tutto il mondo è cantiere

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Ai grandi teorici e ai paladini del lavoro da casa gli manderei un video da una manciata di secondi che dimostra il forte limite di quella che tutti spacciano come l’evoluzione decisiva del terziario per chi, come me, può trascorrere senza problemi intere settimane senza metter piede in ufficio grazie all’Internet, a tutti i dispositivi che a Internet possono essere collegati e al telefono. Il forte limite del telelavoro per noi che operiamo nei servizi è l’imprevedibile simultaneità con il lavoro degli altri, soprattutto quando il lavoro degli altri è molto diverso dal nostro. Oggi, per dire, sono rimasto a casa per scrivere dei testi a cui sto lavorando senza tener conto dei lavori che il condominio di fronte al mio aveva programmato proprio per oggi. Alle 7.30 di questa mattina due energumeni con tanto di martello pneumatico, flessibile e trapani di varia foggia hanno iniziato a smantellare parte della copertura dei box proprio sotto al mio balcone. Il primo aspetto che salta agli occhi di questa storia è la concomitanza delle due cose. Non ho l’aria condizionata in casa quindi tengo tutto spalancato, di conseguenza o mi faccio venire un coccolone per il caldo cercando di isolare acusticamente l’ambiente chiudendo gli infissi o mi sparo punk industriale a tutto volume in cuffia (ma a quel punto tra i trapani del punk industriale e quelli dei carpentieri dell’est non c’è molta differenza). Da esperienze poco piacevoli come quella mia odierna si evince il vero vantaggio intrinseco dell’ufficio e del luogo di lavoro ufficializzati come tali, ovvero l’essere ambienti allestiti appositamente per contenere gruppi più o meno numerosi di persone chiamati a svolgere lo stesso genere di attività, quindi con esigenze di risorse e strumenti comuni. Tutti sul PC, o tutti sulla catena di montaggio, o tutti a passare prodotti sul lettore di codici a barre aspettando il bip per scorrere quello successivo, o tutti a trasportare merci guidando giganteschi autoarticolati e disturbando con abbaglianti, luminarie da autoscontri e iconografia di varia superstizione il resto della popolazione viaggiante, o tutti in cantiere a darci dentro con il martello pneumatico. L’integrazione di elementi singoli provenienti da queste differenti categorie in ambienti promiscui è tutt’altro che scontata.

oh no, l’ennesimo post sul telelavoro

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Ieri mi hanno portato fuori per pranzo al Pollo Campero del centro commerciale Torri Bianche di Vimercate, questo perché i miei clienti sono differenti dai vostri che invece vi fanno perdere tempo con le specialità del posto nei ristoranti costosi con tanto di boccia di amarone che poi vi sfido io a lavorare dopo. Ho chiesto così quanto spesso loro e i colleghi consumano la pausa pranzo e il fegato con le fritture sommarie lì ma dimenticavo che l’azienda in questione è una delle più accese sostenitrici del telelavoro. Hanno una sede fighissima che non vi sto a descrivere perché finisce che poi mi sgamano, ma la policy interna spinge i dipendenti a starsene il più possibile a casa e gli mette pure a disposizione connettività a banda ultra-larga, smartcoso e portatile ovviamente, ma soprattutto dei sistemi efficientissimi per fare le video-conferenze senza muoversi dalla loro abitazione.

Gli unici limiti sono di spazio, perché poi a casa devi avere intanto una poltrona comoda ed ergonomica come quelle degli uffici perché stare ore sulle sedie della sala come quella da cui vi sto scrivendo ora procura mal di schiena. E se non hai una stanza apposita da dedicare a studio, prima provi a ritagliarti una zona-ufficio in camera da letto, ma è poco pratica perché se la persona con cui la condividi vuole coricarsi occorre decidere a chi spetta il sacrificio della rinuncia e provate a indovinare l’esito. Quindi vieni declassato su uno dei vari tavoli della casa. Quello da cucina, da cui bisogna allontanarsi quando si approssima l’ora di cena. La scrivania della camera dei ragazzi, che diventa off-limits da una certa età in poi. L’ultimo stadio è rappresentato dai vani di serie B a partire dalla cantina, la soffitta, il box e il cesso, che spero per voi costituisca davvero l’extrema ratio.

