la grande fuffa del rock'n'roll

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Ieri pomeriggio non so se siete passati alla Galleria Sozzani e avete visto quel tizio con i capelli sale e pepe mentre spiegava a sua figlia dodicenne la differenza sostanziale tra il punk modaiolo, mediatico e commerciale (nel senso che ha fatto fare un sacco di soldi a un bel po’ di gente) dei Sex Pistols rispetto a quello impegnato e struggente dei Clash rispetto ancora a quello più complesso e già post-se stesso dei Damned di Dave Vanian. Una sorta di conferenza uno a uno che poi ha riguardato la spinosa e controversa questione del punk italiano. C’è stato? Non c’è stato? Se si, stiamo parlando del punk dei figli dei ricchi milanesi come le Kandeggina Gang o quello turbolento e di strada che però qui identifichiamo con l’hardcore? Dobbiamo festeggiarne anche in Italia i quarant’anni?

Comunque quel ciarlatano borioso che vaneggiava di cose sentite dire e indicava Siouxsie di qua e Billy Idol di là ero io e se volete visitare la mostra Punk in Britain prima che il Brexit sia retroattivo e si prendano tutto anche i nostri ricordi avete tempo sino al 28 agosto. E ancora il fatto che una mostra fotografica sul punk sia ospitata in uno dei posti meno punk del mondo come 10 Corso Como la dice lunga, non a caso ampio spazio è dedicato alla coppia Malcom Mc Laren/Vivienne Westwood, che stanno al punk di This is England (il film ma anche il pezzo dei Clash) come Bertinotti al comunismo. I salotti culturali è bene comunque frequentarli così ci si rende conto che cosa possiamo permetterci e cosa no, resta il fatto che essere miliardari e intellettuali e fare shopping in posto così c’è da prendersi un bel po’ di soddisfazioni. Non so cosa sia rimasto a mia figlia della mia lectio magistralis, nell’insieme mi sembra esser stata un’esperienza fruttuosa per entrambi. So invece cosa è rimasto al guest book della mostra di me: se cercate con cura troverete una rudimentale riproduzione del logo della Alternative Tentacles che, a mio giudizio, rappresenta una delle eredità migliori di tutta l’esperienza punk, guarda caso a San Francisco dove il Brexit a Jello Biafra non gli può fare nulla.

se non hai i soldi almeno tramanda ai tuoi figli il meglio di te

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La recrudescenza del fenomeno di certe band che proprio non ne vogliono sapere di cambiare mestiere e che, di riffa o di raffa, tra uno scioglimento o uno che se ne va e poi ritorna comunque continuano a sformare dischi con più o meno assiduità da trenta, quaranta e, ma mi pare sia un caso unico, cinquant’anni, ha anche i suoi lati positivi. Caterina e Matteo di anni ne hanno poco meno di venti e si sono conosciuti sotto il palco di un concerto di un gruppo che, quando sono nati, era già in piena parabola discendente. Matteo è un fan fidelizzatissimo e con lo stesso atteggiamento nerd che contraddistingue quelli della sua generazione. Ha tutti i cd ma poi si è ricomprato tutti i vinili e, se la tecnologia glielo consentisse, acquisterebbe anche le cassette originali. Alimenta un canale su youtube in cui ha raccolto tutte le testimonianze video disponibili in rete, partecipa attivamente a forum e alle numerosissime pagine Facebook dei tipi come lui e così via. Anche Caterina è sul pezzo, non con questa metodicità ma con analoga serietà. Conosce molti dei testi delle loro canzoni a memoria, non è una sprovveduta in fatto di aneddoti sui membri della band e non è certo la prima volta che spende fior di quattrini per un loro concerto.

Caterina e Matteo vivono a una ventina di km di distanza e non si erano mai incontrati fino a quando, davanti alle transenne oltre le quali accedono solo gli addetti alla sicurezza, i fotografi, gli spettatori che si sentono male per il caldo e i paraculi, sono stati compressi dalla ressa e si sono trovati appiccicati in una posizione così intima che sarebbe stato un vero peccato non sfruttare. La loro – diciamo – storia d’amore è ancora acerba e quindi c’è ben poco da scrivere, ma c’è di più. Parlando delle reciproche vite viene fuori che la mamma di Matteo e il papà di Caterina erano amici ai tempi dell’università. Il fatto che entrambi amassero lo stesso complesso che ora è seguito dai figli è un dettaglio che potete considerare un’ovvietà, d’altronde da qualcuno dovevano pur prendere. Ma il bello è che i due genitori ai tempi avessero flirtato senza concludere, e se ci aggiungete che oggi sono separati e liberi sentimentalmente potete immaginare come va a finire la storia.

