qualche anticipazione sulla prossima puntata di "50 anni e New Wave"

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Scusate il post a rischio spoiler ma il programma “50 anni e New Wave” – il cui titolo è azzeccato perché fa un po’ il verso a “16 anni e incinta” in quanto ne evidenzia il paradosso oltre a ripercorrere la stessa struttura sintattica – mi sta prendendo di brutto e le peripezie della compagine di post-punk brizzolati messi alla berlina dal nuovo format che sta spopolando in questa stagione televisiva credo sia giusto condividerle con voi che, fan quanto me, vi meritate il massimo dall’esperienza di visione.

Nella scorsa puntata abbiamo lasciato Roberto alle prese con la difficoltà di trovare un modello di Creeper numero 46 sufficientemente larghe da non fargli male all’alluce valgo sia destro che sinistro. Sembra che un artigiano di Firenze, un fan della vecchia guardia di Neon e Diaframma, si sia offerto di realizzargli a mano le scarpe con una speciale forma adatta al contenimento del valgismo e in grado di ospitare perfettamente il plantare per il piede piatto, malgrado la punta che comunque è d’obbligo per un modello così inconfondibile.

Paolo ha accettato il consiglio della make up artist del programma di non cotonarsi più il riporto come Robert Smith e nell’episodio in onda domani lo si vedrà alle prese con un collasso dovuto al pogo improvvisato quando all’Esselunga, a un hipster che si approssimava al banco carni, è squillato lo smartphone ed è partita la riconoscibilissima suoneria che è “Believers of the Unpure” dei Christian Death.

Chiara e Rossana hanno fatto la scorta di pastiglie per la pressione alta che conservano nel consueto porta-pillole nero con il logo della Alternative Tentacles di Jello Biafra, che però non contiene più pasticche per i divertimenti artificiali come ai tempi d’oro degli acidi prima del weekend. Nella nuova puntata vi daranno qualche dritta su come conciarsi gli occhi alla Siouxie malgrado borse da menopausa e zampe di gallina.

Dario invece cercherà di risolvere i problemi con l’insegnante di greco e latino della figlia che, come sapete, frequenta un Liceo Classico stra-impegnativo e non ne vuole sapere di come hanno trascorso l’adolescenza i suoi genitori e i loro amici completamente fuori di melone. A lei piace studiare ma la sua prof, che negli anni 80 era una ciellina tutta casa chiesa e università, si ricorda di quella banda di nichilisti balordi (oggi tutte star del reality show) quando erano giovani, e tenta di sfogare il suo disprezzo sulla sua alunna che, come è facile immaginare, non ne può niente delle colpe di mamma e papà ma anzi cerca in ogni modo di tenere le distanze.

Danilo infine continua la sua dieta per evitare che la foto dei Devo che campeggia sulla sua t-shirt preferita non sembri un quadro di Botero, che già un po’ lo sembra lui, ma buttare giù la pancia a cinquant’anni non è così semplice, così lo vedrete girare tra gli scaffali di “Inferno e Suicidio” (il negozio è stato ricreato ad hoc come allora e sembra davvero di essere nel 1984) nella ricerca di un capo di abbigliamento alternativo perché gli sceneggiatori lo hanno convinto che il nero slancia ma nel suo caso la vedo veramente dura.

con la precisione è più facile essere pazienti

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Il mio nuovo dottore è di una puntualità commovente. È subentrato a uno dei medici di base andato in pensione da poco. Gli ha lasciato il posto e anche l’ambulatorio. Sono sparite però le stampe con le divise degli eserciti storici anche se, al loro posto, ci sono altre anticaglie di eguale bruttezza. Questa è l’unica occasione di modernizzazione mancata, perché per il resto le cose vanno molto meglio, a partire proprio dagli appuntamenti. Quando c’era il precedente dottore ogni visita era un dramma perché si sforava di più di un’ora. Mi dava appuntamento alle sei e trenta, io arrivavo alle sei perché dal dottore non si sa mai, e uscivo dallo studio almeno alle otto meno un quarto. La prima cosa che i pazienti chiedevano, entrati nella sala d’aspetto, ancora prima di dire buonasera, era l’ora degli appuntamenti degli altri per avere un’idea del margine di ritardo. Il problema del precedente dottore infatti era la difficoltà di organizzazione e la mancanza della capacità di previsione della durata media delle visite. Poi entravi e, cosa che per gli ipocondriaci era assai controproducente, finiva che il dottore si convinceva del’interpretazione delle condizioni fisiche che davano i pazienti di sé. Il nuovo dottore invece è giovane non tanto di età (mi pare sia mio coetaneo) quanto di approccio alla professione e ha competenze che lo fanno sembrare un laureato in ingegneria gestionale. Tende all’essenziale durante la visita pur essendo estremamente rigoroso, con il risultato che gli appuntamenti che dà spaccano il secondo. Quando prenoti al telefono ti chiede cosa ti occorre e, in base alle informazioni raccolte, probabilmente comprende di quanto tempo hai bisogno. L’appuntamento è alle sette, arrivi alle sette meno un quarto perché dal medico non si sa mai e alle sette ti chiama dentro. Restano però invariati gli accostamenti di pazienti. In sala di attesa continuano a capitarmi, anche se per un lasso di tempo nettamente inferiore a prima, persone molto diverse da me. Nessuno con la maglietta dei Joy Division, per dire, ma tanta gente che guarda sullo smartphone video di test di automobili o di cuccioli di cani allattati con il biberon.

