luci della ribalta

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Il vero problema dell’insegnamento è che noi docenti siamo legati all’idea di costituirci modello per i nostri allievi. Cioè che, al netto del supporto al raggiungimento dei traguardi delle competenze, che è il nostro diciamo core business, gli studenti ci prendano per esempi di vita. Vi posso assicurare che nessuno dei miei bambini si è ancora presentato in classe con la t-shirt degli Idles, anche se stamattina Elisa indossava la maglietta dei Ramones, quella che conoscete tutti, la più iconica, ma forse perché avevamo le prove generali dello spettacolo di fine anno a conclusione del progetto di teatro/musica con lo specialista, è stato chiesto ai bambini di vestirsi di nero, e a casa di Elisa la maglietta dei Ramones era l’indumento più vicino a un outfit total black da palcoscenico. Che poi la vera maglietta dei Ramones non sarebbe proprio nera nera, piuttosto nera stinta come erano stinti loro. Ma, sfumature a parte, è difficile che dei genitori comprino a ragazzini di 10 o 11 anni una tenuta da Robert Smith da tutti i giorni, quindi per occasioni come queste va bene qualsiasi cosa trovino nei cassetti dell’armadio.

Comunque, tornando al problema dell’esuberanza di personalità dei professionisti della scuola, quell’impeto in cui ciascuno di noi docenti si percepisce come un John Keating pronto a strappare le pagine più reazionarie dei libri di testo e a gratificare ragazzini che salgono in piedi sul banco in senso proprio o in senso lato e traslato, io non sono da meno. E vi confesso che è proprio lo spettacolo che abbiamo messo in piedi, insieme alle altre quinte, a crearmi dei problemi. Intanto perché la trama e l’affidamento dei ruoli penalizza fortemente la mia classe, nell’insieme siamo quelli che hanno meno spazio, e questa cosa mi somiglia tantissimo. Meno spazio ho e più mi sento felicemente vittima e forse questa attitudine al ridimensionamento l’ho trasmessa efficacemente e loro davvero mi hanno preso come modello di tendenza verso il basso.

Non solo. I bambini delle altre quinte sono stati designati per lunghi monologhi e scene ad alto tasso di drammaturgia, mentre noi abbiamo una gag molto veloce, un balletto da tamarri e un finale degno del teatro brechtiano. Per non far loro pesare questa disparità, frutto della smania di protagonismo e di accentramento di alcune colleghe, che addirittura si permettono di mettere in discussione le scelte dello specialista al cospetto degli studenti, una tecnica che mette a rischio la sua autorevolezza, dicevo che per non far pesare loro questa disparità ho puntato sul fatto che salire sul palco alla fine di uno spettacolo è un privilegio riservato alle star. Gli ho portato, come esempio, i concerti, nei quali per ultima è prevista l’esibizione dell’headliner e chi lo precede è solo lì per scaldare la folla per l’atto conclusivo, l’acme, il momento culminante. Gli ho ricordato che quando ho suonato al concertone del Primo Maggio noi abbiamo aperto la manifestazione alle due del pomeriggio, quando la piazza era già bella piena ma la diretta tv sarebbe cominciata un’ora più tardi, e in quell’edizione c’era Sting subito dopo il tg, a coronamento dell’esibizione di decine di artisti sconosciuti come noi.

Vada come vada, è indubbio che non c’è nulla di meglio di un laboratorio teatrale a conclusione di un percorso scolastico di cinque anni, un’esperienza nella quale si esordisce bambini e che si conclude con le mestruazioni e la puzza di crescita. Vederli scorrazzare sotto le luci colorate e la sala al buio, nel silenzio delle prove generali e avvolti nel profumo del legno del palcoscenico, inconsapevoli del fatto che il giorno dello spettacolo la platea non sarà vuota ma ci saranno duecento persone a vederli, trasmette l’emozione forte del tempo che passa e della vita che va. Aspetti che cogliamo solo noi ex genitori di bambini di quell’età, divorati dal rimorso di non poter rivivere certe emozioni da capo, perché su di loro tutto scorre via liscio, senza ieri né domani, in un eterno presente che capire non si sa.

Li osservo provare e mi immedesimo in uno di quei quasi ex bambini, quando saranno evaporate le sensazioni di panico da palcoscenico e l’euforia degli applausi, e mi chiedo se, la sera dopo lo spettacolo, nel loro lettino, magari a seguito di una pizza con tutta la famiglia come premio per la giornata, rifletteranno sul vuoto che li aspetta davanti e l’ignoto che li sta per avviluppare nelle varie declinazioni della crescita, degli affetti, dei cambiamenti, dei dolori, delle passioni, dei dispositivi elettronici che si romperanno e degli ombrelli che dimenticheranno sui treni e del caos della vita. Mi chiedo se ripenseranno a quel turbamento appena provato, tutti in cerchio sul palco a recitare una versione approssimata di quello che sono diventati in quella manciata di anni in cui hanno vissuto, non per loro scelta, in mezzo ad altre persone a grandi linee simili a loro.

E non ho potuto non mettere in relazione questo spettacolo d’addio con un’iniziativa analoga che ha coinvolto una seconda, a cui ho assistito il giorno prima, nello stesso spazio. Esseri umani di una dimensione veramente ridotta, con quell’incertezza in entrambi i ruoli – quello di bambini piccoli e quello di attori – che è poi il principio attraverso il quale inducono gli adulti a prendersi cura di loro, ad accudirli in quanto figli (o bambini tout court) e a insegnargli le cose che sappiamo per aiutarli ad uscirne fuori, da quell’incertezza che ci ispira così tanta tenerezza.

In generale un insegnante non dovrebbe essere troppo sensibile, tendere alla malinconia, metterci troppa passione, caricare le aspettative, portarsi il lavoro a casa, voler cambiare le persone, aspettarsi la riconoscenza da chicchessia. Ogni giornata ha un suo tema, una sua canzone, un colore imprevedibile, un pezzo di sé da portare a scuola e che non è detto che serva a qualcosa.

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