Il secondo limite è il tempo, nel senso che sei tu che devi saper mettere degli orari all’interno dei quali inscrivere comunque la tua giornata lavorativa. Uno dei due ingegneri seduti come me al tavolo del Pollo Campero mi ha detto che gli capita di rispondere a e-mail a mezzanotte passata. Ma non è un mistero. Ogni tanto capitano anche a me certi periodi in cui il lavoro straripa dall’orario regolamentare e devo fare cose dopo cena o nel fine settimana, come del resto ho occasione di lavorare intere giornate o parte di esse da casa mia per un motivo o per l’altro. I vantaggi sono considerevoli ed è inutile che li stia a enumerare qui, ci tengo solo a sottolineare che c’è differenza tra lavorare da casa quando e come vuoi, nel senso che sei tu padrone del tuo tempo e quindi scegli in quali ore della giornata essere produttivo, per cui segui tua figlia nei compiti e poi azzanni le consegne dopo le sei del pomeriggio. Oppure se uno iper-mattiniero come il sottoscritto che alle 10 esce a correre perché ha già macinato cinque ore di produttività. Un conto è invece – nel mio caso è la cosa più frequente – dover osservare a casa lo stesso orario della vita in ufficio, quindi scordati di accompagnare tua moglie al lavoro, o di fare la spesa alle tre quando c’è meno casino al supermercato e via dicendo.

Ci sono anche non dico degli svantaggi, perché di questi tempi oggettivamente l’importante è lavorare comunque, ma dei diciamo piccoli aspetti del telelavoro che possono essere migliorati. A me per esempio ogni due per tre mi viene da aprire il frigo o la dispensa e sgranocchiare qualcosa, a qualsiasi ora del giorno. Magari stappare una birretta. Poi ci sono i miei due gatti che sono appiccicosissimi – sfatiamo il mito che vuole i felini come animali indipendenti e autonomi nei sentimenti – e mi vengono in continuazione in braccio, si mettono a camminare tra me e lo schermo del portatile, cercano in tutti i modi di catturare la mia attenzione. Per non parlare della pennichella. Mi sdraio due minuti nel momento più pericoloso per rilassarsi, che per me è a metà pomeriggio, ed è subito sera senza aver combinato nulla. Così ogni tanto penso che tutto sommato l’uscire alle sette e mezza vestito e sbarbato, affrontare la calca della metro, combattere con i colleghi che telefonano a voce alta dimenticandosi di avere un dispositivo mobile a disposizione per spostarsi a piacimento in ufficio e pranzare al Pollo Campero, tutto sommato non è male. Per la cronaca, ieri è stata la prima volta che ho mangiato al Pollo Campero e ho scelto il piatto con il bacon e una coca media.

chi ha detto che l’agilità dipende dal peso di una persona

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E non mi riferisco a quella bestia di Cappellacci e alla sua eleganza da nutria nell’apostrofare la sua rivale Michela Murgia, voglio dire, ridurre il confronto politico a battute che nemmeno i grillinOH WAIT! No, non volevo parlare di questo, ma del fatto che oggi si sta consumando la “Giornata del Lavoro Agile“, un’iniziativa del Comune di Milano volta a incentivare la filosofia del risparmio di tempo di chi si deve recare in ufficio ma potrebbe lavorare dove preferisce, come il Vostro. E il caso vuole che oggi, giornata del lavoro agile, io sia a casa per motivi meno green e smart. Ieri notte infatti la febbre è salita confermando una versione blanda dell’influenza che c’è in giro e così ho pensato di stare a riposo, ma per modo di dire. Lo sapete che in certi settori professionali mica ci si può permettere di ammalarsi sul serio. Si tratta del solito discorso: la compenetrazione tra privato e professionale è fantastica in ambio lavorativo, perché coltivare la mia presenza personale online anche in orari di ufficio può giovare alla mia professionalità. Il rovescio della medaglia è questo, che poi uno vorrebbe starsene nel letto con il bicchierone di latte e cognac e invece. Ma, considerando la media di volte in cui sono indisposto (per usare un termine di altri tempi) è un contro a cui facilmente ci si abitua. Il vero problema del lavorare da casa semmai è un altro. Le scorte di cibo che ho in casa sono tentacolari, e se vi devo dire la verità, io proprio non so resistere. Da stamattina avrò preso almeno un chilo a furia di snack e spuntini, e non è giusto. Il telelavoro in realtà serve a dimostrare solo l’inferiorità dell’uomo nei confronti della dispensa.

