con tutte le molteplici cause che non sto ad elencare. Ma, e c’è un ma, anzi ce n’è più di uno, perché può succedere che il corpo – che chissà perché me lo figuro come Frankenstein con il suo cervello AB-normal mentre danza sulle note di “Puttin’ on the ritz” seguendo i passi dettati da uno scienziato pieno di sé, coprendosi di ridicolo con gli spettatori, ma forse sono solo suggestionato dal fatto che ho introdotto mia figlia al culto del film in questione di recente e con suo sommo divertimento – dicevo, il corpo a un certo punto subisca un mancamento, tutto gira intorno e non riesce più a reggersi sulle proprie gambe.

Ed ecco il perché delle altre due locuzioni, ricche peraltro di analogie con la metafora in cui mi sto perdendo, chiedo scusa. Può essere che il capo, nel senso di vertice aziendale, abbia le spalle coperte e decida di spalmare altrove quel rischio di cui dovrebbe farsi carico, anzi se ne fotta proprio, per evitare inutili giri di parole. Cadere in piedi è la conseguenza: mi immagino il capo, ma nel senso di testa, che si stacca da quel pot-pourri di risorse umane in preda al panico in fin di vita e si proietti nello spazio con la sua navicella di salvataggio per atterrare in un pianeta lontano, in alcuni casi è sufficiente un paradiso fiscale, mentre il resto del corpo stramazza al suolo inerme, fine della corsa, potete trasformarvi in humus quando volete, grazie e arrivederci, la nostra responsabilità è limitata. Ma ora, con un solo euro, potrete provare anche voi la stessa ebbrezza. Chiudo con un siparietto comico giusto per tirarci su il morale.