Questa cosa che unisce musiche, destini e passioni e le convoglia alla faccia delle barbarie e degli scempi che il tempo esercita sulle persone la trovo veramente poetica e, per dirvi quanto, sappiate che ho rinunciato a una metafora più prosaica per rappresentare il concetto. Mi stavo immaginando infatti questi fattori (musiche, destini e passioni) come cavi che, per puro scopo protettivo, vengono inseriti in canaline per tutto il percorso della storia fino a destinazione, come si fa per i cablaggi degli impianti e per fare ordine nelle connessioni, ma poi ho pensato che così avrei rovinato tutto. Faccio quindi solo un cenno a una cosa in tema che è capitata anche a me. Lo scorso sabato mia figlia ha voluto, come calzature per affrontare la stagione a venire, il suo primo paio di anfibi neri, e vi giuro che né mia moglie né il sottoscritto ne abbiamo caldeggiato la scelta. Se ci aggiungete il fatto che il suo look sta virando sempre più verso il nero potete avere un assaggio del mio stato d’animo. Da una parte c’è il cieco orgoglio di aver trasferito certe caratteristiche (completamente inutili per una realizzazione personale adulta, sia chiaro) senza il minimo sforzo educativo, voglio dire non è che a cinquant’anni vado in giro ancora conciato come Robert Smith, quindi si tratta di un’esigenza di espressione della sua personalità tutto sommato genuina. Dall’altra c’è il timore che poi questo vezzo nell’abbigliamento alla lunga non solo porti alla nausea del nero (a me era successo proprio questo) ma complichi anche i criteri di apprezzamento cromatico e non solo per quel che riguarda pantaloni o giacche o scarpe. Ma ogni tanto tutti noi subiamo qualche rigurgito che chissà da dove viene. Di questi tempi, in cui Dr. Martens alte e basse e persino le Creeper sono tornate prepotentemente alla ribalta (pur avulse del significato culturale che avevano quando le indossavamo noi), vederne il tripudio in tutte le vetrine dei negozi di scarpe mi ha fatto venire un certo languorino.

la guerra di Piero

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In natura esistono solo due elementi che, in condizioni di transizione di fase, accelerano il moto delle particelle a causa del fenomeno fisico della distorsione (o saturazione) favorendo la sublimazione dell’aggressività dei corpi: l’heavy metal e il punk. Solo alcuni studiosi ammettono il grunge in quanto non-metallo, d’altronde è un materiale artificiale composto dall’aggregazione di molecole dei due elementi di cui sopra, e questo da parte mia è un commento tutt’altro che negativo. In molti sono pronti a dare la propria preferenza all’ultimo arrivato della famiglia dei generi ribelli, e tra i tre oggettivamente rientra anche il mio di plauso, nel senso che con il punk ci sono cresciuto ma quello un po’ ravattone nel senso di suonato a cazzo lo evito come la peste. Abbiamo già discusso altrove su quanto sarebbe bello mettere alla batteria di un qualsiasi gruppo punk gente del calibro di Dave Grohl. E lasciate stare i Clash, che sono punk solo nell’approccio. L’heavy metal, invece, lo sapete anche voi, è la mia bestia nera.

Tutto questo per dire che i due elementi naturali e ben distinti che da due o tre generazioni occupano i sogni di trasgressione di giovani e meno giovani sono nati comunque rivolti a due target molto differenti: quelli che suonano male ma che comunque devono esprimersi in un’attitudine molto affascinante quanto anarcoide da una parte, e quelli che sprizzano tecnica da tutti i pori finalizzata alla violenza musicale. I metallari, ci siamo capiti. Qualche sera fa – vi giuro che è stata la prima volta – mi è capitato di seguire una puntata di The voice of Italy. Non preoccupatevi, siamo ancora alle selezioni, se non ho capito male la dinamica del gioco che comunque è sulla falsa riga di X-factor. Tra i giudici del talent c’è il caro vecchio Piero Pelù, voce dei Litfiba che poi sono uno dei gruppi italiani che ho amato di più ma solo nella fase fino a “17 re”, il resto ve lo lascio senza problemi. I Litfiba degli esordi sono facilmente categorizzabili nel filone post-punk, quindi più della famiglia dei musicisti scarsi e di quel versante lì. E io me lo sono sempre immaginato più affine come gusti a quello che ascolto io, quindi sicuramente nel quadrante del rock tecnicamente disimpegnato e del post-punk, anche se ho seguito con la coda dell’occhio la deriva tamarra che da Cangaceiro in poi Pelù ha preso, secondo me non per colpa sua. Ora, sapete come funziona The voice of Italy. I giudici ascoltano i candidati e poi, se sono di loro gradimento, cercano di attirarli nella propria scuderia per tentare la vittoria del gioco con il favore del pubblico. Il ruolo assegnato a Pelù, tra gli altri giudici che sono J-Ax, Noemi e DJ Francesco con suo papà, è quello di aggiudicarsi le voci più rocckettare, tra look e gestualità degne del peggio metal anni 80. Nella puntata che ho seguito si è presentata una ragazza che sembrava uscita da un video degli Scorpions e indovinate sotto le ali di quale mentore si è accomodata. Quello che non ho capito, in conclusione, e che chiedo a voi è: da che parte sta Piero Pelù? Sta con i capelloni cotonati e dalle chitarre a V oppure con i Clash?