il suono della mela

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Quando sento parlare di lavoro da casa, metto mano all’abbonamento ferroviario. Prendo la tessera con il chip, la esamino e penso che sì, sarebbe bello farne a meno e avere l’ufficio negli stessi locali in cui vivo per non essere costretto a subire ritardi, scioperi, la gente che legge Volo e Baricco e Ken Follet e che discute di argomenti da brivido come Berlusconi a Servizio Pubblico, e quando non fa nulla di ciò prende a ditate dispositivi elettronici da svariate centinaia di Euro. Ma ora, quando mi capitano pensieri di questo tipo, cerco conforto immediatamente in un’associazione di idee che è un suono. Ed è il suono di accensione che emettono di default i computer Apple, avete presente quell’accordo di synth che non è mai stato cambiato.

Bene. Tanti tanti anni fa condividevo un monolocale con una partita IVA. Voglio dire, lavoravo in casa e ciò di cui mi occupavo non richiedeva la mia presenza in ufficio e poi si trattava di un modello operativo che mi consentiva di variare – per quanto possibile – la tipologia di clienti e di attività. Si trattava di un caso limite, in cui il mio ufficio distava due passi contati dal letto. Non si poneva il problema del dress code. Non si poneva il problema di prendere o no l’ombrello in caso di tempo dubbio. La scelta tra il prepararsi la schiscetta la sera prima o lasciarsi coinvolgere nelle pause pranzo con i colleghi per non sembrare troppo riservato era vinta in partenza da una terza opzione. Perché non c’erano orari, non c’era il caffè alla macchinetta, non c’erano colleghe con cui provarci o monitor in cui sbirciare le consuete attività di perdita di tempo informatizzata, ai tempi molto più offline che online.

C’era solo l’uomo, e che uomo, e la macchina, e che macchina. Un Mac Power PC 4400 con 16Mb di Ram e 2Gb di hard disk per una manciata di secondi cronometrati dal momento della pressione del pulsante “on” alla disponibilità di utilizzo. E lo so che ridete per la configurazione, ma ai tempi era più o meno il top per un ufficio casalingo come il mio. E siccome ero molto più creativo di oggi, l’avevo caricato con ogni gadget virtuale che trovavo sui cd allegati alle più note riviste dedicate. La vocina che ti dice l’ora. Il sistema per aprire la finestra di salvataggio file corrispondente alla cartella su cui si faceva clic con il mouse. Il programmino che ti avvertiva qualche secondo prima delle rarissime volte in cui il sistema operativo (il 7 punto qualcosa) andava il tilt.

Ma se avete visto film come Shining, sapete meglio di me che l’eremitaggio estremo, e nel mio caso pure nerd, instrada i più labili verso un decorso poco nobile. Magari non porta proprio alla pazzia, ma a qualcosa che sta in qualche sottoinsieme della depressione. Questo anche perché avevo impostato la sveglia sul mio Mac. C’era un sistema grazie al quale era possibile programmare l’ora di accensione del computer, decidendo quale programma lanciare in esecuzione automatica. Ed è facile immaginare la sequenza che ogni mattina, talvolta anche a notte fonda a seconda delle scadenze, mi sollecitava a recarmi al lavoro, infilando le pantofole e percorrendo quel metro e cinquanta che separava il letto dalla scrivania. La sequenza era: suono di accensione Apple, qualche istante di ronzio, avvio automatico del lettore cd in cui avevo preparato il disco più adatto a un risveglio apparentemente rassicurante. Moon Safari degli Air, per esempio. Questa routine giorno dopo giorno, settimana dopo settimana. Qualche mese, e poi basta.

Perché, a lungo andare, l’effetto logorante di quella combinazione di rimandi all’abnegazione del settore di appartenenza, in parole povere lo svegliarsi con il primo pensiero di essere quello che si fa e non quello che si è, mi aveva indotto a un rigetto da ambienti piccoli ad alta densità tecnologica. Vedere come prima luce del giorno l’immagine del desktop induceva a una visione distorta della realtà. Con il tempo ho imparato così ad apprezzare il sano vecchio mondo in cui le persone si lasciano la casa alle spalle, danno un bacio alla mogliettina e affrontano quotidianamente la moltitudine dei propri simili per questa o quell’altra occupazione.

