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Parlare di quote rosa nella musica è un controsenso ma solo in apparenza. Il rock è da sempre monopolio maschile e il luogo comune vede la presenza delle donne solo nel ruolo di comparse seminude nei video, al seguito delle band come groupies, mogli rompicoglioni ostacolo alla carriera o amanti sfasciafamiglie. Nel migliore dei casi sono invece muse ispiratrici di depressione, fonte di dissidi tra i componenti dei gruppi fino allo scioglimento o oggetto di discordie tra cantanti di band rivali e conseguente causa di suicidi di frontman. A conferma di ciò è la visione della donna come regina incontrastata del pop propria della nostra cultura occidentale, in un incrocio tra soubrette da MTV, ballerina e interprete di hit confezionate su misura da autori e parolieri maschi. Un vero e proprio soprammobile da spettacolo, rigorosamente sexy e oggettiva macchina da soldi.

A una analisi meno superficiale, è facile scoprire la quantità – e la qualità – di voci femminili che si stanno imponendo nel panorama della musica indie e alternativa, un altro baluardo marchiato tradizionalmente dal cromosoma xy. Per me sono una vera e propria fonte di culto, soprattutto se si tratta di artiste singole, cioè non front-woman di gruppi. Ce ne sono un’infinità ma, se vi fidate dei miei gusti, potete cominciare da queste.

Inizio da Valerie June ma solo perché è la più fresca di uscita discografica, ne ho parlato qui. Viene da Memphis e, con il suo particolarissimo timbro vocale, compone e interpreta un mix di folk americano e blues delle radici suonati con banjo, archi, steel guitar a fianco degli strumenti tradizionali. Un po’ più a nord, precisamente a Toronto, vive e suona Cold Specks, nome d’arte di Ladan Hussein, cantautrice di origini somale che ha pubblicato tre dischi bellissimi prima di interrompersi per una storia un po’ triste che trovate qui ma dalla quale si sta riprendendo. Non vediamo l’ora di mettere le mani – e le orecchie – sul nuovo album a cui sta lavorando e che pubblicherà a nome Ladan, questa volta.

Poi c’è la divina Sevdaliza – raffinatissima artista olandese ma di origini iraniane – che nel 2020 ha pubblicato “Shabrang”, uno dei dischi più belli dell’anno, anche se chi ha scritto questa recensione probabilmente pensava ad altro. Il genere è uno dei miei preferiti e, se fossimo negli anni novanta, potremmo definirlo trip-hop. Virando questo filone verso il neo soul e l’r&b, stile che vede come interpreti di punta FKA Twigs e Solange Knowles, vi consiglio la promettente Brittney Denise Parks, meglio nota con lo pseudonimo di Sudan Archives, autrice di un suadente album uscito nel 2019 e dal titolo “Athena”.

A cavallo tra le cantanti del paragrafo precedente e quelle che troverete sotto metterei – per questioni di sonorità – Laetitia Tamko, ovvero come è identificata all’anagrafe Vagabon, musicista e producer newyorkese ma di radici camerunensi. Il suo disco omonimo del 2019 merita ascolti attenti, ma anche il suo esordio “Infinite Worlds” del 2017 non scherza, in quanto a bellezza. Non sfigura al suo fianco Sunny War, musicista e cantante folk-punk con venature blues di Los Angeles. Proprio in questi giorni esce il suo nuovo album “Simple Syrup”, che non vedo l’ora di ascoltare.

Poi ci sono le cantautrici più come ce le immaginiamo noi dall’Italia, chitarra (a volte distorta) e voce con sconfinamenti nell’indie rock. Partendo dalle più elettriche valgono sicuramente una discografia completa nella vostra collezione di vinili Lucy Dacus, Phoebe Bridgers e Julien Baker – che non a caso si riuniscono anche in un supergruppo dal nome Boygenius – ciascuna con le sue peculiarità. La prima è la più ruvida di tutte, Phoebe Bridges quella più morbida e Julien Baker di sicuro la più alternativa. In questa macro-categoria è doveroso ricordare gli archetipi, secondo me riconducibili a P. J. Harvey e Sharon Van Hetten, sulle quali immagino sappiate già tutto ed è inutile che vi inviti ad ascoltarle.

Completamente fuori da tutti gli schemi Merrill Garbus, nota come Tune-Yards (che in realtà dovremmo scrivere tUnE-yArDs), un’artista statunitense sulla scena da più di dieci anni che sperimenta curiosi incroci tra indie-rock, afrobeat, elettronica e tante altre cose. Tra le ultimissime uscite un po’ fuori dagli schemi di quest’anno vi segnalo quella di Cassandra Jenkins, songwriter di Brooklyn che ha dato alle stampe da poco un sorprendente album dal titolo “An Overview on Phenomenal Nature”.

Mi sposto in Europa per condividere con voi la mia passione per Nadine Shah, vera indie-rocker dalle venature dark (agli esordi) e di più ampio respiro negli ultimi lavori. Se volete saperne di più qui trovate la mia recensione di “Holiday Destination”, album del 2017, e qui del recentissimo “Kitchen Sink”. Tra le mie preferite, anzi ai vertici delle top ten delle cose che ascolto più spesso, c’è Anna Lena Bruland, in arte Eera. Il suo “Reflection of Youth” propone in una veste psichedelica e alternative certe atmosfere rarefatte che Lana Del Rey interpreta in modo più modaiolo. Last but not least la giovane Nilüfer Yanya, attiva dal 2016 e autrice di un nuovo EP dal titolo “Feeling Lucky” e contenente il brano “Crash” che, da queste parti, da qualche giorno è in rotazione continua.

Chiudo con due certezze che, purtroppo, non si sentono da un po’: la blasonata superstar M.I.A. – sto aspettando il suo nuovo lavoro annunciato in uscita quest’anno – e la meno celebre ma altrettanto sublime Santigold che, come la cantante di “Paper Planes” mescola rap, reggae, drum’n’bass e r&b ma di cui da un po’ ho perso le tracce.

Se avete qualche suggerimento o mi sono dimenticato qualcosa, fatevi sentire.

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