se non hai i soldi almeno tramanda ai tuoi figli il meglio di te

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La recrudescenza del fenomeno di certe band che proprio non ne vogliono sapere di cambiare mestiere e che, di riffa o di raffa, tra uno scioglimento o uno che se ne va e poi ritorna comunque continuano a sformare dischi con più o meno assiduità da trenta, quaranta e, ma mi pare sia un caso unico, cinquant’anni, ha anche i suoi lati positivi. Caterina e Matteo di anni ne hanno poco meno di venti e si sono conosciuti sotto il palco di un concerto di un gruppo che, quando sono nati, era già in piena parabola discendente. Matteo è un fan fidelizzatissimo e con lo stesso atteggiamento nerd che contraddistingue quelli della sua generazione. Ha tutti i cd ma poi si è ricomprato tutti i vinili e, se la tecnologia glielo consentisse, acquisterebbe anche le cassette originali. Alimenta un canale su youtube in cui ha raccolto tutte le testimonianze video disponibili in rete, partecipa attivamente a forum e alle numerosissime pagine Facebook dei tipi come lui e così via. Anche Caterina è sul pezzo, non con questa metodicità ma con analoga serietà. Conosce molti dei testi delle loro canzoni a memoria, non è una sprovveduta in fatto di aneddoti sui membri della band e non è certo la prima volta che spende fior di quattrini per un loro concerto.

Caterina e Matteo vivono a una ventina di km di distanza e non si erano mai incontrati fino a quando, davanti alle transenne oltre le quali accedono solo gli addetti alla sicurezza, i fotografi, gli spettatori che si sentono male per il caldo e i paraculi, sono stati compressi dalla ressa e si sono trovati appiccicati in una posizione così intima che sarebbe stato un vero peccato non sfruttare. La loro – diciamo – storia d’amore è ancora acerba e quindi c’è ben poco da scrivere, ma c’è di più. Parlando delle reciproche vite viene fuori che la mamma di Matteo e il papà di Caterina erano amici ai tempi dell’università. Il fatto che entrambi amassero lo stesso complesso che ora è seguito dai figli è un dettaglio che potete considerare un’ovvietà, d’altronde da qualcuno dovevano pur prendere. Ma il bello è che i due genitori ai tempi avessero flirtato senza concludere, e se ci aggiungete che oggi sono separati e liberi sentimentalmente potete immaginare come va a finire la storia.

Questa cosa che unisce musiche, destini e passioni e le convoglia alla faccia delle barbarie e degli scempi che il tempo esercita sulle persone la trovo veramente poetica e, per dirvi quanto, sappiate che ho rinunciato a una metafora più prosaica per rappresentare il concetto. Mi stavo immaginando infatti questi fattori (musiche, destini e passioni) come cavi che, per puro scopo protettivo, vengono inseriti in canaline per tutto il percorso della storia fino a destinazione, come si fa per i cablaggi degli impianti e per fare ordine nelle connessioni, ma poi ho pensato che così avrei rovinato tutto. Faccio quindi solo un cenno a una cosa in tema che è capitata anche a me. Lo scorso sabato mia figlia ha voluto, come calzature per affrontare la stagione a venire, il suo primo paio di anfibi neri, e vi giuro che né mia moglie né il sottoscritto ne abbiamo caldeggiato la scelta. Se ci aggiungete il fatto che il suo look sta virando sempre più verso il nero potete avere un assaggio del mio stato d’animo. Da una parte c’è il cieco orgoglio di aver trasferito certe caratteristiche (completamente inutili per una realizzazione personale adulta, sia chiaro) senza il minimo sforzo educativo, voglio dire non è che a cinquant’anni vado in giro ancora conciato come Robert Smith, quindi si tratta di un’esigenza di espressione della sua personalità tutto sommato genuina. Dall’altra c’è il timore che poi questo vezzo nell’abbigliamento alla lunga non solo porti alla nausea del nero (a me era successo proprio questo) ma complichi anche i criteri di apprezzamento cromatico e non solo per quel che riguarda pantaloni o giacche o scarpe. Ma ogni tanto tutti noi subiamo qualche rigurgito che chissà da dove viene. Di questi tempi, in cui Dr. Martens alte e basse e persino le Creeper sono tornate prepotentemente alla ribalta (pur avulse del significato culturale che avevano quando le indossavamo noi), vederne il tripudio in tutte le vetrine dei negozi di scarpe mi ha fatto venire un certo languorino.