Così, come è finita per i protagonisti di questa storia? L’uomo lavora felicemente in un ufficio – con gli alti e bassi che hanno tutti – ma a sentire il suono di benvenuto del Mac, che è lo stesso ancora nel 2013, ogni mattina ha una sorta di riflesso condizionato. La macchina, il Power PC 4400, vive da più di dieci anni una meritata pensione nel suo garage di casa, in una zona opportunamente occultata al riparo dai raptus di “fuori tutto” che periodicamente colgono i membri delle famiglie come la mia, a rischio soffocamento da dispositivi elettronici obsoleti se non guasti. Ma, malgrado l’età, impiega ancora una manciata di secondi dalla pressione del tasto di avvio all’essere operativo, con lo stesso sfondo sul desktop.

padroni a casa nostra

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Oggi faccio sciopero di sponda: le maestre di mia figlia aderiscono a pieno diritto, e questa volta tocca a me – con enorme piacere, anche se a casa mia vige la regola non scritta che chi ha il reddito più basso della coppia deve sacrificarsi agli imprevisti – il turno di baby sitter. In realtà sto lavorando, non proprio in questo momento in cui aggiorno il blog, diciamo che sono in pausa. Uno dei vantaggi del mio lavoro è proprio il poter lavorare da casa: mi basta il pc e il telefono. E c’è un gran dibattito su questo tema, alimentato soprattutto dai produttori ICT che spingono le imprese a adottare sistemi di comunicazione e collaborazione da remoto, in modo tale che un dipendente, da casa, possa usare strumenti e risorse come se fosse in ufficio. E la questione è quanto sia necessario recarsi in ufficio per essere produttivi.

Un tempo avevo colleghi dai quali si imparava sempre qualcosa, che incontravo più o meno ogni giorno in un open space che si chiamava autarchicamente stanzone. Uno spazio in cui a turno ciascuno faceva il dee-jay, poi c’era il popcorn in busta nel forno a microonde, good vibes a profusione e pause come se piovesse, ma il resto del tempo rendeva al cubo. Voglio dire, un’agenzia di creativi deve avere la testa bella libera, no? Poi c’è stato il ricambio generazionale e il principale interlocutore dei nuovi collaboratori è diventato Mark Zuckerberg. Le casse dei pc sono state soppiantante dagli auricolari, nemmeno più collegati all’ipod ma direttamente al telefono mobile (che è una cosa che concettualmente non sposerò mai. Io voglio continuare ad avere un dispositivo per una sua funzione specifica, perché se ne ho uno solo per tutto e mi si guasta, di colpo devo rinunciare alle chiamate, al lettore mp3, alla macchina fotografica e al palmare. Per questo mi porto sempre dietro un pacco di roba, ma ne vale la pena, ve lo assicuro). Intanto è cambiato anche il colore: il rapporto tra elettori centrodestra vs centrosinistra si è ribaltato (seguendo perfettamente il trend nazionale), a discapito peraltro della qualità stessa del lavoro svolto, ed è un dato di fatto che se volete vi dimostro. Per banalizzare, posso dire che è difficile utilizzare uno strumento che necessita di due mani se una è impegnata a fare il saluto romano.

Tutto questo per dire: la produttività è un prodotto esponenziale che scaturisce dalle vibrazioni reciproche, onde che rimbalzano di corpo in corpo e, pur mediate da chi ci ha messo a disposizione il budget per creare, vanno libere a inventare una frase, un nome, una foto, un logo, un jingle, un video. I corpi quindi devono essere lì, cuori che palpitano nella stessa stanza. Perché l’odore non traspira in videoconferenza, e anche l’odore altrui forgia quello che stai facendo e ne ibrida positivamente il risultato finale. L’odore.

Mi direte: sì, roba da Mad Man, era così nel secolo scorso. Già. Talvolta ho l’impressione che tutti usino lo stesso profumo e lo stesso dentifricio. E quando anche l’odore è un franchising, si può lavorare da casa che tanto è lo stesso. Vedersi su skype, il muro incolore dietro, l’effetto lente sui lineamenti, io con la gatta in braccio, l’altro felino al calduccio del tower, e un buon vinile che suona a 33 giri. Se stacco gli occhi dal monitor, però, appena le pupille si adattano allo sbalzo di luminosità, mi guardo intorno ma non vedo nessuno.

non fatemi parlare

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