il turismo musicale, a partire dall’Isola di Wight

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L’unico vantaggio è che un viaggio a Seattle è impegnativo, soprattutto economicamente, e se consideri che ci vai per un avvenimento di cui si celebra il ventennale in questi giorni devi proprio avere dei soldi da buttare via. Voglio dire, una vacanza negli Stati Uniti resta comunque un’esperienza fuori dal comune, ma come fai ad andare da mamma e papà a chiedergli i soldi – e quanti soldi – per vedere l’urna cineraria di Kurt Cobain, ammesso che sia a Seattle, ammesso che sia visibile in qualche luogo pubblico, ammesso che sia stato cremato, ammesso che sia di culto come la tomba di Jim Morrison al Pére-Lachaise.

Vi chiederete perché consideri un vantaggio tutto ciò. Questo tipo di turismo che non saprei come altro definirlo se non rock o giovanilistico è una cosa un po’ così, un retaggio che ci portiamo dietro da decenni. A partire da Londra che è stata meta di diverse generazioni, ma lì il problema è Londra in sé che se non è il centro del mondo ci si avvicina abbastanza. Ci sono andati e ci si sono trasferiti beat, mod, hippy, capelloni, punk, new wave e gotici, neo-psichedelici e technofili fino all’arrivo dei russi che con la musica non hanno nulla da spartire ma hanno fatto piazza pulita con i loro milioni di miliardi.

Poi Amsterdam, città di cui la musica è appunto un di cui ma ditemi voi chi non c’è mai andato per divertirsi un po’, come quel mio amico che ha scelto proprio la città olandese come destinazione del suo primo volo in aereo e per affrontare al meglio il battesimo dell’aria si è calato non so quale acido prima dell’imbarco. In Svizzera ci andavano invece quelli che con le pasticche tiravano fino all’alba del giorno successivo al giorno dopo dell’inizio del rave party, chissà se è ancora così. Berlino aveva il fascino del sentirsi divisi da un muro, crollato il quale è subentrato il fascino del sentirsi divisi dal resto del mondo, tanto è avanti. E così via.

Ma in questo calderone delle peregrinazioni musicali tuttavia non mancavano i rischi, c’erano culture che comunque non amavano l’essere considerate fenomeni da baraccone, e come dargli torto. I meno fortunati da questo punto di vista erano i Rasta di casa nostra, che rispetto ai giamaicani avevano alcune caratteristiche ampiamente dicotomiche. Poi sapete com’è, in certi contesti di indigenza ci mancano solo quelli che spendono per sentirsi vicini alla miseria, che è un controsenso. Aggiungici poi il colore della pelle palesemente diverso, magari come sfondo di capigliature artificiosamente somiglianti a quelle originali, e l’equivoco tra blasfemia e partecipazione sentita ai valori comuni è facile da manifestarsi. Un gruppo di amici che conosco ha rischiato di brutto in qualche periferia di Kingston, è bastato un gesto poco consono a un rito locale compiuto in totale ingenuità a scatenare una sommossa popolare nei loro confronti, e se la sono cavata solo per le condizioni fisiche che gli hanno permesso di scappare più veloci degli inseguitori, che meno male che non erano della stessa tempra di Bolt.

Ma il culto dei disagi altrui che molti fraintendono per liberazione da qualcosa di occidentale che invece i non occidentali pagherebbero per avere, se avessero abbastanza soldi per farlo, non sempre è inteso come solidarietà. Questo anche nella civile Europa, e se volete le prove vi metto in contatto con uno che, nell’underground londinese, si è preso una testata e un fuck off fucking italian o qualcosa del genere da un tizio con la maglietta dei Crass perché all’anarchia, in fondo, noi di queste parti non siamo tanto avvezzi.

il futuro non è scritto e non è un modo di dire

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Il mio vicino di casa era una specie di punk, questo verso la fine dei 70 e rotti. Usciva di casa con i capelli rasati e il bomber blu sulle spalle, bretelle e  scarpe da tennis in pessime condizioni che se non fosse stato per quelle avresti detto che era uno skin, anche se allora gli skin erano punk come gli altri qui in Italia. Era una specie di punk e c’erano giorni in cui ascoltava con lo stereo musica punk e mi mettevo sul ballatoio che la mia famiglia condivideva con la sua per capire che musica fosse, perché sapevo del punk da trasmissioni come “Odeon – Tutto quanto fa spettacolo” che nel calderone del tutto quanto fa spettacolo e le prime tette in prime time aveva anche fatto passare un servizio sui Sex Pistols, che però del punk di strada e di quello che sarebbe diventato Oi aveva ben poco.