ce li laviamo in casa

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Possiamo considerare una specie di social network ante-litteram l’usanza di certe culture in cui si stende il bucato in pubblico senza nessun pudore. Mostrare a degli sconosciuti gli indumenti personali se non la biancheria intima ha lo stesso significato di sbandierare i cazzi propri a cani e porci in Internet. Chi si è mosso lungo diverse latitudini del nostro paese sa che ci sono aree geografiche in cui l’ostensione di mutande e calzini ai passanti è più frequente che in altre e probabilmente si tratta di un fenomeno la cui popolarità è inversamente proporzionale al tasso di umidità presente nell’aria, avete capito dove voglio andare a parare. O invece è solo una questione di anacronismo: quando ero ragazzino si badava meno ad alcuni aspetti di decoro pubblico e il fatto che vivessi in una regione – la Liguria – in cui la cura degli spazi comuni e l’estetica outdoor vengono all’ultimo posto rispetto ad altri discutibili fattori considerati principali è solo una coincidenza. A Milano forse bisogna recarsi in certi quartieri più naif, diciamo così, perché di questi tempi, almeno qui, non mi è mai capitato di notare panni messi ad asciugare fuori, anche perché non credo che con l’aria che tira e le polveri sottili ne guadagnerebbero in pulizia. Ma non voglio fare la solita morale da trombone sul senso civico, anzi secondo me è un peccato che si tratti di una pratica non più in auge. Senza il bucato esposto non si possono più individuare le famiglie orgogliosamente sportive in cui la sequenza di tute, abbigliamento tecnico, calzettoni da calciatore, ginocchiere, guanti da portiere e tenute da running messe al sole la diceva lunga su priorità e stile di vita dei componenti. Oppure certe curiosità che alcuni capi di underwear striminziti suscitavano negli osservatori più morbosi (non guardatemi così, sto solo inventando di sana piante eh) con la speranza che la proprietaria prima o poi si decidesse a ritirarli asciutti. In occasione di eventi particolari, addirittura capi di stato ed esponenti delle istituzioni si sono mobilitati per disincentivare la suddetta formula in contesti urbani in forma di rispetto per la visita di rappresentanti di altre civiltà. Comunque prima che inventassero gli stendini da interno da posizionare nella vasca da bagno o nelle stanze adibite a lavanderia, che in contesti più comuni non è raro trovare nelle camere da letto o in promiscuità con gli arredi del soggiorno, risultava molto facile capire la residenza di gente come noi proprio dai vestiti appesi fuori: pullover neri, camicie nere, pantaloni neri, calzettoni neri, magliette nere talvolta un po’ sbiadite come capita agli indumenti di cotone. La gente passava sotto le nostre case, osservava quella funerea esposizione monocolore e poteva affermare, con assoluta certezza che lì, a quel piano, viveva un vero dark.

quel pop new wave da serie C

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C’è poi la serie C composta da un unico girone in cui militavano tutte quelle band e artisti che erano a metà tra la new wave e il pop, anzi più verso il pop che la new wave, comunque composta da teste di serie di tutto rispetto che erano gli OMD, i Propaganda, gli Human League, i Talk Talk, i Visage, i Tears for Fears, i Blancmange, Lloyd Cole, i Big Country, i The Cult e tutta quella roba lì che passava a Deejay Television. Per la cronaca, mentre la serie A potete immaginare da chi fosse frequentata, in serie B militavano quelli subito sotto ai grandi campioni, roba comunque di tutto rispetto del calibro di Echo and the Bunnymen, Chamaleons, Soft Cell e Comsat Angels. In serie C invece rientrano quelli che, alla peggio, ti alzavi dai divanetti e li ballavi perché comunque sempre meglio dei Modern Talking o di Tracy Spencer e di tutta la merda italodisco che non ho mai capito perché tutti, poi, l’abbiano additata come un prodotto originale come quelle scarpe che oggi esportiamo in tutto il mondo e che rendono milioni di persone inscopabili a livello globale.

