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«Che entri il prossimo aspirante concorrente!»
Sei uomini anziani fanno il loro ingresso sul palcoscenico. Il silenzio della Covid-edition è assordante. I quattro della giuria seguono le indicazioni della sceneggiatura abbozzata sui fogli che hanno davanti e si attestano sull’espressione di incredulità. Il giudice in quota giovani d’oggi lancia uno sguardo interrogativo al giudice in quota nostalgici rockettari attempati, il più vicino per motivi anagrafici al gruppo che deve esibirsi e che forma una fila ordinata a fianco di quello che sembra essere il cantante che è stato insignito di un microfono.
«Buonasera a tutti»
«Buonasera a voi. Chi siete?»
«Siamo i Rasna e veniamo da Savona.»
«Fa un po’ strano vedere artisti con i capelli bianchi a questo programma.»
«Eravamo una band nei primi anni 80. Suonavamo un genere un po’ di nicchia che però si stava diffondendo nei circuiti alternativi di tutta Italia».
«A quale stile ti riferisci?», chiede fintamente incuriosito – perché ha imparato bene i dialoghi prima di andare in onda – il giudice in quota nostalgici rockettari attempati.
«Facevamo new wave, dark e post-punk.»
«Tipo?»
«Cure, i primissimi Simple Minds, cose così. Come per tanti altri gruppi il nostro sogno è rimasto chiuso in un cassetto, anche se era un periodo di grandi fermenti e di molte opportunità. Ognuno così ha preso la sua strada e sono volati quarant’anni. Da un po’ di tempo però questo genere è tornato di moda ed è alla base di molta musica indie che si sente in giro. Il nostro tastierista ci aveva fatto una promessa: il primo giorno della pensione vi chiamerò uno ad uno per formare di nuovo la band.»
«Sembra la trama dei Blues Brothers», irrompe il giudice in quota pop internazionale dall’alto della sua giacca improbabile.
«Sì, però nessuno di noi è stato in galera». I quattro giudici si lasciano andare a una risata di decompressione per una delle tante situazioni imbarazzanti in cui sanno già a priori che dovranno dire di no a chi si sta per esibire, anche se farà faville. I candidati impresentabili servono a confermare al pubblico che quella che si sta celebrando non è una festa della musica, bensì una festa dello spettacolo della musica.
«In realtà la reunion l’abbiamo fatta un po’ prima della pensione, anche perché è difficile dire se mai ci arriveremo. Ci siamo detti che effetto può fare il genere che suoniamo di questi tempi, oggi che in Italia a nessuno interessa più niente del rock.»
«A me interessa!», si precipita a dichiarare il giudice in quota pubblico di talent show. «E credo anche a Gabriel», riferendosi al giudice in quota rockettari attempati.
«Il fatto è che i ragazzini non suonano più perché hanno altri interessi. Quando eravamo giovani noi suonavamo per darci un tono, e suonare post-punk ci permetteva anche di differenziarci dal resto dei musicisti fermi al metal o ai derivati del jazz.»
«Un approccio un po’ presuntuoso», incalza il giudice in quota giovani d’oggi.
«No, scusaci, non voleva essere mia intenzione. Se fossimo presuntuosi non saremmo qui a quasi sessant’anni a metterci in ridicolo in una selezione pensata per lanciare star del pop. Siamo qui perché innanzitutto suonare è sempre bello e divertente…»
«Sono d’accordo», aggiunge il giudice in quota giovani d’oggi.
«…e poi perché il genere che suoniamo ha influenzato anche molta della musica che si produce adesso e che abbiamo scoperto grazie ai nostri figli.»
«Vuoi farmi credere che conosci anche la trap? Dai, fammi qualche nome».
«Mi piace molto Speranza. Poi Liberato e per certe cose anche Massimo Pericolo. Molto meglio questa generazioni di artisti rispetto a quelli di dieci anni fa, come i Club Dogo o Fabri Fibra».
«Sono d’accordo e devo dire che mi hai sorpreso», dice il giudice in quota giovani d’oggi. «Ma cosa c’entrano i Cure con Liberato?»
«Credo si tratti di una sorta di proprietà transitiva. C’è molto dark nel trip hop degli anni 90, come quello dei Massive Attack o degli Archive. Per dire, i Massive Attack dal vivo fanno una cover di “Bela Lugosi’s Dead” dei Bauhaus e hanno campionato “10.15 Saturday Night” dei Cure. La trap richiama la lentezza del trip hop. Mi pare che come prova sia inconfutabile.»
«Ne sai di musica, eh.», gli risponde il giudice in quota pubblico da talent show.
«Sì, credo di amarla così tanto da precipitarla in un’ossessione. Per farvi capire, ho montagne di dischi in casa e seguo la vostra trasmissione sin dai tempi di Giusy Ferreri, e perdonate il tentativo di captatio benevolentiae.»
«Non ho capito ma fa lo stesso. Mi pare di notare però una certa ricerca filologica nella vostra strumentazione», obietta il giudice in quota rockettari attempati.
«Corretto. Usiamo gli stessi strumenti che suonavamo quando abbiamo messo su la band. Il nostro tastierista, con tutto quell’armamentario, avrebbe bisogno di un facchino. Alla sua età, da solo non ce la fa più.»
«Allora siete nel posto giusto», aggiunge il giudice in quota pop. «Diventerete ricchi e famosi e potrete permettervi una squadra di roady.»
«In verità puntate più sulle groupie», interviene il giudice in quota rockettari attempati ma, considerato quello che si legge sui giornali, nessuno ride, tantomeno i sei musicisti sul palco. Così, per salvare la situazione, fa l’ultima domanda.
«E il vostro nome, Rasna, che significa?»
«Oh nulla», risponde il cantante. «In realtà è un nome finto. Avrei usato il nome vero del complesso in questo racconto ma preferisco non essere rintracciato sul mio blog dai miei ex compagni di band e non essere preso per un idiota per aver scritto una cosa così a cinquantatré anni».
«Non ti biasimo», lo rassicura il giudice in quota giovani d’oggi. «Bando alle ciance, che cosa ci fate ascoltare?»
«Uno dei primissimi pezzi che abbiamo composto. Si intitola “Aspettando”».
«OK. Il palco è vostro. Spaccate.»

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