Lui però non ascoltava quella merda. Era più sul versante Jello Biafra e Ramones, e poi alcune band locali che i punk della zona seguivano come i Drull e i Total Crash. La sua famiglia era strana. Il fratello grande aveva i baffi e una pettinatura classica per i tempi, sembrava uscito da quelle foto che i barbieri appendevano sulle vetrine dei loro negozi. Giocava a tennis e gli piacevano le donne. Il minore invece aveva grosso modo la mia età e passavamo i pomeriggi a sparare palline di stucco con le cerbottane ai piccioni del cortile o ingaggiavamo battaglie con un vicino di fronte un po’ più grande di noi, coalizzandoci due contro uno. I vicini di sotto si lamentavano per le palline di stucco che, cadendo, sporcavano la biancheria stesa. Non era un nostro problema. Passavamo addirittura i momenti di tregua cercando i proiettili del nemico appiccicati sui vasi delle piante o sulla grondaia, che staccavamo e riutilizzavamo come materiale da lancio.

Mentre noi eravamo in piena pre-pubertà, insomma la nostra infanzia era agli sgoccioli, il fratello di mezzo, quello punk, si incontrava con quelli della sua ghenga in piazza Diaz, proprio sotto il colonnato del teatro. Nessuno passava di lì perché facevano paura, alcuni già si facevano di eroina e c’era sempre il rischio che qualcuno si facesse avanti per cercare la rissa, chiedere spiccioli, provocare i passanti. Io mi sentivo al sicuro solo se c’era il mio vicino mischiato nel gruppo e che sarebbe stato pronto a far desistere gli altri punk dall’importunarmi, i ragazzini come me erano bersagli facili. Poi una volta invece è successo e lui ha fatto finta di niente e così sono scappato. Ma se devo dir la verità, forse si tratta di un falso ricordo, una di quelle situazioni che a furia di figurartele poi passano gli anni e li confondi con i ricordi veri e propri.

Il problema era che praticamente tutti si facevano, quindi non potevi imputare a certi mentre ad altri no i comportanti deviati perché si deviava tutti insieme, era una società che andava dalla parte sbagliata e dico questo naturalmente a seconda del punto e del momento in cui la guardi. Oggi che siamo qui a premere pulsanti ci sembra tutta una follia collettiva. Ieri che era normale spararsi addosso no. E infatti non devono essere trascorsi nemmeno tanti anni che poi quel nucleo di irrequieti si è dissolto. I pochi più radicali degli altri sono diventati rudeboy a tutti gli effetti, qualcuno forse è dato per disperso ma la maggior parte ha scollinato verso la tossicodipendenza standard. L’eroina più importante della musica, della rivolta, del cazzeggio anarcoide, di tutto il resto.

I Total Crash avevano fatto poi da supporter ai Ramones e i Drull avevano pubblicato un paio di pezzi in una compilation di punk italiano. Tutto questo mentre il mio vicino di casa era stato mandato lontano dalla città e da Piazza Diaz come si faceva ai tempi, che non ho mai capito come potesse servire il semplice allontanare le persone dalle loro abitudini quando queste sono diffuse ovunque e facilmente ricostruibili indipendentemente dall’ubicazione geografica. In qualunque posto si poteva trovare eroina nel giro di un quarto d’ora. E una volta sparito dalla circolazione, erano passati più o meno due anni da quando facevamo le battaglie con la cerbottana, anche il fratello più giovane che era appunto quello che giocava con me aveva anche lui cominciato con la droga. Per non parlare del dirimpettaio, il nostro nemico comune delle battaglie da cortile, che poi a un certo punto era sparito, qualcuno diceva fosse finito in comunità. Ma capita che qualcuna di quelle facce conosciute si intravedano ancora. Non sempre il decorso dell’eroina è coinciso con l’epilogo peggiore, qualcuno si è salvato per un pelo, altri li incontri e non lo diresti mai. Il vicino ex punk ora è un normale padre di famiglia, ha la barba bianca, scende le scale di corsa come quando si precipitava a raggiungere gli altri in piazza, con le scarpe da tennis rotte e il bomber blu sulle spalle.

punk’s not dead

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la paura fa novanta

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Lo avete sentito? C’è stato un terremoto, è durato un attimo, ma in quell’attimo abbiamo iniziato a suonare il jazz mettendo il campionatore sotto agli strumenti a fiato, i gruppi punk avevano strumentisti tecnicamente dotati e batteristi della madonna, che poi era quello che mancava al punk del 77, e il reggae lo si suonava senza marcare il levare, solo immaginandolo. È durato poco, poi i musicisti hanno perso l’interesse e hanno acceso il pc.