Erano comunque cantanti che tutto sommato nei video accennavano movenze un po’ dark e sulle riviste commerciali erano già considerati ampiamente alternativi e al terzo White Lady la soglia critica scendeva sempre, irrimediabilmente, quindi si riempiva la pista. Ma, come potete immaginare, per chi aveva il potere di giocarsi fuoriclasse di altri pianeti come Polyrock, Durutti Column, Tuxedomoon, The Sound, Clock DVA o Suicide o, comunque, sintonizzarsi su prodotti più facilmente e oggettivamente categorizzabili come Joy Division, The Cure e Bauhaus ma sempre di qualità eccelsa, ballare i ritmi ordinari di brani piuttosto commerciali costituiva una pratica da seguire in modo distratto, come un virtuoso abituato a Rachmaninov approccia una sonatina in do maggiore di Muzio Clementi. Sigaretta in mano e consumazione dall’altra, la passione per le atmosfere cupe doveva esser giustamente impiegata proporzionalmente al livello di impatto emotivo del sonoro sullo stato d’animo.

Poi sapete come è andata a finire, il tempo dilata qualsiasi ricordo e oggi certi ascolti se li filano in pochi mentre le mezze calzette delle riviste patinate sono finite nel calderone della memoria collettiva a simboleggiare un periodo e una scala di valori di giudizio che, se avete vissuto quegli anni perché ci siete cresciuti, come me, allora erano assolutamente rigidi. In serie C c’erano per esempio anche gli Eurythmics, che a me al terzo pezzo già mi annoiavano pur essendo sempre tra le prime tracce delle compilation ufficiali per nostalgici (che poi trovo che farsi preparare compilation da altri al di fuori di me un abominio). Un po’ troppo pretenziosi, nevvero? Piuttosto ben vengano gli Heaven 17, eleganti, con quelle belle pettinature e direttamente da Sheffield che, ricordiamolo, doveva essere un bel concentrato di british sound tra la fine dei 70 e i primi 80. Oltre al celeberrimo “Let me go”, che nelle versioni extended play riuscivi ad ascoltarlo anche per venti minuti senza dare di matto, a me piaceva molto questo pezzo qui. Anche per la vocalist, se ve la devo dire tutta.

ti stanno da dio

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In processione, tra il carro funebre e l’officiante, una amica al mio fianco mi sgomita e con un impercettibile gesto della testa mi fa notare le scarpe del parroco. Nere, scamosciate, collo alto quasi da polacchina, pianta larga, buona fattura, lievemente bombate e con una ampia stringatura che dalla caviglia arriva sino alla fine del dorso del piede. E all’istante la mia mente corre subito a molti anni prima, quando con un manipolo di amici fidati si frequentava quel negozio di articoli ecclesiastici nel vicolo che scendeva a lato della cattedrale, quello che aveva in vetrina tutto il necessaire per la messa, il vestiario più appropriato per le funzioni da festività, tuniche da cerimonia, calici e crocifissi di tutti i tipi. Un giorno passando di lì notammo quelle scarpe nere da prete, di design innovativo e, soprattutto, a buon prezzo, in un momento in cui le scarpe che il nostro look all black imponeva erano inaccessibili economicamente e non distribuite in zona. Inutile aggiungere che l’e-commerce non esisteva ancora e, comunque, non avremmo avuto i soldi. Il più temerario del gruppo entrò per primo, era quello con l’acconciatura meno peggio, e scoprì che il commesso era un ex compagno di classe delle elementari. Si prospettò all’istante una transazione in discesa, senza l’imbarazzo di chiedere un accessorio tecnico forse riservato agli addetti ai lavori e che altrimenti avrebbe potuto esserci negato. Nel giro di qualche giorno tutti noi calzavamo quel modello di scarpa new wave di tutto rispetto, meno blasonata di quella d’ordinanza ma senza dubbio molto originale. Il commesso ebbe più di un encomio da parte del proprietario per l’improvvisa impennata degli affari e l’aumento degli ordini. E nel corso delle nostre scorribande nei locali della metropoli i più modaioli iniziarono a chiederci particolari su quelle calzature così fuori dall’ordinario, riguardo alle quali cercammo sempre di mantenere un alone di mistero.

lo spleen e i peanuts

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Tanti sforzi per poi leggere quello che davvero ci si porta dentro in una striscia di Charles M. Schulz.

papà, che cosa era la new wave?

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