Il motivo per cui la scuola prevede tre mesi di vacanza per studenti e insegnanti principalmente è dovuto al fatto che, se non vi fosse soluzione di continuità, studenti e insegnanti si metterebbero le mani addosso. Anzi, coinvolgerebbero il personale amministrativo, i collaboratori ai piani (già bidelli) e persino i presidi – e ci aggiungerei pure i genitori e i rappresentati dei libri – in una rissa globale in cui darsele di santa ragione. Ragazzi, che fantastico sfogo che sarebbe. Sogni a parte, le avvisaglie di questo decorso interrotto sagacemente, per fortuna, dal suono dell’ultima campanella dell’ultimo giorno di scuola, sono già nell’aria a partire dal rientro dal ponte delle vacanze di pasqua la cui durata è direttamente proporzionale alla profondità della consapevolezza che si stia molto meglio a casa con l’educazione parentale – lato utente finale – e con lo smart-working – lato operatore di settore.
Io lo so il perché: a fine maggio i bambini puzzano di bambino esagitato e sono fuori da ogni grazia di dio, fattori che, uniti alla stanchezza diffusa e incontrollata dell’intero ecosistema pedagogico, rendono l’esperienza didattica decisamente faticosa. I docenti non sono meno nervosi, e lo scontro è inevitabile. Fino a quando si consuma un miracolo, lo stesso che si ripete dalla notte dei tempi. C’è una data di fine anno scolastico che sancisce la vittoria sulle barbarie e sull’oscurità e il ritorno a un umanesimo sociale e conseguente rinascimento relazionale in cui tutti, al sicuro dalle proprie vacanze effettive o presunte (quelle degli insegnanti sono presunte, quelle degli studenti lo sono solo nel caso di debiti didattici) tornano a ricoprire il proprio ruolo, almeno fino al ponte di pasqua dell’anno scolastico successivo. I docenti, a preparare il materiale in vista della ripresa e a ricostruire la propria dimensione auto-percettiva con aspettative che nemmeno un prof de “L’attimo fuggente”. Gli studenti, a fare il pieno di buoni propositi come ringraziamento per “averla scampata bella ancora una volta e il prossimo anno si comincerà a studiare e riordinare gli appunti presi in classe sin dal primo giorno”, proposito la cui bontà viaggia con una data di scadenza inferiore a quella di un cartone di latte fresco.
Io non sono da meno. Da qualche settimana rispondo ai miei bambini come fa quel cabarettista specializzato nell’interpretazione degli stereotipi umani che popolano le scuole italiane. Sono ormai dipendente dalle sue gag, in cui mi ritrovo moltissimo, e oramai, privo per ragioni anagrafiche di ogni inibizione, non riesco a trattenermi. Una sorta di incontinenza di sarcasmo che prima o poi, lo so, mi si ritorcerà contro. Stamattina Alex è venuto a dirmi che Nathan aveva detto una parolaccia. Ho chiesto ad Alex che parolaccia avesse detto Nathan – una richiesta pericolosa, lo so, ma i bambini sono solitamente molto pudichi nel ripetere volgarità al cospetto di un insegnante, diventano subito rossi e a malapena si spingono a pronunciare le iniziali oppure danno suggerimenti da gioco a quiz su raiuno, cose tipo “ha detto quella parolaccia con le due zeta” – e invece Alex, che è esonerato da religione, ha riportato fedelmente, letteralmente e senza peli sulla lingua una bestemmia da competizione. E siamo solo in prima elementare.
Io non sono riuscito a trattenermi e gli sono scoppiato a ridere in faccia. So di non aver dato un bell’esempio, peraltro in quell’istante tutti mi stavano guardando – c’era l’intervallo – deducendo cosa fosse accaduto perché nel frattempo la notizia si era diffusa. Ora andranno a casa a dire ai genitori che “il maestro ride quando bestemmiamo”, ma non è quello il punto. Alex, lo dovreste vedere. Ha due guance così carnose che ora che siamo a fine anno e vale tutto gliele stringo – delicatamente – con una mano in modo che le labbra si concentrino estrudendosi dallo spazio dedicato e poi gli chiedo di dire cioppi cioppi, che è un gioco che faceva mia figlia quando aveva l’età di Alex, fa sembrare i bambini dei pesci e mi dà molta soddisfazione.
E comunque alle colleghe più maestre degli altri, le ipermaestre, in questo periodo si accentua quel tono cantilenato con cui – per deformazione professionale – si rivolgono anche ai colleghi (farei un podcast audio solo per farvi capire a cosa mi sto riferendo, ma se siete insegnanti della primaria come me avete capito bene) e che lo sforzo di tenere a freno il nervosismo per la fine dell’anno e tutto quello che abbiamo detto prima, porta la cantilena all’eccesso, una roba da non credere, quasi da film horror.
E io, al cospetto di così tanta stupidera in classe, di coltri atmosferiche gravide di entusiasmo e ormoni prepuberali così fitte da tagliare con il coltello, avrei tanta voglia di smettere di fare lezione all’improvviso e imbastire, seduta stante, un dj set di musica deprimente come so io dedicato proprio a loro, ai miei bambini, così carini le prime settimane di scuola, così diabolici a maggio. Io me ne intendo di musica deprimente. Sono cintura nera di musica deprimente. Potrei soffocare quella supponenza e quella boria tipica di chi ha tutta la vita davanti in un istante, con versi come quelli di “Endsong” dei Cure, quando Robert Smith verso la fine della canzone canta che
è tutto finito, è tutto finito
mi perderò nel tempo, non ci vorrà molto
è tutto finito, è tutto finito, è tutto finito
lasciato solo senza niente alla fine di ogni canzone
lasciato solo senza niente alla fine di ogni canzone
lasciato solo senza niente
niente
niente
niente